Conversazione con Piersandra Di Matteo / Diritto alla città

12 Giugno 2018

Right to the City è un programma di dieci giornate di processi partecipativi, performance, workshops, incontri, seminari e installazioni, con cui prende avvio, a Bologna, dal 15 al 24 giugno, Atlas of Transitions, progetto europeo co-finanziato dal programma Creative Europe di cui Ert - Emilia-Romagna Teatro Fondazione è capofila, in collaborazione con Cantieri Meticci e il Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia dell’Università di Bologna. Il progetto europeo di larga scala dedicato alla migrazione coinvolge sette paesi partner – Italia, Albania, Belgio, Polonia, Francia, Grecia e Svezia – che svolgeranno nei prossimi anni attività nei rispettivi territori. In Italia, nel biennio 2018-20, prenderà vita Atlas of Transitions Biennale, una rassegna fuori formato di cui le giornate di Right to the City sono l’esordio. Con un tempismo straordinario, nel pieno di un’ondata reazionaria, il progetto mette in campo tutti gli elementi più indesiderati al cosiddetto “paese reale”: l’Europa, i migranti, e buona parte dei diritti di una civiltà più o meno avanzata.

 

Ma dove nasce la fiducia nella possibilità delle pratiche artistiche di fronteggiare e perfino attaccare, da una trincea innegabilmente periferica, il conservatorismo, il populismo e perfino i flussi immateriali del neoliberismo? Quale pericoloso malinteso, d’altro canto, è sotteso ai discorsi politici e culturali che tematizzano l’alterità stampandoci sopra il marchio aziendale di un progressismo patinato? Che cosa ce ne facciamo, in fondo, di una passeggiata a ritmo rallentato, di un libro di stoffa su cui sono cuciti desideri segreti, o di una mappa desiderabile immaginaria, mentre il mondo intorno è sfasciato? Cosa se ne fa un ragazzo in attesa di conoscere il suo destino che vive con due euro al giorno? Ne abbiamo parlato con Piersandra Di Matteo, curatrice delle dieci giornate bolognesi. 

 

“(In)visible Radio Creatures#2”, Anna Raimondo, ph. Konstancja Dunin-Wasowicz.


Perché un discorso sulla migrazione comincia con una rivendicazione del “diritto alla città”? 

Credo che non esista discorso sulla migrazione senza interpellare i confini della cittadinanza, il diritto all’abitare, il diritto di fuga e di rifugio. Le giornate di Right to the City nascono da qui, per abbracciare il fare, il poter fare, per tentare di scucire il sistema complesso della città, i significati coesi dell’urbanesimo e i suoi flussi immateriali. 

 

Come? 

Appellandosi innanzitutto ai corpi che la percorrono, alla capacità urbana di controbattere le pronunce non inclusive con atti incarnati, convocando il diritto di tutti a manifestare la propria presenza, a rendersi visibili. Il titolo di queste dieci giornate fa riferimento, con tutta evidenza, a Droite à la ville, libro scritto nel ‘68 da Henri Lefevbre, ma trae vivo alimento anche dalle più recenti letture che ripensano il concetto di città dentro i nuovi assetti economici e produttivi dominati dalla finanza e dai mercati mondializzati. Il diritto alla città è una domanda, un grido, un appello fomentato da una spinta alla lotta, una istanza oppositiva attraverso cui le persone, tutte, possano riappropriarsi della città per “inventare il quotidiano”. È il diritto di cambiare noi stessi cambiando la città, è l’esercizio di un potere comune, suggerisce David Harvey. Rivendicarlo da una istituzione come Ert, dall’Arena del Sole, dal teatro della città di Bologna, significa tentare di esercitarlo in pratiche artistiche capaci di configurare diverse spazialità antropologiche. Significa fare spazio a universi estetici e linguaggi che usualmente non calcano quel palcoscenico. Significa uscire dal teatro, non assecondando un cosmetico spostamento in periferia, ma per incontrare i modi attraverso i quali le esistenze si progettano, producono divenire. Totale è stata l’apertura, e di questo ringrazio il direttore Claudio Longhi e tutte le persone che stanno lavorando con un entusiasmo speciale a queste giornate.

 

Come avete tradotto questa “istanza oppositiva” in termini di programmazione concreta?

