Tu non conosci la musica 

12 Luglio 2024

Uno strano libro, quello di Michel Faber, appena pubblicato da La nave di Teseo e intitolato Ascolta. La musica, il suono e noi (2024). Che si tratti di un libro molto particolare appare chiaro sin dalle prime pagine; occupate da una insistente presa di distanza dagli “altri libri musica” – quasi sempre scritti, secondo l’autore, a partire dalla balzana convinzione secondo cui la musica esisterebbe al di fuori degli esseri umani e sarebbe dotata di qualità sue proprie (sostanzialmente indipendenti dalle emozioni e dell’imprinting culturale di chi la ascolta). 

Ma già nella prima pagina l’autore (uno scrittore olandese, vissuto in Australia e rientrato dal 1993 in Scozia, dove ora vive in una vecchia stazione ferroviaria) si dimostra molto sicuro di sé (fin troppo?), e afferma, rivolgendosi al suo lettore: “Sono qui per farti cambiare idea sulle tue idee, sulla tua mente” (p. 11). 

Un volume di quasi seicento pagine che, però, dopo un inizio forse eccessivamente ‘arrogantello’, si ammorbidisce e si impegna in una documentatissima disanima dell’esperienza dell’ascolto; ma non solo – Faber, infatti, indaga anche il modo in cui funziona l’industria della musica, il modo in cui la musica viene prodotta, e il modo in cui gli ascoltatori l’hanno percepita e continuano a farne ancora oggi esperienza. Un modo che, agli occhi di Faber, non è mai innocente e ancor meno naturale. A parte il fatto che, per lui, quello musicale è un fenomeno molto, molto strano, che, per quanto i suoi recensori e gli artisti promettano il dischiudersi di grandi profondità e prospettive non di rado salvifiche, “si dissolve nell’aria” (p. 13). Un fenomeno che si dissolve quasi immediatamente nel nulla. La musica è infatti del tutto inconsistente; non “sta”. Ma evapora incessantemente, durante la sua stessa esecuzione. E proprio per questo, forse, è anche specchio della nostra stessa inconsistenza, più che della possanza attribuibile alla “natura”. Forse anche per questo può venire usata in molti modi; e sempre per lo stesso motivo, molto probabilmente, è potuta diventare ‘merce’. Insomma, la musica sembra meritare una riflessione molto particolare; diversa da quelle che sembrano autorizzate a reclamare altre forme d’arte. Per questo il nostro scrittore olandese si premura di tranquillizzare il lettore: “se intraprenderai questo viaggio insieme a me, imparerai molto cose, ma non si tratterà del genere di informazioni che di solito si apprendono leggendo libri di musica” (p. 14). 

Insomma, Faber non stila classifiche, e non è interessato a raccontarci un’ennesima storia della musica, o a renderci note le caratteristiche stilistiche e tecniche delle varie forme musicali. Egli vuole piuttosto farci capire “cosa succede davvero quando sentiamo, e cosa accade realmente quando ascoltiamo” (p.16). E ci rende edotti del fatto che, quando ascoltiamo musica, accadono molte cose che hanno anzitutto a che fare con la nostra biologia, “con il cervello che galleggia nel nostro cranio, di forma simile a un cavolfiore ma gelatinoso come marmellata, sensibile a ogni stimolo” (p. 16). Ma non solo; egli sostiene anche che, quando ascoltiamo musica, accadono cose che riguardano addirittura la nostra biografia. L’ambiente in cui siamo cresciuti, gli amici che abbiamo frequentato, il modo in cui siamo stati più o meno repressi o stimolati – tutto verrebbe insomma chiamato in causa dal nostro più o meno intenso rapporto con la musica. 

