Fare e disfare l’arte
Tutti abbiamo imparato a scuola che techne e poiesis indicano due eminenti forme del fare; ma, sempre a scuola, abbiamo anche imparato che tutto ciò che siamo soliti inscrivere nel cosiddetto mondo dell’arte è riconducibile a uno solo dei modi in cui gli umani producono e fanno-essere: quello immune dall’istanza dell’utilitas. Al punto che le produzioni artistiche non solo sembrano non poter venire utilizzate in vista di alcun fine, ma possono addirittura rivendicare con orgoglio di “non servire proprio a nulla”. Ossia, di non essere serve o schiave di nulla.
In ogni caso, siamo tutti ancora convinti che l’artista sia anzitutto homo faber.
Una persona, cioè, che ‘sa fare’; che conosce le tecniche e sa come si debba o si possa intervenire su questo o quel materiale per produrre la propria opera. Anch’egli “fa”, dunque; sì, proprio come l’artigiano. Anche se, a differenza dell’artigiano, non dà forma a nulla di ‘utilizzabile’ in vista di qualche scopo.
Eppure, soprattutto nella modernità, è venuta crescendo e consolidandosi un’altra e antitetica, rispetto a quella appena evocata, idea di arte; un’arte concepita non più come produzione, ma come ‘distruzione’.
L’artista non come produttore, dunque; ma come semplice distruttore. E proprio di quest’altra, e ancora poco riconosciuta, idea di arte ci parla un interessante volume, lucido e molto ben informato, pubblicato nel 2024 da postmediabooks e intitolato Arte autodistruttiva. Per un’estetica della repulsione. Ma l’autore, Jacopo De Biasio, non si limita a ricordarci che si può fare arte anche distruggendo; per quanto l’arte sia sempre stata anche ‘distruttiva’ – si pensi al semplice fatto che il blocco di marmo da cui Michelangelo avrebbe ricavato il suo Mosè doveva venire necessariamente distrutto, “in quanto semplice blocco di marmo”; affinché se ne potessero ricavare le fattezze dell’imponente liberatore del popolo d’Israele scolpito in onore di Papa Giulio II.
Allo stesso modo, anche la tela su cui Manet dipinge, nella seconda metà dell’Ottocento, Le Déjeuner sur l'herbe – il suo capolavoro (uno dei più clamorosi scandali artistici della modernità) – viene distrutta in quanto semplice tela bianca, e quindi ricoperta di colori ad olio (quelli con cui Manet dipinse il suo capolavoro)… che non possono certo evitare di cancellare l’innocenza del bianco di partenza.
Il fatto è che ogni produzione presuppone che qualcosa venga distrutto, per poter venire trasformato in altro, cioè nel nuovo prodotto.
Ma l’arte su cui si concentra l’attenzione di De Blasio non ha nulla a che fare con questo tipo di distruzione (effettivamente chiamata in causa da ogni forma di produzione artistica); ma con opere che si propongono anzitutto di distruggere sé medesime.
Con opere cioè, che vengono prodotte a partire dal semplice ed esplicito proposito di non farle durare. Ma di ridurle in frantumi il prima possibile. Al punto da mirare spesso a fare, proprio di questa autodistruzione, la vera e propria ‘opera’ – al modo delle performances in cui, non di rado, a venire ferito, tagliato, punto, fatto sanguinare, è lo stesso corpo dell’artista. Trattato, proprio esso, quale vera e propria opera d’arte. Come nella body art, che avrebbe trovato una delle sue più radicali manifestazioni in Gina Pane – tra le più “coraggiose” esponenti di questo movimento.
“La corporeità dell’artista viene portata in scena, posizionata consapevolmente come oggetto da guardare e, a volte, anche da toccare o manipolare” (p. 80). In taluni casi, ci spiega De Blasio, il dolore viene deliberatamente reso tangibile. E talvolta, come nel caso di Cut Piece di Yoko Ono (del 1964), sono gli spettatori a determinare la durata dell’opera e il risultato della performance.
Su questa scia doveva imporsi all’attenzione del pubblico e del mercato, di lì a poco, anche Marina Abramovic, impegnata ad intensificare, e non di poco, la funzione performativa della “passività” già messa a fuoco da Yoko Ono. Pensiamo soprattutto a una serie intitolata Rhythms; “cinque lavori incentrati sulla volontà di mettere alla prova i limiti mentali e fisici del proprio corpo, indagando il concetto di presenza così come la costante tensione tra il controllo e l’inerme abbandono al fluire degli eventi” (p. 82).
