Sino a che punto ci spingeremmo per ottenere quello che vogliamo? / La sfida crudele di Squid Game

26 Ottobre 2021

Sino a che punto ci spingeremmo per ottenere quello che vogliamo?

Ce lo chiediamo quando siamo messi all’angolo, quando le scelte difficili ci puntano il riflettore al centro della faccia, accecandoci.

Implicitamente ce lo chiede di continuo Squid Game, serie Netflix più vista al mondo, un geniale prodotto mediale coreano che narrativizza le miserie del genere umano.

È bene chiarire che Squid Game in quanto k-drama rappresenta uno dei pilastri dell’Hallyu, “l'ondata coreana” da cui fluisce il successo e la popolarità dei prodotti culturali e commerciali della Corea del Sud, la quale esercita la sua influenza e il suo potere economico in modo “dolce”. L’agglomerato di narrazioni mediali dell’Hallyu costruisce l’idea di coreanità nel mondo e lo fa in modo esemplare dato che la capacità di coinvolgimento delle narrazioni è proporzionale alla loro efficacia. Lo dimostrano tutte le derive culturali e commerciali di Squid Game, come il picco di frequentazione dei ristoranti coreani, i milioni di follower guadagnati nel giro di pochi giorni da attori semi-sconosciuti fuori dalla Corea, il fioccare di collaborazioni di ogni genere brandizzate con le figure e i simboli della serie Netflix. Parasite, il k-pop e i BTS avevano già preparato il terreno, ma Squid Game ha eroso le ultime resistenze anche di chi lamentava difficoltà nel fare orecchio a una lingua mai sentita e nell’approcciarsi a situazioni nuove e incomprensibili per il senso comune dell’italiano medio come ‒ semplificando i vari pareri raccolti ‒ le strade pulite e la questione lavorativa degli anziani.

 

Squid Game concretizza l’intraducibilità di alcune differenze culturali, come l’utilizzo degli onorifici, ovvero i termini usati dai coreani per parlare con persone più anziane o più in alto nella piramide gerarchica, deliberatamente ignorati nel doppiaggio e nei sottotitoli comportando l’esclusione di una parte importante dell’atmosfera emotiva della narrazione generale e delle relazioni tra i personaggi.

La prima sequenza del primo episodio condensa l’intero sistema di valori della serie Netflix, soprattutto per quanto concerne l’impronta dell’infanzia nell’età adulta.

Dei bambini giocano in un campetto mentre la voce fuori campo del protagonista spiega le regole del gioco. Stiamo assistendo all’Ojingeo Geim, in cui vince chi arriva per primo alla sommità della testa del calamaro. Chi perde "muore". Dalla scena in bianco e nero che rimanda a un'età dell'oro ormai persa nelle pieghe del tempo, si passa ai colori del presente con il bambino ormai adulto e padre, ma ancora dipendente dalle cure della madre. Il vincitore dell'agon è un perdente nella vita reale, dove la competizione è ancor più bruciante e perde la natura di svago.

 

Estratti della prima sequenza del primo episodio.


Nella serie Squid Game il gioco assume un’accezione etologica dove le azioni intraprese “sviluppano forme attive di apprendimento per lo più attraverso combinazioni di movimenti che simulano situazioni (caccia, lotta, ecc.) di importanza vitale” (Vocabolario Treccani). I vari giochi infantili insegnano a sopravvivere, e delineano le capacità che poi si attiveranno da adulti sui vari campi di battaglia calcati ‒ scuola, università, lavoro, relazioni ‒ dove si consumano brutalità di ogni tipo.

Sicuramente ognuno di noi ha nel suo bagaglio di esperienze una serie di aneddoti da raccontare, di villanie, se non proprio violenze, subite o inferte per raggiungere un obiettivo.

 

Cosa c’è di tanto diverso nei sei giochi che compongono lo Squid Game? L’incombenza della morte, la terminatività della sconfitta? Non scandalizziamoci troppo facilmente per le scene cruente di Squid Game: anche nel quotidiano la mancanza di correttezza morale asservita al proprio tornaconto equivale a un omicidio/suicidio perché si priva l’altro di possibilità e di fiducia e sé stessi della tanto decantata purezza da infante. Succede dappertutto, sempre. È forse questa la spiegazione del successo globale della serie di Netflix.

