Stuporosa, l’epifania del pianto
A guardarle da lontano, non perché siano lontane ma perché l’inizio di ogni spettacolo comporta sempre una nuova messa a fuoco – l’ingresso in un mondo che è e non è questo – le cinque danzatrici di Stuporosa, la coreografia di Francesco Marilungo che è andata in scena per Short Theatre all’arena del Teatro India di Roma, sembrano uscite da una scena ottocentesca: immerse negli sfarzosi e pesanti abiti neri che le coprono dalla testa ai piedi con il loro elegante piumaggio fatto di nastri, drappeggi, velette, cappucci, ricordano le donne dipinte di Corcos, di Zandomeneghi, del nervoso Boldini. In realtà il riferimento è ancora più dislocato, indossano il nero del lutto vittoriano, un tempo appannaggio delle classi alte, ma quello che fanno è decisamente incongruo per il contegno di una dama, sia pur dolente: una di loro, china a terra, si lava le braccia e il viso in una bacinella anch’essa nera, un’altra si avvicina al microfono, si solleva il velo e dalla sua bocca esce un respiro ansante che fa tutt’uno con un lamento, un gemito rotto, pre-verbale, quasi animale, che indica insieme il desiderio di esprimersi e l’angosciosa impossibilità di parlare.
Se una lingua risuonerà in questo precipizio di anacronismi che è Stuporosa – un titolo che ci immette subito nel mondo perduto delle ricerche etnologiche di Ernesto De Martino sul cordoglio e sul pianto – non sarà né l’inglese né l’italiano, ma una lingua indecifrabile, come lo sono le lingue sacre o liturgiche, che non si parla, ma si canta, come il griko delle nenie salentine intonate da Vera Di Lecce, officiante di tutto ciò che sulla scena è melodia e suono, o si frantuma come un’ostia nei sospiri affannosi, nei fruscii delle vesti, nei rumori dell’elettronica, in una drammaturgia di gesti volatili che alterna il raptus all’ordine, la figurazione alla sparizione, visitando i corpi con il tocco tetanico ed estenuante dell’immemoriale. Benvenuti nell’orizzonte formale del patire (per citare la definizione che dà il titolo al saggio di Marcello Massenzio che apre la nuova edizione Einaudi di Morte e pianto rituale: dal lamento funebre antico al pianto di Maria) che resuscita grazie al corto-circuito con l’impermanente, nel mondo delle lacrime che tatuano i volti delle addolorate e irrigidiscono quelli delle lamentatrici che, scacciato dalla porta della modernità, rientra dalla finestra del contemporaneo. Performer e coreografo giunto al suo terzo lavoro, Marilungo riattiva un pathosformel che in gran parte conosciamo nella sua forma immobile e bi-dimensionale, chiuso negli atlanti figurati del pianto di De Martino o in quelli con cui Aby Warburg avrebbe voluto ricomporre l’universo metastorico dell’urlo e della lamentazione, ma in ogni caso ormai sottratto alla presentificazione della vita. Ed è in questo come se, in questa riapertura della relazione tra una gestualità rituale e trapassata e un’altra contemporanea e sfuggente, che musica e danza compiono un miracolo artistico per una volta inseparabile da una ricerca culturale: libertà e norma, espressione e liturgia, melodia popolare e rave, si dissolvono gli uni negli altri senza soluzione di continuità, ed è in questo fluido ritrovamento di gesti che, venendo da un continente sommerso, riaffiorano in corpi attuali, o viceversa si inabissano nella deriva secolare della tradizione, che Stuporosa trova la sua dimensione e la sua riuscita in quanto spettacolo.