A Napoli, presso lo Studio Morra, l’artista serba si lascia manipolare dal pubblico, invitandolo a utilizzare – infierendo pure sul suo corpo – alcuni oggetti disposti sopra un tavolo: uno scalpello, una bottiglia di vino, un giornale, una frusta, una mela e una pistola.
La Abramovic rimane immobile per sei ore, in balìa di persone libere di comportarsi come vogliono. Non può reagire (se l’è imposto lei stessa), e dunque rimane ferma. Giungendo addirittura a piangere per la violenza esercitata da persone solo inizialmente titubanti e perplesse.
Per non dire della già citata Gina Pane, artista originaria di Biarritz (località del sud della Francia), impegnata a produrre opere eminentemente vocate al trauma. Per quanto la violenza autoinflitta e il dolore fisico siano per lei solo “un’occasione per affrontare pulsioni contrastanti” (p. 92).
L’artista francese giunge a ferirsi la schiena con delle lamette; sino a quando il sangue inizia a scorrere sulla camicia – gesto comunque imparagonabile all’esasperazione degli Azionisti viennesi guidati da Hermann Nitsch, abituati a far scorrere fiotti rossi dal sapore esasperatamente splatter.
Ben presto, però, Gina Pane si taglierà addirittura le guance, lacerando quello che era sempre stato il fulcro dell’estetica delle persone: il volto.
A venire messa in mostra, insomma, è la vera e propria distruzione del corpo dell’artista; esposto in condizioni di massima passività ed offerto in una sorta di rito sacrificale alla contemplazione di un pubblico per lo più attonito.
Un altro artista italoamericano, Vito Acconci, sarebbe giunto a esporsi nudo, intento a mordere come e quanto più possibile le parti in qualche modo raggiungibili del proprio corpo.
Un furore radicalmente iconoclasta è insomma quello che anima un numero tutt’altro che risibile di artisti nella seconda metà del Novecento.
Per quanto – e De Blasio si premura subito di ricordarcelo – già nei primi decenni del Ventesimo secolo un artista come Man Ray avesse creato un’opera dal titolo sorprendentemente premonitore: Object to Be Destroyed. Eravamo nel 1922 e l’opera venne fatta effettivamente a pezzi dall’artista americano. Che in seguito ne produsse almeno due repliche.
Ma l’artista che, più di ogni altro, avrebbe fatto, di questo anelito iconoclasta, la cifra di un vero e proprio nuovo modello del fare artistico, è Gustav Metzger. Che nel 1959 pubblica il primo manifesto dell’ADA (Auto-Destructive Art).
Una personalità difficilmente definibile, ci dice De Blasio, che lo ritiene decisamente “sfuggente… quasi una sorta di alfiere del fallimento, inteso come condizione necessaria per minare ogni certezza” (p. 35). Dopo le prime prove pittoriche (riconducibili a una specie di Vorticismo), Metzger “inizia a riflettere sulla possibilità di realizzare un’opera che si vada ad autodistruggere in un lasso di tempo tale da impedirne la commercializzazione” (p. 36). Sino a quando, in occasione della sua seconda personale (siamo ancora negli anni Cinquanta), decide di soffermarsi sull’aspetto prettamente teorico dell’autodistruzione.
Una volta portata a termine l’autodistruzione, “i frammenti rimasti devono venire rimossi e distrutti a loro volta” (p. 36). In modo che non resti traccia alcuna dell’opera.
L’intento è chiaramente anche, e forse anzitutto, ‘politico’.
Una seconda versione del Manifesto dell’arte autodistruttiva viene redatta nel 1960 – questa volta si afferma che il controllo dell’artista sull’opera deve diventare “sempre più incerto” (p. 36). Quindi viene progettata da Metzger una scultura ricoperta di acciaio al carbonio, che finirà per distruggersi nell’arco di circa dieci anni.
Poi il nostro giunge a cimentarsi con gli Acid Paintings. La produzione-distruzione di queste opere pittoriche viene descritta in modo molto efficace da De Blasio: “Metzger applica il nylon dietro a una lastra vitrea e agisce alle spalle della tela, mentre il pubblico assiste alla dimostrazione di fronte all’opera, appropriandosi dello spazio solitamente occupato dall’artista. L’utilizzo del vetro serve a garantire la distanza di sicurezza, ma si rivela preso una scelta propizia: la commistione tra collant e acido cloridrico provoca una complessa e improvvisa reazione tonale, riverberatasi sull’intera superficie vitrea” (p. 39).
