E se si trattasse di una crisi endemica?

25 Giugno 2024

Il verbo krino, in greco, indica l’atto del giudicare, del distinguere.

E krisis deriva proprio da krino (verbo); ossia, dal distinguere e dal giudicare. D’altronde, ce l’ha insegnato il vecchio Kant che giudicare significa “distinguere”, “de-terminare”. Come negare, infatti, che, quando giudichiamo, sempre anche “distinguiamo”?

Krisis, comunque, allude anche all’insorgere di uno stato di perturbazione nella vita di un individuo o di un organismo qualsivoglia; anche di un organismo sociale.

Ma cosa può farci credere che sia proprio il tracollo di uno stato di equilibrio ad imporre ‘con forza’ l’urgenza di una decisione, di un giudizio in grado di distinguere? E poi, di distinguere cosa? 

Certo, nella crisi si genera un irresistibile bisogno di chiarezza.  Ma proprio per questo, anche di “verità”; se è vero, come ci insegna Descartes, che approssimarsi al “vero” significa affacciarsi su uno spettacolo il più possibile “chiaro e distinto”. Per questo è proprio in uno stato di crisi che emerge un ineludibile “bisogno di verità”. In ragione del quale, appunto, vogliamo assolutamente sapere come stiano le cose. In un modo o in un altro. 

Ma, per raggiungere un tale risultato si devono saper distinguere i modi dello stare. Bisogna cioè saper disegnare delle differenze, o meglio delle “opposizioni” il più possibile chiare e distinte, tra i cui poli si possa effettivamente scegliere. Insomma, le opzioni tra cui saremmo chiamati a scegliere, vanno distinte senza confusione, e dunque “chiaramente”. 

Ecco perché i problemi, in ogni democrazia (e dunque il suo volgere verso uno stato di crisi), cominciano là dove le opzioni tra cui saremmo chiamati a scegliere si siano fatte troppo confuse e per ciò stesso confondibili. Dove, cioè, non si capisce più bene cosa distingua una opzione da quella opposta. 

Insomma, nasce il bisogno di distinguere, o meglio, la crisi fa emergere questo bisogno in quanto, evidentemente, le distinzioni che sembravano chiare (o che lo erano state sino ad un certo periodo) non lo sono più.

Ecco perché vivere la crisi conformemente al suo senso significa impegnarsi a rispondere ad una chiamata da cui saremmo invitati a distinguere quel che (se va distinto) così ben distinto, evidentemente, non lo è più.

Ma veniamo ad un esempio concreto: quello che nelle moderne democrazie sta accadendo è, ad esempio, che non si capisce più bene cosa distingua il “consenso” dalla “partecipazione”. 

Tutto sembra proiettare l’Occidente verso la costruzione di democrazie sempre più referendarie o plebiscitarie che, per certi versi, sembrano impegnate ad assicurare, prima di ogni altra cosa, la possibilità di decidere, ossia di scegliere i propri rappresentanti e i propri governanti. È per questo che le democrazie della ‘crisi’ sembrano offrire al popolo il massimo di partecipazione “diretta” (attraverso il voto) – non è un caso che, da qualche tempo, in Italia si parli di elezione diretta del Presidente del Consiglio e del Presidente della Repubblica. Tutto sembra condurci insomma verso la piena realizzazione di un vecchio slogan della sinistra: “potere al popolo!” 

Ma poi si dice anche che, una cosa è il consenso che il popolo può riservare a questo o quel partito, a questa o quella persona, un’altra è invece la partecipazione reale; che implica appunto il superamento dell’ignoranza e dell’apatia politica. E dunque la riattivazione di un concreto e dinamico rapporto tra politica, territorio e comunità. 

Tutto molto chiaro; peccato che non si capisca bene a chi spetti il compito di risolvere l’impasse determinato da “ignoranza” e “apatia”. 

A quegli stessi partiti che hanno condotto la nostra società verso questa deriva? E che forse sono governati e innervati da quelle stesse élites che sembrano avere tutto l’interesse a consolidare l’ignoranza e l’apatia del popolo.

O magari agli insegnanti? Ossia, a coloro cui dovrebbe essere stato affidato il compito di far maturare nelle giovani generazioni l’esigenza di un impegno attivo in politica e nel sociale. E di far crescere una nuova classe politica non più interessata a perpetuare ignoranza e apatia

Ma forse anche gli insegnanti (soprattutto quelli universitari) fanno parte di quelle élites che sono in verità le prime responsabili di questo stato di cose.

A chi potrà dunque essere affidato un tale compito?

Ad un nuovo partito?

Abbiamo visto cosa è scaturito dal moto di rivolta confluito alcuni anni fa nella fondazione di un nuovo partito (i 5 stelle). Anche allora sembrava necessario e urgente tornare a rendere protagonista il popolo. Lo ricordiamo tutti… e abbiamo visto come è finita. Stendiamo un velo pietoso.

Insomma, come uscirne? A chi può essere affidato il compito di riattivare una partecipazione attiva e consapevole?

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E poi, siamo certi che in passato non ci si trovasse obnubilati da una analoga confusione? 

Si dice spesso che sino ad una quarantina d’anni fa i partiti fossero radicati nel territorio e riuscissero a coinvolgere la cittadinanza in ben altro modo. Ci si incontrava nelle sezioni di partito; si discuteva, ci si confrontava. È vero. Ma siamo così sicuri, poi, che già allora le decisioni non venissero prese dalle élites (dai capi-partito, dalla dirigenza) dopo aver sentito le opinioni di tutti, ma senza tenere assolutamente conto delle interminabili discussioni che facevano sentire tutti molto partecipi?

