Il suono di Pasolini
C’è uno stato mentale, cognitivo, sentimentale che Stendhal constatava in chi assiste a uno spettacolo teatrale: si chiama (lui lo chiamava) illusione perfetta e, secondo l’autore di Lamiel, è più facile che si verifichi nei sogni o nelle fantasticherie a occhi aperti, e tuttavia esso finisce sempre per agire in qualche momento della visione teatrale. L’illusione perfetta di Solo una cosa ho avuto nel mondo è di un tipo estremamente singolare: chi esce dalla performance di Monica Demuru e Cristiano Calcagnile si convince che essa è la perfetta trasposizione ecfrastica di La ricotta di Pier Paolo Pasolini in un’opera musicale e sonora. Cioè si convince di aver rivisto il film nella sequenza di un altro montaggio dove al posto delle immagini ci sono la musica – e quella parte della musica che i greci consideravano essenziale, il rytmos – e la voce, anzi le voci – il melos sulla cui capacità di attrazione e di trasformazione, di individuazione e di totale dispersione di sé, ben nota fin da Omero (e tuttavia mai risolta, neanche musicalmente, basta pensare alla vicenda del Miserere di Allegri raccontata proprio da Stendhal), Demuru ha basato la sua straordinaria parabola artistica.
Sorpresi e ancora ipnotizzati dall’incredibile quantità di immagini che questo melologo di non più di un’ora – anche il tempo è divenuto molto relativo – è riuscito a generare, l’equivalente di un kolossal cinematografico, si crede di poterle riordinare in un continuum narrativo che ne dispieghi il potente, e grondante, nucleo emotivo, di risistemarle all’interno di una durata, mentre in realtà, non appena si apre bocca, anche solo per ricordare, non si sa da che parte cominciare.
Abbiamo visto, ne siamo certi, la campagna romana, così vicina alla periferia da non poterla più distinguere da essa, se non nell’orizzonte in cui lo spazio riprende la sua fuga sconfinata, dove è istallato il set del film nel film ispirato alla Passione di Cristo (o alle “profane rappresentazioni di Cristo” di Rosso e del Pontormo, come disse Pasolini davanti al tribunale che lo giudicava con l’assurda accusa di blasfemia): in realtà abbiamo sentito il belato delle pecore, il latrato dei cani, le voci grevi delle maestranze, la rumorosa effusione del sussurro che chiama Stracci – “Stracci! A’ Stracci…”– come per ridestarlo dal suo sogno, dal suo coma di fame e di indigestione; abbiamo visto – potremmo giurarlo – anche l’ombra scura e ingombrante di Orson Welles, padre saturnino del cinema moderno che negli ultimi anni della sua vita vagava come un mendicante tra una produzione e un’altra, in un’Italia che nemmeno più si accorgeva di lui, che Pasolini scelse, con un colpo di genio, come alter ego di una sottile parodia della sua stessa posizione nella cultura del paese con la borghesia “più ignorante d’Europa”, lo abbiamo sentito scandire quei versi gravi e fatali nei quali una forza del passato si autodenuncia come il più moderno di tutti i moderni, durante l’intervista con un querulo giornalista da rotocalco televisivo, che pure abbiamo visto in quanto lo abbiamo sentito – ma, per l’appunto, dove l’abbiamo visto e chi abbiamo sentito?
In scena non ci sono che loro, Demuru e Calcagnile, due corpi che si incarnano e parallelamente si cancellano nell’impermanenza di un progetto inseparabile dall’alea della sua esecuzione performativa (che vuol dire dal suo ripetersi teatrale, tridimensionale, ogni volta uguale e diverso, senza alcuna possibilità di replica, il contrario di un prodotto), nell’intento, esplicito, di sbaragliare la piattezza dell’immagine con la profondità, evocativa ma insondabile, del suono – quasi ci volessero ricordare che l’organo speculativo per eccellenza, come sosteneva Hegel, non è l’occhio, bensì l’orecchio.