Ci siamo innanzitutto interrogati sull’urgenza di spezzare la costruzione sociale e istituzionalizzata della figura del migrante come soggetto deficitario con qualcosa da colmare. Spesso anche le retoriche dell’integrazione, di cui siamo facili promotori, nascondono posizioni paternalistiche. Per prima cosa non abbiamo scelto spettacoli con schede predefinite che avessero la migrazione come tema, ma invitato un gruppo di artisti a pensare o ripensare dei progetti appositamente per la città di Bologna, progetti capaci di attivare pratiche di relazione che coinvolgessero diversi abitanti: bolognesi, stranieri, studenti fuori sede, migranti, richiedenti asilo, rifugiati, minori non accompagnati. Pratiche condivise di fantasie e necessità. La città entra nella trama di questo progetto sulla migrazione con il suo impasto di interdizioni, microclimi, tabù, riti di passaggio, storie di luoghi e valori d’uso. Non per farne un palcoscenico, ma per mettere alla prova la vita urbana, provando a gettare anche uno sguardo nel conflitto. Per questo le azioni di attraversamento si sono irradiate da due vettori principali in una dinamica elastica tra centro e periferia: il Teatro Arena del Sole, vale a dire il chiostro, l’atrio e un nuovo spazio espositivo ricavato da un garage – e poi la zona di Croce del Biacco, nel quartiere San Vitale/San Donato, Piazza dei Colori, dove sorgono la Moschea e l’Hub Mattei, il centro di prima accoglienza più grande della regione. 

 

Cosa significa attitudine creativa?  

La città non è un dato, ma un luogo da praticare. I vari progetti hanno tutti l’obiettivo di mapparla, attraversarla in modo plurale, ridisegnarla ad altezza d’uomo, intercettare gli spazi di pericolosità. Anna Raimondo, per esempio, lavora alla creazione di un happening radiofonico transgeografico interrogandosi, grazie all’incontro con Carlos, Hamed, Moussa, Zazà, Lamil, Jasmine, Mazen, Naveed, su cosa voglia dire vivere in condizione di invisibilità nel tessuto urbano, essere clandestini o aver vissuto in condizione di clandestinità. Valentina Medda ha lavorato con donne di diversa provenienza che hanno mappato, camminando, i luoghi di percezione del disagio, e presenterà cartografie su cui le aree del pericolo percepito sono cancellate con un’operazione di marcatura con penna bic. Tutte le installazioni che presentiamo nel garage, in Vedute Prossime, sono mappe vocali, corporee, acustiche, visuali, narrative della città, vere e proprie tracce dei percorsi partecipativi compiuti nei mesi passati.

 

Perché è così importante fare delle mappe? 

Le mappe che stiamo cercando di alimentare sono quelle che investono il corpo, l’esperienza concreta dell’urbano, in cui si manifestano i volti sconosciuti e desiderati della città, che lasciano spazio all’avventura e alla creazione collettiva non intesa come sommatoria di progetti singoli. Sono fondate sui presupposti della critical cartography e della geografia sperimentale, che hanno la forza di interrogare il confine tra ciò che è legittimo e ciò che è legale, tra reale e immaginato, che si spaziano nell’entre-deux in cui si gioca il diritto all’invenzione e alla riappropriazione, l’instaurazione di un campo intersoggettivo che si nutre della relazione con l’alterità e la comunità. 

 

Talking Hands, “Con le mani mi racconto”, ph. F. deLuca.


Credi che le pratiche performative possano agire sul tessuto della città, andando oltre il potere prefigurativo del simbolo e del discorso? 

Sì, credo che certe pratiche performative pensate come progetti meticci abbiano un potere concreto, effettivo, reale. Posso dirlo perché l’ho visto nei mesi passati – ed era la vera scommessa – nei vari processi attivati. Parlo di prassi incarnate. Non sottovaluterei il potere di porre, nello spazio del visibile, azioni e posture impreviste, possibilità di espressione che veicolano apertura e partecipazione reale. Sono gesti puntiformi che creano però una costellazione. Certo, bisognerebbe che accadessero con questa energia speciale continuamente. Credo, d’altra parte, che un progetto di arte, migrazioni e cittadinanze non possa non essere anche un laboratorio di pensiero, capace di rilanciare una serie di questioni, politicamente informate, nel dibattito pubblico. Fondamentale è la collaborazione con Pierluigi Musarò, docente del dipartimento di Sociologia dell’Ateneo bolognese e promotore delle attività di ricerca di Atlas of Transitions. Tra i vari ospiti vorrei ricordare Rachid Benzine, islamologo che ha riflettuto sul Corano con attitudine storico-critica per spezzare la punta alle letture estremistiche, e l’incontro dedicato alla migrazione femminile con le studiose Simona De Simoni, Elena Vacchelli e Francesca Decimo. 

