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Coltivare l'immaginario / Le humanities e il coronavirus

24 Aprile 2020

Un anno fa, di questi tempi, imperversavano le rievocazioni del primo sbarco sulla Luna. Cinquant’anni dall’impresa dell’Apollo 11: i tre cosmonauti Armstrong, Aldrin e Collins, la notte della diretta, Ruggero Orlando e Tito Stagno, un piccolo passo per un uomo un grande balzo per l’umanità, eccetera. Dal 2019 al 2020 è cambiato tutto. Lungi dal celebrare le conquiste spaziali, ci troviamo ora a fare i conti con la riscoperta della nostra natura terrestre. Non solo perché la nostra sopravvivenza è ovviamente legata a ciò che accade sull’intero pianeta, ma perché abbiamo dovuto prendere atto del carattere intrinsecamente simbiotico della nostra condizione. La sorte di ogni individuo dipende dalla sorte dei suoi consimili: il singolo è parte della specie. Di più: la specie umana interagisce di continuo, in infinite maniere, con le altre specie viventi. D’improvviso ci siamo accorti che la nostra salute può dipendere dall’estinzione di specie animali e vegetali di cui non ci siamo mai curati, dal dissesto di ecosistemi lontanissimi dal luogo dove abitiamo, dalla deforestazione e dalla distruzione di habitat remoti nei quali mai avremmo messo né mai metteremo piede.

 

Del resto, anche se di rado ci degniamo di farci caso, il nostro stesso corpo ospita miriadi di microorganismi, alcuni nocivi, moltissimi indispensabili alla stessa nostra fisiologia. 

L’hanno già detto in molti: con l’avvento del nuovo coronavirus ci siamo scoperti inopinatamente vulnerabili, come singoli, come società, come civiltà. È stato uno shock violento, che provocherà conseguenze durature. Non a caso, uno dei verbi che ricorrono più spesso nei discorsi orientati verso il prossimo futuro è «ripensare». Bisogna ripensare il nostro modello di sviluppo, la nostra idea di società, il nostro modo di vivere, il nostro rapporto con il tempo. Ripensare: cioè prendere attentamente in esame, ponderare di nuovo, e poi sottoporre a adeguata revisione. Bisogna riprendere le misure del nostro essere organismi terrestri, parte di una biosfera all’interno della quale nulla ci dovrebbe essere alieno. 

 

A questo proposito vorrei richiamare l’attenzione su una contraddizione, oggi più che mai patente, fra due principî di comportamento. Li chiamerò, per semplicità, logica della produzione e logica della sopravvivenza. Premetto che la semplificazione è piuttosto arbitraria: produrre serve a sopravvivere, e non si può sopravvivere senza produrre. Il problema è l’equilibrio fra le due istanze: grosso modo, fra le esigenze dell’economia e quelle della biologia. Ma intendiamoci: a rigore si potrebbe declinare l’antitesi sia in termini biologici, sia in termini economici. E il criterio distintivo potrebbe essere definito, all’interno di entrambi i campi, come grado di specializzazione, a sua volta messo in rapporto con il periodo breve, medio, lungo o lunghissimo. Ma non essendo io un biologo, né un economista, posso solo procedere per approssimazioni; giusto ricordando, en passant, che l’orizzonte comune a economia e biologia è quello che siamo soliti chiamare ecologia.

 

Secondo la logica produttivistica, occorre cercare di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo, utilizzando nel migliore dei modi le risorse disponibili. A questo principio obbedisce la produzione in serie, in tutte le sue forme. Si cerca qual è la soluzione migliore – la coltura più redditizia, la semente più produttiva, la soluzione tecnica più efficiente, il macchinario più performante, l’articolo più conforme alle richieste del mercato – e ad essa ci si attiene, escludendo ogni alternativa. Ottimizzare e omologare, ecco l’imperativo.  Applicazioni eloquenti sono quelle dell’industria che produce un solo tipo di utilitaria, dell’azienda agricola che coltiva un solo tipo di arance, dell’allevatore che opta per una e una sola varietà di bovino: ma anche dell’animale che si ciba di una cosa sola, come il simpatico quanto improvvido panda gigante con i germogli di bambù. 