Michel Faber, poi, immagina addirittura quale possa essere il tipo di lettore di un libro come il suo; il genere, il colore della pelle, l’età. E si rivolge continuamente a tale lettore – almeno nel primo capitolo di questo ponderoso e comunque appassionante volume. Sembra quasi voler instaurare un rapporto confidenziale con chi lo sta ‘ascoltando’ (o meglio, leggendo): e, pur nella cornice di una disposizione un pochino ‘arrogantella’, per quanto anche confidenziale, rende partecipe il lettore di una malattia che lo tormenta da un certo tempo: l’acufene (che è apparsa nel 2017, proprio mentre stava per cominciare a scrivere questo libro – che sia un caso?). Dopo averci fatto questa ‘confidenza’, quindi, Michel ci spiega molte altre cose, e non poco interessanti: ci spiega, ad esempio, che i suoni non esistono “nel mondo”, come in troppi ancora credono. E che non entrano dai lati della nostra testa viaggiando fino alla nostra mente. Ci rivela cioè che “il mondo è intrinsecamente silenzioso” (p. 24). Insomma, ci spiega che quando un corpo entra in vibrazione, avviene una specie di “sommovimento nell’atmosfera” e che quel che arriva alle nostre orecchie non è altro che “il propagarsi di questa perturbazione”, e “che siamo noi a fare il resto. Le nostre orecchie e i nostri cervelli” (p. 25). Sono questi ultimi, cioè a farsi veri e propri “strumenti musicali”. Insomma, per Faber “i nostri timpani non sono concettualmente diversi dai tamburi che vediamo suonare ai percussionisti” (p. 25). Ognuno di noi, dunque, è una sorta di strumento musicale, diverso da tutti gli altri. Unico e irripetibile. Eppure, è anche innegabile – rileva Faber – che non pochi siano gli esseri umani che “non vanno affatto d’accordo con la musica” (p. 32). 

E qui il nostro si dilunga a trattare il fenomeno dell’anedonia musicale; che riguarda tutti coloro che non apprezzano la musica. Certo, nella nostra società sembra disonorevole non apprezzare la musica; perciò si fatica ad ammettere di trovarsi in tale condizione, come ancora si fatica, purtroppo, i molti casi, ad ammettere la propria omosessualità.

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Michel Faber.

Poi, nel seguito di questo impegnativo volume, Michel Faber analizza le dinamiche che hanno mosso e continuano a muovere il cosiddetto ‘gusto musicale’; si confronta con alcuni studiosi ed esperti nel campo della sociologia della musica, della psicologia della musica, con ristoratori e attivisti, ma anche con musicisti che lo aiutano, tutti, a comprendere in modo molto puntuale le dinamiche che nei più diversi contesti sociali e culturali determinano il nostro rapporto con la musica. Quindi si interroga sul ruolo che le cosiddette “avanguardie” avrebbero avuto nel più recente sviluppo della musica; ma deve ammettere, infine, che queste ultime hanno perduto la loro battaglia. Perché dominanti sono tornati ad essere la melodia e il ritmo; a condizione che si lascino riconoscere e risultino in qualche modo rassicuranti. 

Per quanto, a caratterizzare con ancora maggior forza il tempo presente, sia ai suoi occhi il dominio pressoché assoluto del ritmo; non pochi sono infatti i musicisti che si affidano ad un puro gioco ritmico, quasi rinunciando finanche al gioco tra melodia ed armonia, di cui la maggior parte della musica (e non solo da ballo) del nostro tempo sembra ormai priva. Il rap, ad esempio, altro non è che una riduzione della melodia a ritmo. 

Molte interessanti riflessioni sono quindi dedicate, da Michel Faber, a quello che è forse il più grande gruppo della storia del rock: i Beatles. E al loro rapporto con la ‘sperimentazione’ musicale. 

Non meno importanti sono poi le riflessioni che il nostro dedica al rapporto della musica con il corpo umano, ed alla potenza curativa di cui questa forma espressiva è dotata in rapporto a non poche disfunzioni neuronali o fisiche. 

Ma anche le riflessioni sulle molte contraddizioni che sembrano affliggere la scena musicale contemporanea sono davvero acute; “l’apice dell’assurdità contemporanea – rileva Faber – si raggiunge nei concerti in cui tanto i musicisti che il pubblico indossano tappi per le orecchie” (p. 243). 

