Leibniz ultimo genio universale
Originale, anche se apparentemente arbitraria, l’impostazione di questo bel volume dedicato a Leibniz: raccontare uno dei grandi esponenti del barocco europeo, precursore dell’informatica contemporanea e teologo speculativamente raffinatissimo, a partire dall’individuazione di sette giornate emblematiche della sua vita e della sua ricerca. Certo è che, dopo l’apparizione dell’italiano Leonardo da Vinci (che già in pieno Rinascimento si cimentava con una impressionante varietà di discipline, pur essendo anzitutto grandissimo ‘artista’), si sarebbe dovuta attendere la nascita di Leibniz – avvenuta a Lipsia nel 1646 – per vedere realizzato, in modo altrettanto stupefacente, il vecchio sogno dell’essere umano: riuscire a rendere ragione, con un’unica e segretissima chiave esplicativa, di cose ed eventi anche diversissimi tra loro e spesso, per quanto solo apparentemente, del tutto incomparabili.
Insomma, il sogno di una mathesis universalis doveva trovare proprio in Leibniz nuove e inaudite condizioni di realizzabilità, di fatto elaborate da un’intelligenza affidata a un corpo anch’esso incapace di accontentarsi di una più o meno stabile, e comunque limitata collocazione. Anche nella vita di ogni giorno, infatti, il filosofo tedesco, inventore di una scienza chiamata “monadologia”, appariva avido di esperienze; per questo non avrebbe potuto fare a meno di spostarsi in continuazione, attivandosi e facendo del proprio meglio per contribuire al miglioramento della vita nel proprio continente; i cui territori erano stati a lungo devastati da sanguinosissime guerre di religione (la guerra dei trent’anni termina nel 1648, ovvero due anni dopo la nascita di Leibniz).
Un filosofo complesso, geniale, ma di non facile decifrazione. Ecco perché, a chiunque voglia cimentarsi con l’opera di quello che doveva rivelarsi un vero e proprio gigante del razionalismo moderno, consigliamo caldamente la lettura di questo intrigante ed originale volume, da poco tradotto in italiano da Mondadori ed intitolato “Il migliore dei mondi possibili. Sette giorni nella vita di Gottfried Wilhelm Leibniz”.
L’autore, ovvero Michael Kempe – direttore dell’archivio Leibniz di Hannover – conosce molto bene l’opera del filosofo tedesco; ma soprattutto si dimostra capace, nelle pagine del suo impegnativo nonché gradevolissimo lavoro (tra l’altro scritto davvero bene), di restituire un’immagine non puramente teorico-speculativa del vero e proprio genio del barocco europeo, notoriamente convinto di vivere nel “migliore dei mondi possibili”.
Kempe, infatti, non solo riesce a spiegarci con grande acume ermeneutico il senso di alcune tra le più importanti ‘scoperte’ di Leibniz, ma soprattutto mostra come queste ultime avessero intrinsecamente a che fare con l’uomo Leibniz; come fossero cioè profondamente intrecciate al suo esagerato attivismo – quello che ce lo fa vedere di volta in volta impegnato in progetti di miglioramento dell’attività estrattiva dell’argento o nella costruzione di un sistema integrato di energia idrica ed eolica; nonché a sedurre lo zar (a cui voleva proporre una spedizione scientifica in Siberia e sulle coste asiatiche del Pacifico per poter operare delle rilevazioni dei campi magnetici che consentissero di calcolare i meridiani a beneficio della navigazione). Per non dire dell’incessante impegno a risolvere anche intricate questioni strategiche; mosso dalla convinzione di poter addirittura influire su dinamiche socio-politiche oltremodo complesse e soprattutto importanti. Ad esempio, avrebbe fatto qualsiasi cosa per migliorare le relazioni tra impero tedesco e Inghilterra.
Non a caso si muoveva in continuazione; tuffandosi con tutto se stesso nel cuore di complessissime questioni di calcolo infinitesimale o di natura teologica, ma impegnandosi anche, e con il medesimo rigore, nell’individuazione di soluzioni pratiche che potessero contribuire alla costruzione di un mondo migliore.
