Milo Rau: Vangelo a una dimensione / Anche in Palestina nevica

23 Aprile 2021

Sul set di Matera, Milo Rau ha riunito le condizioni ideali per produrre lo spettacolo più rappresentativo della sua poetica cine-teatrale: un cast formato da professionisti e da non professionisti della scena, in cui spicca la presenza di un certo numero di braccianti immigrati di origine africana; uno dei più grandi “testi-sorgente” a cui un artista occidentale possa aspirare; un luogo che nell’immaginario collettivo ha rimpiazzato il teatro originario degli eventi biblici fin da quando Pier Paolo Pasolini lo preferì alla Palestina dove pure aveva condotto dei sopralluoghi prima di girare, nel 1964, il suo Vangelo secondo Matteo.

 

Tutto  questo fa di The New Gospel un inestricabile continuum di realtà e di rappresentazione, di cerimoniale artistico e di processo politico, un’opera in azione che produce da sé il proprio discorso – messa in scacco, la critica non può che naufragare nella ripetizione o assestarsi nella neutralità della descrizione ecfrastica – articolandolo su due piani distinti che si compenetrano senza mai alterarsi, in una sorta di sovrimpressione: il Vangelo delle origini, che risuona nella sua purezza sulle labbra di Yvan Sagnet, l’attivista e scrittore camerunense scelto da Rau per interpretare il Cristo, e della sua sequela, e il nuovo Vangelo del XXI secolo, quello della dignità umana, che insorge dalle baraccopoli rurali e si organizza in slogan, assemblee, cortei che tracimano lungo le strade di pietra della Gerusalemme lucana, dove persino il sindaco in carica, per “sentirsi al servizio”, non disdegna di vestire i panni di Simone di Cirene, l’uomo che i romani costrinsero ad aiutare Gesù a portare la croce nel cammino verso il Golgota (ma con  squisita accortezza politica rifiuta invece di interpretare quello di Ponzio Pilato affidato a Marcello Fonte, il più professionista degli attori non professionisti). 

 

 

Ossequioso agli insegnamenti del suo maestro di cinema Jean-Luc Godard, il regista svizzero gioca sullo sdoppiamento culturale delle immagini: vedendo il Cristo di Sagnet che viene battezzato sulle rive del mare da un Giovanni Battista interpretato da Enrique Irazoqui, l’intellettuale catalano scomparso lo scorso anno che diede volto e corpo al Cristo di Pasolini, lo spettatore vede il passato che investe il presente, due Cristi che rappresentano anche due diversi momenti nella storia dell’attivismo politico (oppositore  di sinistra nella Spagna clerico-fascista del generalissimo Franco il primo, scrittore e attivista africano nell’Europa globalizzata il secondo). E per chiarire ulteriormente la genealogia dei ruoli, una scena del film mostra il vecchio Irazoqui che istruisce il giovane Sagnet in un’arte, quella dell’attore, che tuttavia questo professore di letteratura spagnola e insigne scacchista ha praticato solo occasionalmente nella vita; anche se in realtà non gli sta insegnando a recitare ma a essere quel non-personaggio unico che è il Cristo, questa figura che per qualunque scena è sempre troppo e troppo poco, la più rappresentata e la più sfuggente. 

 

 

Tutto si predispone e si dispone in questo doppio sguardo che, a conti fatti, è la forza e insieme la debolezza di New Gospel, film corale e documentario di una vera esperienza sociale, che a sua volta risulta, e il più delle volte stucchevolmente, messa in scena; sacra rappresentazione che si cristallizza in momenti di una bellezza iconografica volutamente classica – anche quando, come in una stupenda “Ultima cena” li si ottiene componendo i tavoli di plastica del misero refettorio di un accampamento di lavoratori stagionali – ma che si imprimono sulla retina giusto il tempo di rivelarsi per quello che sono: brechtiani specchietti per le allodole, illusioni necessarie prodotte da un logos che si incarna nella parola d’ordine, portando il Cristo “gramsciano” di Pasolini oltre la soglia di una totale dissoluzione del suo mistero (“avrei potuto... demistificare tutto” scriveva il poeta-cineasta del suo Vangelo “ma poi come avrei potuto demistificare il problema della morte?”). Mentre per più di un aspetto mantiene intatta la religio e il suo apparato identitario, con uno strano atteggiamento da ateo devoto di sinistra, a cui interessa anzitutto la torsione utopica del messaggio evangelico – e la sponda antagonistica che la Chiesa di Francesco può rappresentare per la critica anti-liberistica a cui il suo film aderisce – Rau sembra aver perso completamente di vista il senso del fallimento umano e profetico di Gesù. E non è affatto un paradosso, è il culmine della sua attualizzazione evangelica: l’idea messianica e contraddittoria di un regno che non è di questo mondo non può che essere tagliata fuori dalla potenza di un’arte che pone la propria efficacia trasformativa come il principale obiettivo da conseguire qui e ora. Non si tratta più di cambiare lo sguardo di qualcuno – o, come il torso greco di Rilke, di invitare lo spettatore a cambiare vita – ma di trasformare la realtà stessa secondo i dettami di quel realismo socialista 2.0 di cui Geoffroy de Lagasnerie, per non fare che un nome, ha dettato le linee (o ha dato la linea) nel suo L’art impossible (Puf, 2020). L’arte, secondo de Lagasnerie (e altri intellettuali e artisti contemporanei) non può più fallire, né portare oziosamente lutti, deve rientrare nell’azione politica e dimostrare in essa la propria efficacia, smettendola di indulgere nell’allucinazione di un’impossibile autonomia rispetto al mondo. 

