Luigino Bruni / Il capitalismo e il sacro

3 Aprile 2020

Nel secolo scorso il comunismo, ateo e materialista, era visto come la peggiore minaccia alla religione oltre che ovviamente il nemico naturale del sistema capitalista. Per come sono andate le cose, oggi si può dire che la battaglia è stata vinta dal capitalismo; tra le ragioni che lo hanno portato a prevalere probabilmente c'è una visione più realista dei bisogni, dei desideri e della psicologia umana mentre il comunismo si è costruito attorno a un "uomo ideale" ma inesistente. Il capitalismo, inoltre, ha saputo assimilare e reinterpretare le radici religiose dell’homo oeconomicus facendole fruttare a proprio vantaggio. Così «il capitalismo del nostro tempo è sempre più simile a una religione o … a una idolatria. Il Cristianesimo del XX secolo ha combattuto una battaglia campale contro l’ateismo … senza accorgersi … che nessuna ideologia era mai riuscita come il capitalismo a eliminare la religione ebraico-cristiana dal cuore delle persone e dei popoli», semplicemente sostituendosi ad essa, come una nuova religione, o meglio come una vera e propria idolatria. 

 

Questa è la tesi principale che l’economista Luigino Bruni discute nel saggio Il capitalismo e il sacro (Vita e Pensiero, 2019) e per spiegare in che cosa consista la natura religiosa del capitalismo ricorre agli scritti di Walter Benjamin, in particolare Il capitalismo come religione, e di Pavel Florenskji, La concezione cristiana del mondo. Lungi dall'avere eliminato il sacro dal mondo, come taluni sostengono, il capitalismo è «diventato esso stesso un culto, una religione». Proprio per il suo carattere nascostamente religioso, secondo Bruni, gli economisti generalmente poco interessati e competenti di teologia faticano a comprenderlo appieno, in quanto si tratta di «un fatto più religioso che tecnico», in cui si possono riconoscere dinamiche religiose antichissime e sempre uguali, benché con nuovi attori e nuovi contenuti.  

 

Nel primo capitolo Bruni riassume l'idea di Benjamin che il capitalismo sia sostanzialmente una metamorfosi del cristianesimo e da esso sia uscito come la farfalla dal bruco. Partendo da qui sviluppa poi, nei tre capitoli centrali, la sua critica al capitalismo contemporaneo, esaminando le caratteristiche dell’uno che, metamorfizzate, si ritrovano nell’altro; un discorso interessante, con molti spunti di verità che la brevità del saggio non permette di esaminare con la profondità e l'ampiezza che meriterebbero. Perché si possa parlare di religione è necessario che si presenti una specifica realtà, occorre individuare una divinità attorno alla quale si raccolgono degli adoratori che compiono dei riti, che credono in alcuni dogmi e rispettano dei divieti (tabù). Il capitalismo odierno, afferma Bruni, manifesta questo schema e, opportunamente modificati, vede in azione gli stessi elementi.  Oggi il dio del capitalismo non è più il capitalista e neppure il profitto, come era nelle sue prime fasi storiche, ma il consumo. Per esso e in vista di esso agiscono le imprese capitaliste, che ne rappresentano i seguaci. A quel dio bisogna sacrificare per averne la benevolenza, e offrirgli dei doni; ecco allora gli sconti e gli incentivi, destinati, i primi all'idolo – perché ormai è chiaro che di un'idolatria si tratta e non di una vera religione – per ingraziarselo, e i secondi ai lavoratori (manager e impiegati per lo più), che hanno il ruolo di sacerdoti necessari alla celebrazione dei riti e a mantenere viva la fede nel consumo.

 

È più opportuno chiamare la nuova fede idolatria piuttosto che religione perché, come diceva Benjamin, non prevede dogmi ma solo culto, e soprattutto perché, aggiunge Bruni, vi è totalmente assente l'idea di gratuità che invece costituisce il perno delle religioni, in particolare del cristianesimo. Tra fedele e divinità – ossia tra impresa e consumatore – non c'è alcun rapporto di parità, di amore, di libertà, ma solo interesse e sfruttamento reciproco. Per quanto riguarda i dogmi, in realtà il capitalismo moderno ne ha alcuni. Si tratta degli incentivi e della meritocrazia che, secondo Bruni, hanno sostituito le dinamiche di dono e gratuità, divenute il vero tabù dell'odierno sistema capitalista (e quale religione non ha i suoi tabù?). Facile individuare nella cerimonia degli acquisti e nel centro commerciale, rispettivamente, il rito e il luogo della nuova religione capace, tra l'altro, di creare addirittura delle comunità, quelle degli adepti del singolo brand.

 

 

Bastano questi brevi cenni a farci comprendere che si stanno affrontando argomenti complessi, che coinvolgono diversi ambiti di conoscenze e che, data la brevità del saggio di Luigino Bruni, non ricevono lo spazio per un approfondimento necessario a sviscerarne i molti aspetti. Certamente l'autore mette in campo e offre al lettore importanti elementi per   aiutarlo a comprendere il presente, complesso come mai prima nella storia e, soprattutto – ed è questa la parte a mio parere più interessante del libro – sufficienti per far emergere la disumanità che si nasconde dietro l’apparente razionalità, talvolta addirittura l'affabilità, dei comportamenti oggi predominanti nelle relazioni aziendali. Eppure il libro di Luigino Bruni, interessante e provocatorio, mette anche un po' in difficoltà il lettore. Infatti, pur trovandovi una descrizione delle dinamiche aziendali per molti versi acuta, sottile e veritiera, si incontrano anche osservazioni che suscitano perplessità. 