A questo proposito, Kempe dà una sua intelligente lettura della tesi leibniziana relativa alla bontà del nostro mondo e ci spiega come la famosa tesi leibniziana, sbeffeggiata da Voltaire nel suo Candide, avesse ben poco a che fare con l’ottimismo idiota ferocemente ridicolizzato dal teorico dell’Illuminismo. E andasse piuttosto ricondotta a un modello assolutamente ‘dinamico’; distante mille miglia dall’idea di un mondo fatto già come meglio non si sarebbe potuto.
Ecco, Kempe ci mostra come per Leibniz “il mondo sia sempre e comunque il migliore, ma solo in quanto contenente la possibilità del proprio miglioramento” (p. 63).
E come spetti comunque a noi condurlo verso il meglio; quanto meno impegnandoci nei più diversi ambiti disciplinari.
D’altro canto, sempre nella lettura di Kempe, il pensatore tedesco non appare convinto che si debba scegliere tra il farsi pensatori speculativi, cioè puri teoreti del tutto avulsi dalle questioni pratiche che comunque ci interpellano, e il diventare grandi strateghi politici, capaci di corrispondere a imprescindibili esigenze sociali o più in generale materiali. Non a caso sarebbe anche entrato a far parte della corte di Hannover, dove venne eletto consigliere privato di giustizia.
E comunque, insiste Kempe, “mentre pensa e scrive, Leibniz salta spesso e volentieri da un argomento all’altro. Accade così che uno stesso foglio ospiti non di rado annotazioni relative ai temi e ai campi più disparati: un calcolo matematico accanto al disegno per un esperimento di fisica e, subito dopo, l’estratto da un trattato medico, la minuta di una lettera che sta ancora scrivendo, e magari, sul retro dello stesso foglio, riflessioni filosofiche sul problema della libertà” (p. 21). Insomma, è evidentemente incapace di ‘stare’ entro determinati limiti.
In questo senso Leibniz sente come compito affidatogli dal destino quello di ricostruire le leggi divine della creazione e di formularle nel linguaggio della matematica; una lingua fatta di simboli, calcoli e operazioni. E sempre in quest’ottica, si impegna anche a scrutare l’infinitamente piccolo; come quando, nel 1673, riesce a trascorrere alcuni giorni a Londra ad “ammirare con i propri occhi l’infinitamente piccolo, ingrandito di varie volte dal microscopio di Robert Hooke” (p. 29).
Facendosi in ogni caso carico di un compito davvero inesauribile; che lo vede costantemente impegnato a sviluppare le effettive potenzialità inscritte nell’esercizio del calcolo come pochi altri sarebbero stati in grado di fare; anche perché “il suo calcolo infinitesimale comprendeva sia il calcolo differenziale che quello integrale” (p. 31).
Riuscendo così a impostare, in modo sorprendentemente sistematico, un metodo computazionale totalmente inedito: fondato sui numeri binari (in cui era riuscito a convertire quelli decimali). Sino a quando il gesuita Bouvet (missionario in Cina) riconobbe che uno strettissimo legame univa di fatto questo nuovo sistema matematico a importanti raccolte millenarie di oracoli cinesi. E proprio in questa prospettiva Leibniz si rese conto di quanto fosse importante uno scambio di conoscenze “molto più ampio con il Regno di Mezzo” (p. 124)
D’altronde, per lui la cultura cinese “era su un piano di parità con quella europea…”; quasi una “sorta di anti-Europa”… che “avrebbe potuto offrire alla civiltà europea soprattutto un sapere tecnico orientato alla dimensione pratica” (p. 124).
Come non ricordare, poi, che proprio da questa matematica binaria sarebbe nato il “codice digitale che è ancora oggi alla base della più avanzata tecnologia informatica” (p. 127).
Guai a dimenticare, comunque, che per Leibniz “la matematica è strettamente intrecciata alla metafisica” (p. 130). La sua ‘combinatoria’, infatti, si collega con la massima evidenza alla tradizione platonica e pitagorica.
Fermo restando che, in ogni caso, per lui tutto è mutamento; cioè, nulla “sta”. A differenza di quanto pensava Platone. Ecco perché non potrebbero mai esservi da una parte il nulla e dall’altra Dio; per questo, “ogni creatura si distingue dalle altre per la propria peculiare miscela di perfezione divina e di nulla” (p. 130).
D’altro canto, se “tutto è in perenne movimento” (p. 67), “il moto non è una condizione transitoria, ma uno stato duraturo di tutti i corpi capaci di spostarsi. Lo stesso stato di quiete non è altro che un moto infinitamente lento” (pp. 67-68).