Quasi per consolarci, poi, il nostro prova a spiegarci che in verità siamo tutti dei potenziali cantanti. Così come siamo in grado di parlare, infatti, siamo tutti anche in grado di cantare; per capirlo basterebbe guardare a Frankie Armstrong, “che ha dedicato la vita ad aiutare le persone comuni a sprigionare il loro potenziale canoro” (p. 254).

Particolare non trascurabile, infine, il nostro mostra da un lato di conoscere abbastanza bene il panorama pop o prog italiano degli anni Settanta e Ottanta e dall’altro di non essere mai riuscito ad amare la musica classica per eccellenza – quella composta “tra l’inizio del diciassettesimo secolo e la fine del diciannovesimo secolo, ossia nel periodo più propriamente classico… che dovrebbe racchiudere le più grandi conquiste sonore della cultura occidentale” (p. 316). 

Forse non è mai riuscito ad amarla in ragione dell’elitarismo che sembra aver infettato molti dei suoi sostenitori; un elitarismo che non è difficile incontrare neppure nel mondo del jazz e del blues. A questo proposito Faber ricorda una esilarante intervista condotta da Hans Keller (violinista viennese che divenne celebre in Gran Bretagna come critico e conduttore) ai Pink Floyd, in cui quest’ultimo, prima di rivolgere le proprie domande a Syd Barrett e Roger Waters, tiene a precisare: “permettetemi di evidenziare quattro punti prima che li ascoltiate” (p. 319), e anzitutto il fatto che i Pink Floyd “sono noiosi e troppo rumorosi” (p. 319). Poi continua: “forse sono un po’ troppo musicista per apprezzarli” (p. 319).

Ma la musica può anche riservarci delle gradite sorprese, ci dice Michel Faber: come quando, con la compagna Louisa, rimane colpito da un video (scoperto sulla piattaforma di “you-tube”) che mostra come un’anziana elefantessa si muova e ondeggi avanti e indietro, reagendo con grande prontezza al ritmo della musica emessa da un pianoforte suonato da Paul Barton. Ma sia Michel che Louisa fraintendono quella reazione animale, per quanto apparentemente molto simile a quella di tanti giovani sparsi in mezzo alla folla per certi versi anch’essa abbastanza ‘animalesca’ ammassata sui prati di Woodstock. Entrambi affermano infatti; “sembra che si stia facendo prendere dal groove” (p. 436). Mentre, in realtà, “le scappa solo da cagare” (p. 437); gli elefanti ondeggiano, cioè, quando non ricevono sufficienti stimoli… e dunque “in realtà quel suo ondeggiare indica solo stress e ansia” (p. 438).

Ad ogni modo, la musica è un fenomeno dalle infinite applicazioni e implicazioni; e dunque, per quanto la si conosca, si sarà sempre in difetto, quanto meno rispetto alle cose che bisognerebbe sapere e alle musiche che bisognerebbe aver ascoltato. D’altronde, il nostro scrittore olandese ne è ben consapevole; per questo, alla fine di un articolato e ricchissimo resoconto esperienziale, e sempre rivolgendosi direttamente al lettore, sembra invitarlo ad avvicinarsi per poter pronunciare, a bassa voce, le seguenti parole: “lascia che te lo dica in modo non troppo delicato. La musica è molto, molto grande, e tu sei molto, molto piccolo” (p. 589). Per questo “nessuno può esplorare fino in fondo la musica. Nessuno conosce più di una minuscola frazione di quello che c’è da conoscere” (p. 589). 

Quindi continua: esaurirai il tempo a disposizione quando avrai appena iniziato; “è così per tutti” (p. 590). E non preoccuparti del giudizio degli altri, dei cosiddetti esperti; puoi anche non aver mai incontrato certi generi musicali, non importa. Ascolta quello che ti pare e “permetti al tuo amore per il suono di essere sempre autentico” (p. 590). Amen. 

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TAGGED: Michel Faber