Romaeuropa Festival / L’Africa fantasma di Elvira Frosini e Daniele Timpano
All’inizio di Acqua di Colonia di Elvira Frosini e Daniele Timpano, mentre i due performer, in bilico sulla destra del proscenio, arcigni come due falchi ai quali è stato appena tolto il cappuccio, guatano la sala, sulla destra del palco del Teatro Quarticciolo di Roma, è seduta una signora di colore. Una figura piccola e snella che, la testa avvolta in una specie di turbante, si sforza soprattutto di non essere notata: rimarrà in quella posizione per tutta la prima parte dello spettacolo, seduta con le gambe incrociate, il suo unico movimento sarà di cambiare gamba da accavallare – e gioco forza, chi la guarda, per l’enigma rappresentato proprio della sua impassibilità, quasi un contrappunto del fervore satirico che le ribolle attorno, non può fare a meno di leggere in quel gesto una specie di intenzione ritmica. Alla fine dello “zibaldino africano” verrà riaccompagnata al suo posto in platea, come quegli spettatori che un tempo venivano chiamati sul palco dagli illusionisti, e sempre più spesso, oggi, su una scena che si vuole interattiva: il pubblico la applaude anche se non ha fatto nulla. Le accade, insomma, quel che secondo Nicola Chiaromonte capita all’“oggetto vero” una volta che appare in scena: “salta agli occhi, abbacina, ipnotizza, preoccupa e non dice nulla”.
Eppure questa figurina muta, destinata a cambiare di replica in replica ed esposta con un’ironia concettuale volutamente ridondante, à la Gino De Dominicis, sta allo spettacolo di Frosini-Timpano come la lettera trafugata sta al mare di carte in cui si confonde nel famoso racconto. È il suo sfuggente significante: ciò che manca, e che sempre mancherà, a un teatro del colonialismo che alza una Babele di segni e di immaginari, ammassando pagine di guide dell’Africa Orientale italiana e vecchie gag da avanspettacolo, Topolino in Abissinia e Addio sogni di gloria, cliché di un passato colpevole e luoghi comuni di un nuovo, giubilante razzismo che dal senso di colpa si sente liberato, il lirismo, l’erotismo, il moralismo. La alza, poi la cosparge di benzina e le dà fuoco in un rogo purificatore i cui fumi esilaranti sembrano una risposta ai gas venefici e genocidi con cui il Maresciallo Graziani seminò l’altipiano etiopico. Tutto e, il contrario di tutto – ma non il breve, indecifrabile sorriso di questa signora che uscendo di scena si porta appresso quell’ Africa che Michel Leiris già negli anni trenta definiva “fantasma”.
Questa voce ammutolita torna alla fine dello spettacolo, registrata e senza corpo, trasfigurata sotto le spoglie di una scimmietta di peluche (perché i peluche, come dice la Frosini all’inizio, “parlano un’altra lingua, ma chi li capisce…”). Ma è, per così dire, troppo tardi. Un’implacabile liturgia comica, più simile a un Tribunale che a una messa – un caotico, eppure ideologicamente preciso, Tribunale Dada nell’anno del centenario – l’ha passata al vaglio di intere ere della negazione dell’altro miniaturizzate in un carnevale di neanche due ore. E adesso, suona come un’interferenza nella dialettica tra servo e padrone che, dopo il colonialismo e il neo-colonialismo, continua ad alimentare anche la macchina inclusiva della carità spettacolo. È lo schiaffo più bruciante ma anche l’illusione più estrema, perché se qualcuno è titolare di un discorso e parla in Acqua di Colonia, siamo sempre e comunque “noi”.