 

Faresti l’esempio di una pratica performativa pensata come progetto meticcio e inclusivo?

Penso a Cent pas presque di Taoufiq Izeddiou, coreografo marocchino, tra i più interessanti della scena nordafricana. Questa performance interromperà il flusso della T – quell’area del centro che nei giorni festivi diventa pedonale – con una danza che coinvolge circa cento persone. Accompagnati da un gruppo di musicisti italiani e migranti che si è formato per l’occasione, percorreranno cento metri in un’ora. Nel mezzo del caos della T si introdurrà un’altra percezione del ritmo, estremamente rallentata, un altro battito, un’altra dimensione della vita urbana, innestata nel seno di quella ordinaria e collaudata. Qui, come in tutti gli altri progetti artistici di Right to the City, sono nodali le dinamiche emerse nei mesi passati, per cui ragazze arabe, donne nigeriane, anziani, migranti dei centri di accoglienza, danzatori, cittadini si sono ritrovati in un luogo e hanno condiviso un tempo, lavorando in maniera intensiva e straordinariamente gioiosa con Taoufiq. 

 

Perché questa possibilità di incontro passa proprio attraverso il teatro? 

Perché il tramite di un incontro passa da un’esperienza corporea. Nelle pratiche performative innescate quello che conta è la relazione in quanto tale. Per disegnare questo progetto è stato essenziale incontrare gli ospiti dei centri di accoglienza, alcuni sbarcati da poco, privati di tutto, lontani dai parenti, o altri ragazzi in attesa estenuante di una ricollocazione. Perché dovrebbero essere interessati a un lavoro artistico? 

È stato necessario setacciare la città in lungo e in largo, dialogare e progettare insieme a chi opera nell’accoglienza, riflettere e contare sulla rete costruita negli anni dai Cantieri Meticci, collettivo teatrale nato per volontà di Pietro Floridia, con l’intento di mescolare le arti per mescolare le persone, che coinvolge artisti di più di venti paesi. E poi si è trattato di far agire il teatro, invitare cittadini e nuovi arrivati a spendersi in un lavoro che li vede insieme e sullo stesso piano. Ma questo non vuol dire che tutto sia stato immediato e semplice. Abbiamo incontrato difficoltà oggettive a lavorare in ambienti lontani dal teatro, magmatici, segnati da profonde differenze culturali, ma qualcosa alla fine si è mosso. 

 

Alessandro Carboni, “Unleashing Ghosts from Urban Darkness”.


Il teatro genera occasioni reali quando è reale, viene da dire. Ma chi o che cosa definisce la rigorosità in situazioni così poco addomesticate?

Il rigore sta nello scegliere artisti che hanno una concezione del lavoro artistico altissima, che lavorano su un’idea di processo in modo radicale, e che abbiano doti umane. Nel lavoro di Alessandro Carboni, Unleashing Ghosts from Urban Darkness, per esempio, la vita urbana, con le sue trasformazioni, i suoi eventi e i suoi accidenti, diventa materia per una osservazione profonda che parte dal corpo, usato come strumento cartografico. Carboni ha realizzato un toolkit di in otto lingue, con l’idea di far partecipare i ragazzi provenienti da Giordania, Cina, Romania, Ungheria, Bangladesh, Brasile, Spagna, Gambia e Italia a una mappatura corporea della città. Il paradigma della traduzione, come diceva Paul Ricoeur, è anche un modello di relazione interumana in cui ci si fa carico fino in fondo dell’alterità. Muna Mussie ha coinvolto donne di diversa provenienza geografica, dal Congo alla Palestina, dalla Nigeria alla Russia, dall’Argentina alla Cina, dalla Moldavia alla Serbia al Camerun, per comporre e cucire, insieme a tecniche di ricamo tradizionali, un libro di stoffa, Punteggiatura. Le donne si sono incontrate intorno al tema del libro, all’idea di un messaggio da consegnare ai posteri. Procrastinandolo nel futuro hanno esorcizzato i propri tabù. 

