Dress code 16. Labubu

16 Agosto 2025

Protesi dell’io, ostentazione del sé o custodia dell’intimità: la borsa dice chi siamo prima ancora che apriamo bocca. Come scrive Anne Beyaert-Geslin, che ho tradotto in Miti Galeotti. A intelligenza del resto (Mimesis 2024, omaggio a Isabella Pezzini), “alla borsa si delega l’essere del fare”, cioè le si chiede di sostenere un contegno socializzato e, al contempo, di racchiudere l'intimità. Non a caso uno dei format più popolari nelle riviste di moda è il mostrare cosa nasconde la borsa firmata di una celebrità, per umanizzarla o renderla ancora più elitaria. La borsa assegna un contegno, marca lo stile e l'occasione del momento: zaino sportivo, pochette da cerimonia, tote bag da vita quotidiana. Quando la borsa si proietta all’esterno, smette di essere contenitore per diventare contenuto: oggetto da ornare, da guardare, da mostrare. Così compaiono peluche giganti, sticker, charms, catenine. La borsa si deforma, si agghinda, si ingombra, trasformando la sua efficacia simbolica. L'interiorità del mondo vitale emerge all'esterno per essere guardata dal di fuori, da chiunque si incroci sul proprio tragitto. Manifesto identitario, nostalgia o ennesima ed effimera tendenza consumeristica? Appendere pupazzetti cambia il modo di agire: limita i movimenti, ingombra, ma diventa un gesto di orgoglio. Un’esibizione dell’impegno corporeo, una via di fuga dalla realtà. Come osserva de Saussure, ogni foglio ha un recto e un verso: ogni significante ha il suo significato, anche se resta implicito. Il corpo è questo foglio di cui le righe non bastano: ecco allora che si scrive oltre, si decora, si carica di oggetti la protesi del corpo attuando un overwriting identitario.

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Si delinea un’estetica eccessiva e ipercarica, che travalica il sistema dell’outfit e si manifesta con layer di charms, sticker, peluche miniaturizzati, badge, catenine.

Per poter scrivere questo articolo ho seguito il trend, per capire cosa si prova ad attaccare un mostriciattolo alla borsa. E ho comprato un Labubu, con la pelliccia viola e il vestitino di tweed color oro. Un’edizione limitata, pare. Un Labubu è un peluchetto con il faccino di plastica semirigida, due occhi grandi e un ghigno malefico.

In Cina vengono trattati come pet, anzi, come figli, rivestiti con costumi tradizionali aristocratici. Su un account Instagram dedicato alla cultura giovanile araba “Mille” si legge che i Labubu sono diventati simbolo di esaurimento economico e di recessione, di rifiuto verso il lusso esclusivo e irrazionale che interpreto come propensione per il non esclusivo finalizzata all’espressione di una qualche autenticità del proprio essere. La competenza esperta dell'economia direbbe che si tratta di lipstick effect, del ridimensionamento del consumo in oggetti piccoli e controllabili. Il fenomeno non nasce oggi. Già nei primi anni Dieci del Duemila, in Giappone, la subcultura AGCN (Anime, Game, Comic, Novel) inventa le Itabag: borse trasparenti o decorate per mostrare l’appartenenza a un fandom. Un’estetica affettiva e relazionale, nostalgica e massimalista, che si impernia nel “safe space” dell’espressione del sé attraverso la moda per poi essere sfruttata da finalità di mercificazione.

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La “cuteness”, la carineria, se gestita con cura, può essere fruttuosa quanto il “vero lusso”. Lo sa bene Ning Wang che si ispira proprio al Giappone, per la precisione ai distributori automatici di Gashapon (pupazzetti, gadget racchiusi in capsule), per fondare nel 2010 il brand Pop Mart a Pechino specializzato in oggetti carini e coccolosi. A luglio 2025 Wang conta su un patrimonio di 22,7 miliardi di dollari che lo incorona il più giovane miliardario cinese. Pop Mart diventa un fenomeno globale grazie alla collaborazione con Kasing Lung artista originario di Hong Kong, cresciuto a Utrecht e poi stabilitosi ad Anversa, creatore della serie per bambini The Monsters, ispirata alla mitologia norrena. Tra questi mostri c'è l'elfo, ma spesso definito goblin, Labubu che appena viene materializzato come pupazzo acquisisce fama e viene avvolto dall'hype delle edizioni limitate. Il fenomeno si consolida in Cina, spinto dai social come Xiaohongshu e Bilibili, e nel 2024 esplode globalmente grazie a corpi mediali di grande influenza: idol K-pop come Lisa e Jennie delle Blackpink, ma anche RM dei BTS, Rihanna, e alcuni giocatori NBA, sino a giungere sulla tomba di Karl Marx, a testimonianza del fallimento del suo tentativo di combattere il Capitalismo. A Milano, lunedì 9 giugno 2025, una massa rissosa si accalcava davanti alla sede di Pop Mart in Corso Buenos Aires per accaparrarsi non so quale edizione limitata, mentre il referendum su lavoro e cittadinanza andava deserto.