I corpi delle danzatrici dapprima “tarantati”, ma poi cullati nell’ebetudine della ripetizione che è la cellula del parossismo “stuporoso”, sospinti sulla scena da una camminata che richiama quella “legata” delle geishe, dove il passo breve e frugale crea un effetto di levitazione, una sorta di sospensione delle figure che sembrano muoversi su un invisibile tapis roulant e, nere come rondini tagliano lo spazio senza mai toccarsi, con la stessa precisione delle rondini in volo; le teste e le braccia rovesciate all’indietro, i petti che folgorati dalla violenza dell’alterità accolgono la trafittura estatica, come quelli delle donne nei tardo-quattrocenteschi Compianti di terracotta di Niccolò dell’Arca e di Guido Mazzoni, l’instancabile riunirsi e disperdersi – di nuovo: like birds in a storm of feathers – il sostenersi e il trattenersi al di qua di un limite fatale (perché il rito non è semplicemente drammatizzazione del cordoglio è anche preservazione della vita sull’orlo dell’ annichilimento che la morte fa entrare nel mondo): tutto questo sulla scena di Marilungo, non è mai scolpito o congelato in un fermo immagine, ma portato via dal vento, travolto dal movimento di una possessione stilizzata (per usare un termine dello stesso coreografo e regista) nel farsi e disfarsi senza posa di una scrittura di ideogrammi viventi. Carne e segno non si separano mai, in questa scrittura danzata. Neanche quando, nell’ultima parte dello spettacolo, cadono le sontuose e ingombranti vesti del lutto vittoriano, vengono riavvolti i tappeti neri e si accende, nel crepuscolo rischiarato dalle luci complici di Gianni Staropoli, il bianco perlaceo delle sottovesti (lo stesso dei fazzoletti repentinamente apparsi in un’altra danza): epifania dei corpi in trasparenza ma soprattutto cambio scena dell’immaginario che da una parte scende di un gradino, dal nascosto al velato, nel suo scavo antropologico di una femminilità perseguitata, da sempre protagonista (e vittima) – e non solo nel sud Italia di cui De Martino scandagliava i residui magici, ma in tutte le culture del mediterraneo – dei rituali legati alla possessione e alla trance, dall’altra innesca molteplici richiami, alle isteriche della Salpetrière o, volendo, alle sottovesti così spesso presenti, con il loro disegnare un altro corpo, drammatico perché abitato dalla passione, negli spettacoli di Pina Bausch.
Quando Alice Raffaelli, Barbara Novati, Roberta Racis, Francesca Linnea Ugolini e Vera Di Lecce, le cinque stuporose e strepitose interpreti di questa discesa nell’Ade dei comportamenti culturali, si ripresentano sulla linea di confine che separa e protegge il pubblico dallo spazio scenico, gli spettatori che gremiscono l’arena di India ormai sprofondata nella sera, le salutano con un applauso che prima di diventare scrosciante è quasi esitante, intimidito, nel vederle, spossate messaggere di un altro mondo ancora grondanti di un’aura che è quella del rimosso. Poiché niente è più rimosso e privatizzato del lutto in una società che sembra orientata soltanto a sopravvivere, senza mai trascendersi (nel valore, avrebbe aggiunto De Martino). Il filosofo Byung Chul-Han dice che la morte va restituita alla vita a cui appartiene. L’arte più viva comincia a interrogarsi sulle forme di questa restituzione.
STUPOROSA
regia e coreografia Francesco Marilungo
con Alice Raffaelli, Barbara Novati, Roberta Racis, Francesca Linnea Ugolini, Vera Di Lecce
musica e vocal coaching Vera Di Lecce
spazio e luci Gianni Staropoli
costumi Lessico Familiare
foto e video Luca del Pia
produzione Körper | Centro di Produzione Nazionale della Danza
co-produzione Fabbrica Europa
con il sostegno di IntercettAzioni - Centro di Residenza Artistica della Lombardia
con il supporto di Short Theatre Festival, Fuori Programma Festival, Teatro Akropolis &
Dracma Teatro – Progetto CURA, Did Studio, Base Milano, Qenhun
Le fotografie dello spettacolo sono di Luca del Pia.