 

 

Operazione riuscita almeno in questo senso – è lo stesso regista che nelle note di presentazione esalta come un risultato diretto del suo film l’apertura delle prime “case della dignità” nel materano – The New Gospel è tuttavia un’opera clamorosamente mancata, non sul piano estetico, ma su quello drammatico, perché ogni asperità viene appianata, levigata e finalmente risolta dalla premeditazione dello sguardo ideologico che l’avvolge. Che Milo Rau usi o abusi delle invenzioni processuali del suo teatro, trasformando il film in un’antologia personale, non cambia di molto il risultato. Quella del giovane volontario cattolico che frusta furiosamente una sedia urlando “sporco negro” per prepararsi a fustigare il Cristo africano, si riduce a una citazione aneddotica (che da La reprise si amplia agli empiti strasberghiani delle folle gonfie di odio della Passione di Mel Gibson anch’essa girata a Matera), un blando manierismo che, lungi dall’esplorare un’autentica dimensione di vergogna per il razzismo che comunque pervade una società sedicente cristiana, non trova alcuna rispondenza nel reale stato di tensione di una scena che, tolta dalla tridimensionalità del teatro – il luogo in cui Rau ha dato il meglio di sé stesso – ritualizzata più male che bene facendo il verso alle rappresentazioni della Settimana santa, ricade in continuazione in una scoraggiante mancanza di climax.

 

A che pro costringere Maia Morgenstern a ripetere sé stessa nella parte di mater dolorosa che già fu la sua nel film di Gibson col rischio di renderla ridicola solo perché è una grande attrice e la sua differenza di temperatura stride vistosamente con tutto il resto? A soccorrere il nuovo Vangelo di Rau non sono certo i finti comizi, le finte assemblee, le finte riunioni politiche auto-riferite al manifesto della dignità – ma questo lo si era già capito nel capitolo assembleare che approdò al teatro di Roma nel dicembre del 2019 con quegli slogan posticci che rintoccavano penosamente a vuoto e quei manifesti che tappezzavano i palchetti facendo sembrare occupato un teatro che non lo era; a soccorrere questa arroganza discorsiva, si diceva, è piuttosto l'inaggirabile serietà dello sguardo di Sagnet e dei suoi apostoli, uomini e donne, quando sprofondano in quel paesaggio a un tempo esiguo e infinito, e dunque sì evangelico, che all’inizio del film il regista mostra al suo protagonista da una terrazza come all’inizio di un romanzo; sono quelle tre o quattro immagini, anacronistiche o attualissime, belle o devastate, in cui il bulimico nervosismo di Rau, ragazzo prodigio e ben presto viziato dello spettacolo contemporaneo, non vuole credere e sulle quali non vuole soffermarsi perché la smania operazionale dell’efficacia lo porta altrove: a dimostrare come un teorema l’unica incarnazione che visibilmente lo interessi, quella dell’arte nell’attivismo politico. The New Gospel è come quelle bocce di vetro che i francesi chiamano boules de neige che al loro interno custodiscono le miniature di intere città. Tutto vi è sistemato alla perfezione, con grande acume e studio appassionato. Ma per quanto si rovesci la palla, la si agiti, la si scuota, questa volta la neve non scenderà. Ed è un peccato, perché sembra che in Palestina nevichi più spesso di quanto non si creda.  

 

Le fotografie pubblicate in questo articolo sono di Armin Smailovic.

 

 

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