Marx ha effettivamente perso.

Un Labubu non ha alcuna utilità pratica, si pone a metà tra utopia e gioco perché un po’ fa tornare all’infanzia e un po’ serve da supporto emotivo: è morbido, accarezzarlo calma l’ansia perpetua. Diventa charm emotivo, gesto di introspezione, ma anche spettacolarizzazione dell’esteriorità. L’attitudine identitaria viene codificata ben oltre generi e subculture, usando i mostriciattoli di peluche come significanti stabili dell’immaginario collettivo per esprimersi, ibridarsi nell’attribuzione di autenticità in orizzonti aliena(n)ti. Il ricorso a figure infantili fa giocare, come scrive Barthes in Il sistema della moda, come il tema più complesso della coscienza umana il “Chi sono davvero?” che sembra ottenere risposta dall’ossessione del decoro. Scegliendo l’Itabag si prende una posizione attiva contro l’essere nell’occhio del ciclone degli eventi, agendo in modo durativo e puntuale per dimostrare non solo di saper seguire la moda, ma di far parte di una forma di vita rilevante in quanto tattica estetica che setta il ritmo per il fare e l’essere.

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Un Labubu, in quanto essere “mostruoso”, non è solo “carino”: è creepy, cringe, tenero e disturbante, come molte delle emozioni che le generazioni Alpha e Z hanno imparato a manifestare in uno stato di disagio permanente, che, a dire il vero, provo anche io da Millennial. Il cringe è quel brivido che mixa imbarazzo e fastidio, provato dinnanzi agli eccessi di ogni tipo: di affetto, allegria, tristezza, malinconia, all’intimità mal calibrata, all’autenticità non filtrata. È imbarazzo.

Nell’ultimo capitolo di Apocalittici e Integrati, Eco evidenzia quanto la predilezione per il mostruoso sia una manifestazione della saturazione di “ogni eccitazione” che cerca di appagarsi nell’insolito, come fosse una droga a basso costo e impatto. Allora, riprendendo un’ilare metafora di Eco, mi chiedo se i Labubu appartengono o no allo “stesso settore di quello spazzolino in visone per pulire l’ombelico che negli Stati Uniti” è commercializzato per chi possiede già ogni cosa? Sì, in quanto oggetto di consumo dal voluto effetto catartico, per liberarsi da angosce o ripulire le coscienze intaccate da istinti negativi.

Labubu riabilita il cringe nel suo radicalizzare aegyo e kawaii, che, rispettivamente, in coreano e giapponese declina il senso unico della carineria. È il coraggio di essere vulnerabili che nella società globale si traduce in rivoluzione d'intenti, come nota Gianfranco Marrone qui, su Doppiozero: “Il Cute sarebbe insomma la manifestazione più evidente di questo stravolgimento sistematico delle tradizioni, della catastrofe antropologica (e nessun riferimento è casuale) come esito necessario di una modernità tanto saccente quanto fragile, il classico gigante dai piedi d’argilla, la tigre di carta”.

L’Itabag è la borsa delle emozioni impacchettate. Il Labubu è il suo totem. Creepy, tenero, disturbante, incarna il disagio permanente delle generazioni digitali. Il suo cringe non è solo imbarazzo, ma confessione e forma di resistenza.

E allora il cute dell'Itabag può essere visto come resilienza semiotica, ibuprofene dell’anima: non anestetizza il dolore, ma lo rende visibile, condivisibile, riconoscibile.

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Nota: il fenomeno non è solo oggetto di interesse Pop, ma anche accademico, come dimostra la tesina svolta per l'insegnamento di Semiotica dei media (AA 24-25) dalle studentesse Angelica Iatomasi, Alessia Notaro, Adriana Vangone del corso di laurea magistrale in Media, Comunicazione Digitale e Giornalismo del CoRiS Sapienza Università di Roma dal titolo “Borse parlanti come contenitori emotivi: tra dedizione verso l’altro e rappresentazione del sé. Analisi comparativa sul trend dell’ita-bag: video tiktok tra Oriente e Occidente”.

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