E poi: negli anni Settanta si organizzavano grandi manifestazioni; le masse scendevano in piazza. Ma già allora poteva capitare che la polizia caricasse indiscriminatamente (chi c’era, se lo ricorda bene!)… questo accadeva, cioè, anche quando la partecipazione era molto più consapevole e forse v’erano molta meno apatia e molta meno ignoranza – d’altro canto, in tutte le democrazie capita che la polizia carichi indiscriminatamente, e colpisca i manifestanti in modo non propriamente indolore. 

Non capita forse anche negli Stati Uniti, dove non pochi manifestanti (soprattutto se neri) sono stati uccisi in pieno “regime” democratico? E non capita anche in Francia, nell’illuminista e laica Francia? Quante volte la polizia è stata particolarmente violenta con chi protestava nelle banlieue parigine? Ma non per questo ci si dovrà rassegnare a preferire la ‘ferocia’ dei reparti di polizia russi, cinesi o iraniani.

La democrazia è in crisi – si dice. Certo. Ma… proviamo a insinuare un sospetto. 

E se la crisi della democrazia fosse consustanziale alla democrazia medesima? Se, cioè, la democrazia fosse una forma politica costitutivamente “in crisi”? Ossia, vocata a generare un fortissimo bisogno di discernere e giudicare… proprio perché nata come crisi, cresciuta nella crisi e ora a rischio di estinzione per un’ennesima crisi.

Perché nata come istituzione vocata a dare potere al popolo (demos-crazia), ma costretta a ricostituire delle classi dirigenti cui il popolo sembra non poter fare a meno di ‘delegare’ la gestione del potere. È impossibile, infatti, una democrazia diretta in uno spazio politico superiore, per dimensioni, all’antica ‘polis’ greca. D’altro canto, anche nello spazio ristretto di un condominio può diventare quanto mai difficile prendere delle decisioni senza la delega ad un amministratore. 

E dovrebbe essere evidente a tutti che la forma della ‘delega’ produce necessariamente il ricostituirsi di una aristocrazia elitaria inevitabilmente tentata di farsi forte della delega proveniente dal popolo; o quanto meno dalla sua maggioranza. Decidendo nel nome di tutti senza dover/poter evidentemente interpellare questi “tutti”. 

Insomma, la democrazia sembra più o meno destinata a trasformare il popolo in plebe. E puramente utopici rischiano quindi di rivelarsi tutti i pur nobili richiami al bisogno di una “riforma” della democrazia! Anche perché, di là dall’indicazione del bisogno, si fatica a mostrare come si farebbe a rendere la partecipazione del popolo reale, cioè “effettiva”, ossia non confinata al semplice e totalmente insufficiente segreto dell’urna.

Il popolo deve tornare a decidere, si dice. Peccato che l’ascesa di Hitler sia stata decisa dal popolo tedesco. 

Sì, ma chi legge si starà senz’altro chiedendo; va bene… ma tutto questo discorso dove vuole andare a parare? Di certo non stiamo evidenziando le aporie della democrazia per sostenere che alla democrazia vada preferita la dittatura. Ci mancherebbe!

 Per quanto si tratti di semplice ‘preferenza’, sia chiaro. “Cosa sia giusto” è infatti una questione che non iniziamo neppure ad affrontare, in questo contesto, e non solo perché richiederebbe troppo spazio per essere affrontata in modo adeguato, ma anzitutto per il fatto che (come insegnava il ‘saggio’ Max Weber) l’ambito ‘valoriale’ non è un terreno a disposizione della “ragione”; ma puro appannaggio della “fede”. E dunque affidato a scelte totalmente irrazionali.

Perché, dunque, ci siamo messi a ragionare sulle aporie della democrazia? Forse, ad averci mossi è un proposito non meno importante di quello che potrebbe averci spinti a reclamare una vera e propria ‘riforma’ della democrazia. Forse, cioè, ci siamo impegnati a svolgere queste riflessioni mossi dalla semplice intenzione di suggerire al lettore l’opportunità di riconoscere che, molto probabilmente, demo-crazia (nel senso di potere del popolo) non solo non c’è mai stata, ma, molto probabilmente, mai ci sarà proprio in quanto fondamentalmente “impossibile”. 

Insomma, mai s’è davvero dato “il potere al popolo”; neppure nella vecchia polis ateniese. Ancor meno a Cuba o in Cina; dove le rivoluzioni politiche avevano riferimenti ideologici ben precisi, rinvianti, da ultimo, alla riflessione di Karl Marx. Che si proponeva certo di dare finalmente il potere al popolo; anzi, al proletariato. Cioè, alle classi subalterne. Per quanto in nessuna di quelle regioni si sarebbe riusciti a realizzare una qualche forma di ‘democrazia’. Sì, perché, almeno là dove il marxismo è riuscito a farsi riferimento teorico imprescindibile, non s’è realizzato neanche un embrione di democrazia. È anche vero che dove si sono invece realizzati i diversi tipi di democrazia a noi noti – ossia, nel nostro tanto vituperato Occidente – non s’è mai realizzata alcuna vera giustizia, alcun vero bene, alcuna reale concordia, ma forse si sono almeno costruite le condizioni per rendere possibile un progressivo (anche se molto probabilmente infinito) avvicinamento agli ideali di giustizia, bontà e felicità che stanno al fondo di ogni autentica idea di democrazia – e che i regimi non-democratici consegnano invece alla sfera del semplicemente “improponibile”, “deleterio” o quanto meno ‘pernicioso’.

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