 

L’esperienza che vivono i partecipanti può essere profondissima. Ma cosa esperisce effettivamente il pubblico di questo processo? 

Chi partecipa ai vari progetti, pur non essendo esperto di una tecnica performativa o di un linguaggio specifico, è nondimeno chiamato a lavorare con estrema serietà, e questo lavoro sortisce degli effetti sul piano estetico e istituisce necessariamente una relazione d’intensità con gli spettatori che per scelta si recheranno nei diversi luoghi della città, oppure con i passanti. 

 

Di ordine prevalentemente simbolico. Una camminata rallentata in Via Rizzoli richiede subito una mediazione intellettuale: chi sono queste persone, cosa stanno facendo, quale punto di vista incarnano, quale ideologia o contro-ideologia?

Il discorso che convoca è ad appannaggio dello spettatore. Non è definito a priori, né consegna una didattica. 

 

Appunto, dipende da chi lo recepisce. Potrebbe non attivarsi l’opera per chi non ne recepisce i presupposti. 

Qualcosa si consuma e arde proprio nella possibilità che si attivino discorsi plurali, anche di contestazione. Persone di diverse provenienze che agiscono e attraversano lo spazio con una ritmicità completamente distinta da quella della quotidianità compiono un gesto intenzionato e politicamente informato. Poi certo, accade in un segmento urbano ristretto e in un arco di tempo limitato, ma la portata di efficacia è centuplicata, per ciascuna delle cento persone coinvolte. Gli artisti sono stati chiamati da Right to the City a costruire una trama sotterranea di relazioni, a far emergere desideri nascosti. Penso a Memoria Esterna e Atlante, workshop realizzati da ZimmerFrei con un gruppo di giovanissimi abitanti di Bologna nativi, adottivi e di passaggio, laboratori funzionali alla realizzazione di Saga, un film documentario a episodi. ZimmerFrei – artisti associati di Atlas of Transitions – ha condotto un esercizio di osservazione, di ascolto, in diversi punti della città, dall’autostazione a un mercato rionale, da una piazzetta del centro alla piazzetta dietro il teatro, ispirati al Tentativo di un esaurimento di un luogo parigino di Georges Perec, che nel 1974, seduto al tavolo di un caffè annotava tutto ciò che gli capitava intorno. Cosa guardi dalla tua prospettiva? Cosa capita quando la cambi? Quando la mescoli a quella di un altro? Cosa vedi ascoltando? 

 

C’è una immagine di città ideale che ti guida? 

Riesco a pensare alla città del futuro come quella che nasce da un progetto comune, che garantisca il diritto ai diritti, che sia un rifugio per chiunque. L’arte è forse il campo nel quale questa dimensione utopica può essere messa alla prova? Penso a un processo comunitario di lotta condiviso e ramificato, nel quale risuonino positivamente le differenze, in cui le soggettività siano intensificate dalla diversità. Le città oggi portano i segni dei traffici immateriali di controllo, di forme di securizzazione che dall’epoca fordista a quella neoliberale hanno assunto modi diversi, invisibili ma non meno coercitivi. I processi di gentrificazione e di branding cittadino mi inquietano non poco. Il più delle volte si tratta di un modello di città che dal punto di vista retorico sembra pacificare e aggregare sotto il segno della partecipazione, ma spesso i luoghi di convivialità e di incontro che si professano inclusivi sono altrettante forme di discriminazione, perché vi può accedere soltanto chi ha le condizioni economiche per farlo.

 

Forse il campo dell’arte è rimasto veramente l’ultimo in cui si può esercitare questa resistenza. Con il pericolo sempre in agguato di perdere di vista il senso da un momento all’altro. D’altronde anche gli aggettivi possessivi che tanto galvanizzano la retorica pubblica, “la nostra città”, “la nostra comunità”, “il nostro patrimonio”, sono esattamente opposti a un’idea di fluidità, attraversamento, apertura. Non credi? 

Durante questi mesi, mi sono domandata spesso – tanto più operando in un contesto istituzionale – quale tipo di discorso nutriremo? Di quale appropriazione ideologica saremo oggetto? 

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