Noi, cioè loro, dato che la coppia diabolica di Zombitudine continua a considerare il pubblico verso cui si sporge “ipocrita, mio simile, fratello.” Non c’è un’offesa tra quelle assestate con equanime mal grazia a tutte le culture che hanno contribuito alla rimozione del passato coloniale italiano che il duo non abbia sperimentato preventivamente su sé stesso. A onta della ferocia ex cathedra delle loro provocazioni, e di un teppismo avanguardistico di cui sono a volte le consapevoli parodie, Elvira Frosini e Daniele Timpano ricalcano abbastanza fedelmente la divisa morale di quella satira ebraica mitteleuropea, sospesa tra teatro e cabaret, che Antonella Ottai ha raccontato in un bellissimo libro (Ridere rende liberi, Quodlibet, 2015), per cui ridere, irridere, deridere gli altri è possibile proprio perché si sta ridendo (irridendo, deridendo) soprattutto di sé stessi. Non a caso il primo passo (falso) di Acqua di Colonia vede i due proiettati in un tipico dialogo da aperitivo in uno dei quartieri bobo (o hipster) della capitale, con lei che gli chiede a bruciapelo: “Senti ma tu cosa pensi quando sei al bar, in Piazzetta, da buon finto proletario radical chic artista con le Birkenstock, e intanto passano dieci, quindici di questi che vendono l’accendino, il carica batteria… no, perché io mi innervosisco… e poi mi viene una cosa, una cosa qua che mi sale, e poi mi sale e insomma, pazzesco, mi viene voglia di dargli un sacco di botte…”. È quella xenofobia idiosincratica che quasi tutti hanno provato almeno una volta nella vita, una banalità del male subito seguita, e temperata, dal civile colpo di coda del senso di colpa. Ma, banalità per banalità, “è tutta colpa”, come risponde lui, “del colonialismo”. Tutta colpa di una storia che, in realtà, non conosciamo e che, come si scopre in seguito, non ha mai conosciuto e veramente riconosciuto sé stessa.
Lo “zibaldino africano” che ne scaturisce, occupando tutta la prima parte di Acqua di Colonia, ha la bellezza di una mina fatta brillare per sbaglio sotto un deposito di cianfrusaglie eteroclite, una tempesta perfetta nel bicchier d’acqua della retorica coloniale, da cui saltano fuori come proiettili sparati a caso tutti gli elementi, le maschere, i personaggi che saranno ma non faranno lo spettacolo: pura scrittura, in un certo senso, e dunque inabilitata all’azione, sogno e predicazione dello spettacolo impossibile che dovrebbe essere – un Kolossal della cialtronaggine, zeppo di colori e di corto-circuiti, che è anche e soprattutto la storia dell’Italia coloniale, dei bei tempi “quando eravamo noi a rompergli il cazzo”, raccontata da un nuovo tipo di selvaggio che unisce l’indigenza dei ricordi di scuola alla nevrosi simultanea dell’immaginario contemporaneo.
Frosini e Timpano si servono a piene mani di un dispositivo ritmico e letterario caro alle avanguardie (soprattutto a quella surrealista): il catalogo, l’elenco. Ma più che all’ironia dell’eccentrico, lo volgono al parossismo di una fantasia mostruosa nella sua bulimica assenza di confini, spossante nel ritmo che impone agli interpreti, soprattutto a Timpano, che rasenta la trance nella scansione in crescendo delle lussureggianti denominazioni di villaggi e presidi che costellano la mappa dell’Africa Orientale italiana: “(…) Adua, Makallé, il Tekazzé, il Tsellemetì, Bonga e Gimma, Agordàt, Barentù, Axùm, Neghelli, Dire Daua, il massiccio del Semè, il Lago Tana, Gondar dai mille castelli…” Potrebbe sembrare inutile questa vertigine iniziale in cui il riassunto e la didascalia si dissolvono nell’onomatopea, e il racconto è bruscamente sopraffatto dal lirismo anacronistico di una guida del 1938, dove alla nominazione dei luoghi succede quella, biblica, delle specie animali. E invece è proprio nello “Zibaldino” che Acqua di Colonia tocca e fa toccare con mano quel sentimento di fascinazione, e di perdita di sé, che poi sostanzierà le figurazioni successive: perché senza quest’Africa stucchevole e barocca – flamboyante, come alcuni la definiscono, all’opposto della sua versione arida e desertica che è quella dello scatolone di sabbia libico – senza il delirio intriso di sudore davanti allo spettacolo di Massaua, o senza gli echi di Aida e Radamès, poco si capirebbe di quella relazione di seduzione distorsiva che lega il colonizzatore al colonizzato e che poi verrà esemplificata dalla Frosini con una citazione da Orientalismo di Edward Said (è una relazione, per altro, perfettamente compresa da un conservatore come Conrad).