 

L'autore mette in chiara evidenza la contraddittorietà dell’atteggiamento del capitalismo moderno nei confronti dei dipendenti. Un tempo, sostiene, l’impresa chiedeva molto ai suoi dipendenti, «ma non troppo e soprattutto non tutto» come fa oggi. Chiedere tutto è tipico della fede religiosa: a Dio si può, anzi si deve dare tutto, perché è l’unico talmente grande, in senso anche morale, da meritare una dedizione assoluta che non umilia né distrugge la libertà e la dignità di chi gli si sottomette, ma al contrario lo libera dai condizionamenti del mondo. Oggi, sottolinea Bruni, l’impresa chiede tutto, il sacrificio della vita sociale, della famiglia, del tempo … insomma vuole la totalità della persona. Come Dio, ma Dio in cambio offre tutto, l’impresa no. Essa non vuole neppure creare legami comunitari e umani coi propri dipendenti, come invece faceva il signore nel sistema feudale in cui rapporti di fedeltà assoluta reciproca erano la base del sistema stesso. L'impresa vuole tutto, ma non dà quello che chi dà tutto si aspetta in cambio; così «col passare del tempo gli investimenti affettivi non riconosciuti dei dipendenti diventeranno crediti emotivi che si capisce non saranno mai saldati», provocando crisi e sofferenze psicologiche. Se si chiede al lavoratore un legame affettivo, stima, lealtà, creatività, dedizione, passione – parole grandi che danno sapore e senso alla vita – bisogna dargli in cambio altrettanto in termini di legame affettivo, rispetto, fiducia, libertà e stima. Solo così funzionano bene le cose tra esseri umani. E le imprese sono fatte di esseri umani!

 

Ed è qui che il lettore avverte qualche disagio. Infatti Luigino Bruni personalizza i concetti di capitalismo o di aziendalismo in un modo che pare in qualche misura contraddire il suo convincimento e la sua conseguente esortazione a dare maggior peso e valore nelle aziende alle diverse qualità e caratteristiche personali dei collaboratori; a non considerarli perciò semplicemente come massa di lavoro o categorie, ma come individui, ciascuno con le sue proprie capacità, ricchezze e povertà, onestà o disonestà. Solo in un simile dinamica di apprezzamento individuale, di riconoscimento e rispetto per la propria dignità e libertà, ciascuno può dare e dà il meglio di sé. Allo stesso tempo, però, Bruni parla del capitalismo odierno come fosse una persona e non una categoria – economica, di pensiero o che dir si voglia. E delle imprese (e dunque degli imprenditori che in quelle lavorano, probabilmente con gli stessi bisogni aspirazioni e caratteristiche psicologiche di quelli con cui lavorano) come fossero in qualche modo entità a sé stanti, indipendenti, impersonali e tutte uguali. Quella libertà e valorizzazione del singolo che giustamente Bruni pensa potrebbe rendere il mondo del lavoro migliore, deve essere riconosciuta a tutti i lavoratori e deve valere per tutti, dall'imprenditore, ai dirigenti, agli impiegati e agli operai. Personalizzare il concetto di capitalismo o di impresa capitalista spersonalizza in definitiva le persone, soprattutto i dirigenti e gli imprenditori che, come i loro collaboratori, sono ognuna diversa per sensibilità, storia, capacità, valori umani. Senza nulla togliere alla realtà di certi meccanismi applicati in certe imprese capitaliste da certi dirigenti e imprenditori.   

 

Anche a proposito del deciso attacco alla meritocrazia non mi pare sia corretto generalizzare e assolutizzare, perché si potrebbe arrivare a svalutare l’impegno del singolo e a disconoscere la legittima aspettativa di vedere in qualche modo – non solo monetizzando – riconosciuto il senso di responsabilità e la serietà della persona riguardo al proprio lavoro e al proprio impegno. Come Bruni afferma in una delle sue conferenze tenute nei primi mesi del 2019 alla trasmissione Uomini e profeti, su Rai3, e come non mi pare evidenzi abbastanza in questo suo saggio, la questione non riguarda il merito in sé ma cosa si considera meritevole. Ad esempio, non è merito semplicemente stare sul luogo di lavoro 12 ore anziché 8, ma le qualità umane che una persona mette nel proprio lavoro, come capacità di ascolto dei colleghi, generosità, attenzione alla situazione personale, umiltà, capacità di collaborare e così via, queste sono meritevoli e devono essere riconosciute e apprezzate.  

 

In definitiva, ciò che Bruni propone come rimedio ai mali del capitalismo odierno è un cambiamento semplice, eppure epocale tanto quanto necessario, difficile al punto che realizzarlo assomiglia alle fatiche di Sisifo, ed è di essere tutti più umani, e umani migliori possibile: miti, gentili, liberi, creativi, leali, comprensivi. Non c'è altra via per immaginare una società produttiva ed efficiente che non schiacci l’essere umano e non ne mortifichi le legittime aspirazioni a una vita personale piena, significativa e dignitosa. È urgente introdurre nei rapporti economici e di lavoro un nuovo umanesimo che riporti al centro il più possibile l’uomo, il suo desiderio di esprimersi, la sua capacità di agire con gli altri in vista di e per il bene collettivo. D’altra parte è questa la direzione che ci indicano i malesseri, le difficoltà e i pericoli che in vari campi emergono nella vita del mondo di oggi. Solo se si rimette l’uomo, ogni uomo e l’umanità nel suo insieme, al centro dell’attenzione e degli sforzi di tutti, può trovare senso la difficile espressione di Gesù «A chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche ciò che crede di avere» (Lc 8,18): chi è ricco di umanità ne sarà ricolmato e chi è poco umano finirà per perdere anche quella che crede di avere. 

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