In un certo senso, quel che accade in Solo una cosa ho avuto nel mondo – quel che accade là dove soltanto può accadere qualcosa a teatro, nei sensi e nella mente dello spettatore – è il contrario di quando in un film tratto da un romanzo le fattezze di un attore occludono l’immaginazione del lettore rispetto al personaggio, un’immaginazione che non è meno vera – è semplicemente più ambigua, dice il regista-drammaturgo Joël Pommerat – solo perché è cangiante e imprecisa, continuamente assediata dalla penombra: la sonorizzazione riapre il processo immaginativo disperdendo i limiti di un’immagine cinematografica che lo stesso Pasolini considerava solo “illusoriamente profonda” e liberandola “sulle profondità confuse e senza confini della vita”.
L’evocazione ha sempre qualcosa di spiritico, i primi fantasmi, le prime apparizioni, infestano l’udito. La voce registrata dello stesso poeta, chiamato al cellulare da Demuru, in una telefonata impossibile, più surreale che finta, rotola sulla platea con tutto il suo volume – perché la voce riempie, ingombra, è corpo – parlando dal passato, come quella di L’ultimo nastro di Krapp: ha il nitore implacabile (secondo gli antichi, profetico) delle voci che escono dai (o cadono nei) sogni. Ma nel contempo si sgretola nel sogno che la contiene, nella polifonia dello stesso paesaggio su cui si staglia che, assieme ai suoni e alle voci di La Ricotta, continuamente ripresi come i punti di un ricamo, intercetta i rumori di un mondo perduto, sacro nei due sensi, inscindibili, che lo scrittore gli aveva attribuito in un famoso articolo poi pubblicato negli Scritti corsari, cioè benedetto e maledetto – pasoliniano fin dove il senso dell’aggettivo può estendersi o più che altro aprirsi in una fioritura miserabile e grandiosa, che è quella di un corpo dionisiaco, smembrato, dissolto e ricreato nell’aria del tempo: nel fermo immagine della preghiera di una prostituta del Mandrione seduta su una pietra, fracica fino all’ossa de guazza, nel Pianto della Madonna di Jacopone volto al blues, nell’ampio respiro dei versi di Rumi (“ogni immagine che vedi, ogni discorso che ascolti / non penarti quando scompare, ché questo non è vero”) o nelle note, e nei versi, di Lush Life, prima accennata su un ipod nella versione di Chet Baker, poi intonata da Demuru, accorciando le distanze tra Pasolini e il jazz.
Sempre presenti sui tre versanti della scena – a sé stessi, agli altri e tra di loro – trasportati dallo stesso tappeto volante che intessono dal vivo, Monica Demuru e Cristiano Calcagnile trasformano in moneta sonante una intuizione che Antonin Artaud aveva consegnato agli appunti raccolti in Il teatro e il suo doppio, precedendo di un soffio le considerazioni di Pier Paolo Pasolini sulla limitatezza dello schermo: “Il cinema. Alla visualizzazione grossolana di ciò che è, il teatro, grazie alla poesia, contrappone le immagini di ciò che non è. D’altronde, considerata in quanto azione, non si può paragonare un’immagine cinematografica che, per quanto poetica sia, è limitata dalla pellicola, a un’immagine teatrale che obbedisce a tutte le esigenze della vita”. Grazie alla Poesia che, nel solco originario delle espressioni umane, era l’altro nome della Musica.
Solo una cosa ho avuto nel mondo, Toscana Produzione Musica, è un’“operina per voce e batteria” di e con Monica Demuru (voce e drammaturgia) e Cristiano Calcagnile (batteria, percussioni, table guitar) ispirato al breve film di Pierpaolo Pasolini La ricotta. Dopo aver debuttato nel dicembre del 2022 e aver toccato diversi luoghi, lo spettacolo sarà di scena il 7 ottobre prossimo nel bosco di Curadureddu, per il festival Foliage di Tempo Pausania, il 5 e il 6 dicembre al Teatro Comunale dell’Antella di Firenze e il 10 febbraio 2024 a spazioK ad Asti.
L’ultima fotografia è di Gianluca Moro.