Nonostante la messa in discorso di alcuni tratti caratterizzanti della società coreana come le carenze del sistema previdenziale e la totale assenza dell’assistenzialismo, o altri elementi come gli onorifici, il gioco da bambini è il vero elemento trasversale a tutte le culture. Pensiamo a un, due, tre, stella! (o un, due tre, stai là), al gioco della campana o alle biglie: sono elementi polisemici e multiculturali che permettono a tutti di identificarsi nelle situazioni rappresentate. A dire il vero, anche la disperazione è un innesco immersivo: per questioni diverse, tutti, almeno una volta, abbiamo osservato il paesaggio dall’orlo del baratro chiedendoci «e ora?». La differenza tra realtà e narrazione sta nell’assenza dell’affascinante sconosciuto con al seguito un invito al gioco.

 

Immagine promozionale di Squid Game con il primo gioco “Un, due, tre, stella”.


Il gioco con il biscotto Dalgona.


Che si tratti di giochi interculturali o propri della cultura coreana come quello del biscotto di zucchero chiamato dalgona, c’è un altro tratto costante, più o meno esplicito: perdere equivale a morire. Non c’è bisogno di arrivare ai videogiochi sparatutto e al “game over”, anche nella battaglia navale colpito e affondato equivale a “morto”. Dunque, i bambini la morte la manipolano di continuo a partire dal gioco, perdendo giorno dopo giorno la loro ingenuità. E ciò viene rappresentato molto bene nel sopracitato passaggio tra bianco e nero e colore, che collega il bambino vittorioso all’adulto perdente. Se tutto è andato perso, perché non perdersi ancora una volta nei giochi?

In una recente intervista a El País il filosofo coreano Byung-Chul Han, a proposito di Squid Game, ha affermato che la “dominazione totale arriva quando una società è solo impegnata a giocare” (trad. mia).

La gamificazione dell’esistente, in fase di sviluppi ulteriori nel metaverso (basta pensare a Facebook), rende l’elemento ludico una forma di dipendenza attraverso la compulsione a intrattenere e a essere intrattenuti. 

 

E allora qual è il senso del gioco in Squid Game?

 

Riprendendo ancora Han e una sua rilettura della moralità nel gioco infantile presente nella Critica del giudizio di Kant, in Squid Game assistiamo a una sorta di tripartizione del senso, suddiviso tra gara, moralità e divertimento (si veda Han, Sano intrattenimento. Una decostruzione della passione al cuore dell’Occidente, Nottetempo 2021)

Chi assiste allo Squid Game ‒ pubblico e VIP ricchi epuloni “occidentali”, ovvero il nostro simulacro ‒ non solo gioca a sua volta scommettendo sul vincitore, ma competono nel “gioco della facoltà di giudicare”. La presenza di scene cruente alternate alla narrazione di delicate questioni di importanza socioculturale come il traffico di organi o il dover rifiutare le cure perché non ci si può permettere il conto dell’ospedale, rende “moralmente efficace” Squid Game perché coinvolge mente e cuore. Alla fine, ci si sente in dovere di giudicare le azioni dei giocatori per “disfarsi” dell’ansia che incombe, provocata dalla consapevolezza del lato oscuro della natura umana. Cosa saremmo disposti a fare per vincere 33 milioni di euro, cioè il montepremi di Squid Game? Che valore hanno la dignità e la vita umana?

 

Da sinistra Frontman e VIP in Squid Game.


E allora Squid Game diventa un vero e proprio intrattenimento morale reso godibile dall’estetizzazione del campo di gioco, dalle divise di partecipanti e aguzzini, dalla teatralizzazione della sconfitta-morte. La rete di citazioni su cui è costruito questo mondo finzionale è fitta e vastissima: i simboli dei controller della Playstation dipinta sulle maschere da scherma delle guardie (protesi di chi controlla il gioco), il dionisismo dei VIP crapuloni, la videosorveglianza di Orwell e Huxley, le scale-rito di passaggio ispirate a Escher, che a sua volta aveva preso spunto dalle incisioni delle carceri di Giovanni Battista Piranesi, per mostrare i vari livelli del reale. 

 

Squid Game dimostra che le scelte non riguardano mai un singolo individuo o momento, ma si estendono sui piani e livelli dell’esistenza, influenzando tutti gli elementi del sistema. E il fatto che un solo gioco in realtà sia composto da sei partite attiva anche una riflessione sulla sua stessa forma espressiva, quella della serialità, dunque delle narrazioni a episodi, ormai predominanti nel nostro tempo. Allora, ancora una volta con Han, si può affermare che l’impulso alla gamificazione è seriale, nel senso che accade rigorosamente e inesorabilmente, assolutizzando l’intrattenimento in ogni area delle relazioni umane e del sapere.

Alla fine dei giochi rimane il tempo, acquistato o semplicemente perso.   

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