Anche per questo, forse, il teorico della Monadologia non poteva fermarsi; ecco perché continuò a spostarsi da una città all’altra. E dunque a scrivere, cercando di volta in volta soluzioni a problemi teorici ma anche pratici, e sforzandosi di mostrare anzitutto a se stesso che il mondo in cui ci troviamo è il migliore solo perché infinitamente migliorabile. Fermo restando che, per migliorarlo, ci si sarebbe dovuti attivare ognuno secondo le proprie possibilità.
Ma il filosofo tedesco era anche convinto del fatto che fosse finalmente giunto il momento di gettare le basi per una nuova geometria, che riuscisse a occuparsi della relazione spaziale tra figure geometriche. Insomma, una “nuova geometria della situazione” (p. 192), capace di anticipare importanti elementi della topologia matematica del XIX secolo. Perciò giunse a formulare in modo sempre più preciso la propria “idea di spazio relazionale, che si pone in antitesi al concetto newtoniano di spazio assoluto” (p. 192).
Sì, perché, per Leibniz, lo spazio esiste solo come sistema di relazioni tra cose o elementi, “e non come loro contenitore” (p. 192). Ecco da dove avrebbe preso le mosse Deleuze per realizzare la propria opera di desostanzializzazione dell’essere; ed ecco anche la vera origine del suo bergsonismo. Non a caso, dovendo consigliare una serie di testi critici utili ad avvicinarsi all’opera e al pensiero di Leibniz, Kempe cita sin da subito l’importante lavoro deleuziano pubblicato nel 1988 e dedicato a Leibniz e al Barocco (intitolato: La piega, Einaudi 2004); nonché alla straordinaria intuizione che aveva consentito al filosofo tedesco di tematizzare uno ‘stranissimo’ concetto di sostanza: sì, un vero e proprio monstruum. Che nulla aveva in verità a che fare con la stabilità normalmente connessa al concetto di ousia (sostanza in greco).
Una cosa è certa: quello di “monade” è un concetto risolutamente ‘enigmatico’; nonché connesso a un senso dell’individualità che dovrebbe spingerci a risignificare alla radice concetti come quelli di anima e di soggetto. O, per dirla con Hegel, a intendere la sostanza altrettanto bene come ‘soggetto’; ossia come “un interminabile processo di sviluppo e inviluppo che sul piano teologico corrisponde appunto al principio di immortalità” (pp. 102-103).
Dove, comunque, anche l’immortalità ha ormai ben poco a che fare con la funerea fissità caratterizzante ad esempio le “idee platoniche”.
Con Leibniz, insomma, siamo ormai consegnati a una instancabile processualità destinata a fare, dell’esistere, un incessante e mai risolto piegarsi e ripiegarsi, simile a quello generato dalle curvature che quasi sempre nobilitano i gioielli dell’architettura e della pittura barocche. E che da ultimo ci impediscono anche solo di stabilire chi sia qui e chi invece lì; o di escludere che quel che si trova lì, possa essere anche qui (a insegnarcelo è anzitutto Velazquez, con il suo Las Meninas – capolavoro cui dedica pagine davvero memorabili anche Foucault in Le parole e le cose, Mondadori, 2016).
E da ultimo ci impediscono di credere che la metafisica possa venire davvero superata; quasi non fosse assolutamente evidente, invece (e Kempe ce lo mostra alla perfezione), che la prima a essere già da sempre oltre sé medesima (e dunque a essere anche assolutamente anti-metafisica) è proprio la Metafisica… almeno, quella vera!, secondo quanto emerge con chiarezza anche dall’intrigante e profondissimo rapporto che unisce Deleuze a Leibniz. Che una cosa almeno dovrebbe farci capire (e sarebbe già abbastanza): che l’anelito al sapere totale cui abbiamo fatto riferimento all’inizio di queste brevi considerazioni non ha davvero nulla a che fare con l’insensata ambizione di abbracciare – in virtù di una determinazione definitiva – l’insieme delle cose effettivamente esistenti. Anzitutto perché per Leibniz le sostanze non sono mai definibili una volta per tutte; e dunque perché parlare di totalità, in questo contesto, significa semplicemente alludere a un percorso privo di soluzione finale e conseguentemente scevro da ogni deleteria illusione di ‘compimento’. E quindi anche rigorosamente dispensato da ogni forma di morte reale.