Si giunge così al terzo manifesto dell’arte distruttiva, datato 1961. Metzger vorrebbe realizzare un processo autodistruttivo completamente meccanico, implicante una vera e propria automazione del gesto artistico, ma si trova ancora una volta costretto a intervenire in prima persona, nella realizzazione di queste opere. Insomma, senza l’intervento dell’artista, l’opera sembra proprio impossibilitata a venire alla luce.
Per questo, forse, il nostro doveva risolversi a stendere un quarto manifesto dell’arte distruttiva (il Manifesto World) – dove il linguaggio sembra destinato a farsi “sempre più aspro e catastrofico” (p. 43).
Ormai si vuole dare vita a un’opera in grado di dissolversi durante la sua stessa realizzazione. Sì che il gesto del creare e del distruggere non riescano più neppure a distinguersi.
Non si tratta solo di creare qualcosa che possa deperire nel più breve tempo possibile; ma di fare qualcosa che, proprio facendosi, finisca per distruggersi.
Sì che il produrre possa immediatamente rovesciarsi (mostrando di “essersi già da sempre rovesciato”, avrebbe detto Hegel) nel proprio contrario.
L’agire e il patire sono ormai diventati una cosa sola: la stessa. Perciò fruire di queste opere significa fruirne “durante la loro distruzione” (p. 44).
Da cui una vera e propria estetica della repulsione, “attraverso la frammentaria rappresentazione di una condizione anormale” (p. 46).
A questa nuova corrente dell’arte novecentesca avrebbe preso parte anche Jean Tinguely; artista svizzero che inizia la propria carriera entrando in contatto con le opere di Schwitters, Klee e con gli artisti del Bauhaus. Tendenzialmente anarchico, Tinguely, esponente del Nouveau Realisme, già nel 1960 progetta una macchina-scultura destinata ad autodistruggersi. Si tratta di un insolito assemblaggio di ruote, vasche da bagno, corde di pianoforte, un piccolo go-kart, palloni gonfiabili e parti meccaniche semovibili – tutti oggetti recuperati dalle discariche del New Jersey e ricoperti dallo stesso artista con uno strato di vernice bianca.
L’artista, dunque, deve solo azionare un meccanismo che avvierà “una sorta di disastroso effetto domino, generando un incendio che portasse l’opera ad autodistruggersi” (p. 50).
Anche Boltanski, in tempi più recenti, avrebbe presentato un’installazione destinata ad ‘esaurirsi’: ci riferiamo a Quai de la gare, in cui vennero allestite montagne di vestiti usati che il pubblico poteva prendere “liberamente, fino a esaurimento scorte, utilizzando una busta che riportava la scritta Dispersion” (p. 142).
Strana cosa! In un’epoca in cui il mondo intero si sforza di produrre, produrre e produrre, e dunque di potenziare sempre di più le proprie capacità produttive – ovvero, le potenzialità custodite da una tecnica rispetto alla quale l’essere umano sembra destinato a diventare sempre più marginale, se non addirittura inessenziale –, cosa fanno questi artisti? Contrappongono a quello imperante ormai a livello globale, un modello antitetico del fare, che si mostra molto coraggiosamente e risolutamente vocato alla ‘distruzione’. Forse per ammonirci e ricordarci che proprio questo stiamo in realtà realizzando… e proprio in virtù di una tecnica sempre più potente: la progressiva distruzione del pianeta e dei suoi abitanti.
E non solo con guerre che devastano l’orbe terracqueo, ma anche con le scorie di una produzione industriale ormai fuori controllo, destinata a incendiare un ecosistema quasi totalmente privo di difese.
Proprio per questo, però – ecco il paradosso con cui De Blasio ci costringe a fare i conti –, e proprio in un’epoca non più interessata a rappresentare il reale, sta forse tornando, di soppiatto, l’antichissima idea secondo cui l’opera (così la voleva ancora Shakespeare, ad esempio) ha da farsi semplice specchio, il più possibile fedele, della realtà e della natura.
Insomma, non è che ancora una volta l’arte si stia risolvendo in un semplice specchio? Per quanto destinato a riflettere quasi esclusivamente quella distruzione generalizzata che a molti sembra peraltro tragicamente irreversibile?
In copertina, Rythm, Marina Abramovic.