La commedia perfetta di Massimiliano Civica
Due diversi divani accostati, uno grigio e uno giallo, accanto a essi due telefoni, uno bianco e uno rosso, che vengono dagli anni settanta, si sfiorano, ma non si toccano, più arretrate verso il fondo, due scrivanie, una dall’aria sobria, quasi monacale, l’altra decisamente più di design, sulle quali sono poggiate due fotografie incorniciate che voltano le spalle al pubblico: nell’ ampio spazio del teatro Vascello di Roma, la scena di Capitolo Due, la commedia di Neil Simon tradotta e diretta da Massimiliano Civica, si distende quietamente prima che lo spettacolo cominci, offrendosi allo sguardo con tutti i suoi parallelismi e i suoi raddoppiamenti bene in vista, in attesa di essere abitata, o forse di restare vuota per sempre, memento spaziale di una classe media che nel frattempo vi è stata inumata con tutte le sue cose, i suoi valori, come in una tomba egizia. Ma proprio nel momento in cui queste simmetrie cominciano a brillare in tutta la loro inquietante ambivalenza, dal fondo, dalla penombra che delimita il confine più estremo della scena, affiorano due figure maschili: la prima compie il passo fatale che apre ogni rappresentazione, dal buio alla luce, ed è tirata in un elegante grigio perla, come il divano, come la scrivania, come la valigia che porta con sé – e il minuscolo, metallico beauty case, simile al cestino di un bimbo dell’asilo, che tiene nell’altra mano – quasi si volesse confondere con lo sfondo del suo appartamento, ha le fattezze impenetrabili e trasognate di un uomo di una quarantina d’anni che, come si capisce dalle battute iniziali, non desidera altro che sprofondare nel silenzio che lo abita. È Aldo Ottobrino nei panni di George Schneider, scrittore di genere che prova a emergere nella letteratura colta, ma soprattutto eterno marito di una moglie defunta che aleggia ovunque nell’aria rarefatta di una commedia dove l’umorismo brillante deflagra con la continua diversione di un’energia, tanto più esplosiva perché affonda le radici nel lutto più inconsolabile, quello per la donna amata (un tema che Civica ha già affrontato con la sua messa in scena dell’Alcesti di Euripide).
E se la seconda figura che si avanza è quella, più vitale, più colorata – giubbotto di pelle marrone e camicia giallo canarino – del fratello di George, Leo, interpretato da Francesco Rotelli, simpatica canaglia (adultera) disposta a tutto per strappare il fratello alla sua malinconia che accende la miccia al fuoco d’artificio di battute ben presto destinato a saturare l’aria; se il successivo ingresso della smagliante Jenny di Maria Vittoria Argenti con le sue movenze quasi danzate e le sue perfette mises da star hitchcockiana, seguita dalla goffa e sensuale Faye a cui dà vita Ilaria Martinelli, accendono ulteriormente uno spettacolo in cui il raddoppiamento dell’intreccio (Jenny vs George e Leo vs Faye) produce un piacere more geometrico ormai ignoto alle nostre scene contemporanee – più versate semmai nell’algoritmo – resta il fatto che l’essenza più ineffabile e preziosa del Capitolo Due di Civica consiste in quel che si dimentica per poco che ci si abbandoni al suo ritmo, incessante ma sempre organico, mai frenetico, temprato da una recitazione in stato di grazia. E che, dimenticato, si deposita, come una cenere di stelle spente, nel fondo silenzioso dell’anima dei protagonisti per risorgere, puntualmente, in un secondo atto dove lo spettatore (ri)scopre che i motivi per ridere, e tanto più di “ridere per ridere”, come si conviene a un umorismo attraversato da una vena assurdista e fantastica qual è quello del maestro della commedia americana degli anni sessanta, sono spesso e volentieri gli stessi per cui, a teatro, si finisce per piangere.
Nella fragranza della risata – e di risate aperte risuona la sala romana soprattutto durante la prima parte dello spettacolo – si dissolve persino l’amarezza dell’ironia che le ha generate perché la comicità celebra sempre il presente, anzi la presenza stessa, l’inspiegabile piroetta dell’essere sul ciglio del baratro (lo sosteneva un sublime umorista presentato sempre in abiti luttuosi, Soren Kierkegaard) e Civica e il suo cast di attori e attrici straordinari/e mettono in scena una macchina del comico così ben congeniata nella sua danza di parole e di corpi che le battute e le gag si danno il cambio con la velocità delle stelle cadenti che sfrecciano nel cielo delle notti d’agosto, appena percepibili, già dileguate, inafferrabili, se non per la scia di desiderio che lasciano nel nostro sguardo (e di cosa si ride, allora? Di tutto e di niente, del senso e del non-senso, della lingua che perde la bussola, di loro e di noi, così simili, del nostro continuo, ridicolo inciampare nelle incertezze dell’amore, del nostro desiderio di ridere e del loro di farci ridere nella fulminea comunione di un istante).
Ci sarà appena il tempo di registrare che siamo nel 1977 in uno dei tanti appartamenti, anzi in due, in cui i personaggi del più newyorkese di tutti i drammaturghi restano volentieri imprigionati e che con poche pennellate volutamente vaghe Simon restituisce l’atmosfera di una Storia in cui non crede – gli spagnoli già rimpiangono Franco morto appena due anni prima, gli italiani sono in crisi, i francesi scioperano, sulla scena musicale impazzano i Cure – un trompe l’oeil che nasconde male l’unico dramma che interessi all’autore di A piedi nudi nel parco, quello della fragilità sentimentale in cui è impaniata la sua borghesia senza tempo, umanistica e saviamente liberal (appena cancellata, e forse definitivamente, dall’apocalittico ritorno di fiamma dell’America trumpiana). O che nella trasparenza di Capitolo Due, commedia tarda, si intravede l’esigenza di imprimere una svolta autobiografica alla propria opera dopo la morte della prima moglie, e che il timido e caustico George Schneider scolpito a cera persa da Ottobrino assomiglia come una goccia d’acqua al suo autore. Su tutto questo, Massimiliano Civica, maestro nell’arte dell’anacronismo che torna sui presupposti poetici del suo teatro – e non li smentisce, ma li rafforza – irrompe in contro-tempo: raccontando una storia d’amore in un’epoca in cui la lingua dei sentimenti annaspa nel gioco degli specchi identitari e drammatizzandola nel confronto con il suo limite di sempre, la morte; costruendo una commedia che è una sorta di tempesta perfetta della comicità e del suo inseparabile rovescio, l’insondabile tristezza del nostro essere mortali. Già, perché grattando la patina dell’infinito buonumore che anima l’ironia di Simon, e le impedisce di sconfinare nel cinismo del sarcasmo, la regia rivela che dietro di essa è comunque acquattato un dibbuk – per stare alle tradizioni ebraiche da cui il drammaturgo statunitense proviene – una storia di fantasmi e di possessioni, di morti che non vogliono lasciare i vivi e di vivi che non riescono a continuare a vivere perché non riescono a seppellire i propri morti. Leggera, sì, ma – come Nietzsche diceva dei Greci – per profondità.
Le fotografie sono di Duccio Burberi.