Si capirebbe meno il quadro in cui Timpano, mollemente abbandonato su una sedia ai limiti del proscenio, fa rivivere l’Indro Montanelli che in uno studio televisivo confessò con cinica e nostalgica disinvoltura la storia della sua moglie africana dodicenne. E ancor meno l’episodio che per molti spettatori è stato di gran lunga il più irritante di Acqua di Colonia, quando Elvira Frosini con mimetismo perfetto, e con tanto di occhiali scuri, si cala nelle fattezze di Pier Paolo Pasolini e della sua nostalgia per un’Africa arcaica, mitica, preistorica, “del suo candore barbaro e delle sue masse di ultimi della terra” travolti dall’ecatombe definitiva del Capitale. Mentre un Ninetto Davoli “negrizzato” gli gira attorno in cerca di ascolto, ennesima variante del tormentone che va e viene nella seconda parte dello spettacolo, ispirato a una celebre gag televisiva in cui Ugo Tognazzi e Gianni Agus facevano la parodia di una canzone del 1968, Angeli negri cantata da Fausto Leali (ancora più antica, Angelitos negros venne tradotta e interpretata nel 1949 da Carlo Buti, lo stesso autore di Faccetta nera. “Pittore ti voglio parlare… fammi un angelo negro” che per Frosini-Timpano diventa “metti un negretto nel tuo spettacoletto”).
Bisogna tornare a un vecchio lavoro di Rodrigo García, dove Pasolini veniva iscritto nella classifica dei “dieci peggiori figli di puttana del mondo”, per ritrovare un’idiosincrasia altrettanto acuminata verso l’autore delle Ceneri di Gramsci. Ma se lo scandalo è comprensibile, per chi ama il poeta di Casarsa, e soprattutto si riconosce nella sua lettura totalmente solitaria (almeno in Italia) del processo di modernizzazione, è tutt’altro che gratuito nella drammaturgia convulsiva di uno spettacolo che sfata l’idea ancora piuttosto diffusa e tranquillizzante che il tardivo e rimosso colonialismo italiano si identifichi con l’impero fascista: più che una ricostruzione sia pure frammentaria dei misfatti del colonialismo italiano, Acqua di Colonia è una decostruzione sui generis dei miti e degli idioletti, alti o bassi che siano, della mentalità coloniale.
Dietro tutte le maschere che girano nel suo orologio fuori di sesto, si nasconde e riaffiora la fissità di un unico sguardo che nell’altro riesce a vedere solo una proiezione articolata della propria identità, prima come desiderio di conquista, poi come strategia di sfruttamento economico, dulcis in fundo, come cauterizzazione estrema del proprio senso di colpa in una pietas umanitaria che piange anzitutto sé stessa. Un solo circolo vizioso tiene insieme le risate più sottili e quelle più rozze e farsesche, i crimini efferati del generale Graziani e il sentimentalismo dell’Italia canzonettistica, l’odio più volgare e quello che Pascal Bruckner battezzò (cinicamente) il “singhiozzo dell’uomo bianco”. Hic Rhodus, hic salta. Non è l’acqua, profumata e corrosiva, a rappresentare meglio Acqua di Colonia. Sono le sabbie mobili di una coscienza europea che più si dimena, più va a fondo. E se non ci fosse il vitale amalgama delle virtù performative dei due interpreti, mai così affiatati e assonanti, sarebbe uno spettacolo insopportabile, non quel capolavoro di comicità critica che invece è.
Acqua di colonia (scritto con la consulenza di Igiaba Scego), dopo Romaeuropa Festival e Teatro della Tosse di Genova si può vedere al Pisa Folk Festival il 9 dicembre.