 

Alla logica produttivistica si oppone la logica della sopravvivenza. Nella logica della sopravvivenza prevalgono le variazioni, le diversificazioni, le soluzioni subottimali, comprensive di imperfezioni e residui, di ridondanze e di sprechi, di accumuli e di inerzie, di approssimazioni e di recuperi. A vincere, nella difficile partita dell’evoluzione, è la biodiversità. Non è un caso che esistano tante specie differenti di organismi vegetali e animali, e tante differenti varietà all’interno di ogni specie – fatta eccezione per quelle che sono sul punto di estinguersi, e per la nostra. (La scelta della congiunzione e, ovviamente, è scaramanzia allo stato puro). Come insegna Darwin, a sopravvivere è la forma più adatta: e l’adattamento dipende dal rapporto con un contesto che è sempre suscettibile di cambiare, anche in tempi rapidi e in maniera brusca. Dunque, più ricche e varie sono le potenzialità inespresse, più probabile è che si riesca a superare le crisi. Mutando i dati ambientali, caratteri genetici inizialmente privi di funzione possono risultare preziosi; un organo che adempie alla bell’e meglio a uno scopo può rispondere con efficacia a un’esigenza nuova; una specie che in un certo habitat vivacchia a stento può proliferare rigogliosamente in un altro, e viceversa. 

 

Detto altrimenti, mettere tutte le uova in un solo paniere è un grande rischio, se non si ha il pieno controllo della situazione (e noi, teste il Covid-19, siamo ben lungi dall’averlo). Un’economia fondata sulla monocultura può andare rapidamente in rovina, se cambiano le condizioni di mercato. Un Paese che punta su una sola risorsa – l’estrazione di petrolio, ad esempio – è intrinsecamente fragile. Non disporre di margini di flessibilità e di adattamento significa esporsi ad ogni possibile imprevisto. Ciò avviene sia nella produzione economica, sia nella riproduzione biologica. Le tartarughe marine depongono centinaia di uova; dei piccoli che nascono solo una piccola percentuale sopravvive, ma qualcuno ce la fa sempre. I mammut mettevano al mondo pochi cuccioli, poiché le probabilità che ciascuno diventasse adulto erano molto alte; poi comparve un nuovo predatore, uno strano bipede che cacciava in branco, e ruppe l’equilibrio. Non era in grado di sterminare i mammut, figuriamoci: i mammut, grandi o piccoli, erano prede eccezionali, il colpo riusciva solo una volta ogni tanto. Ma quel tanto bastò, nell’arco di pochi millenni, a sospingere la specie sulla china dell’estinzione.  

 

Da parecchio tempo ormai sappiamo che sarebbe vitale preservare la biodiversità. Ma il nuovo coronavirus ha scavalcato le nozioni teoriche, e ci ha dimostrato con i fatti che il rischio è reale. Un nemico invisibile – su questo tema è intervenuto con acume Marco Belpoliti – può coglierci impreparati, e fare danni incalcolabili. Non necessariamente attraverso una strage diretta: è la destabilizzazione del sistema che può innescare un effetto domino. Peraltro, dobbiamo pur dircelo: ci è andata bene che a provocare questa pandemia sia stato un coronavirus, e non – come sottolinea qualche virologo – un tipo di virus più aggressivo. Il Covid-19, per quanto insidioso e maligno, è un parente dei virus del raffreddore: un bonaccione rispetto a, che so, quello che causa la rabbia. Conclusione: non dobbiamo sprecare l’avviso che ci è arrivato. Fino a ieri abbiamo lasciato che la logica produttivistica, che conosce solo i tempi brevi e i profitti immediati, avesse libero campo. D’ora in poi converrà cambiare registro. 

 

Opera di Nico Krijno.


Ma perché mai si imbarca in queste considerazioni uno che di mestiere fa il critico letterario? In milanese c’è un bel proverbio, Offelée, fà ‘l to mestée; ovvero: pasticciere, fa’ il tuo lavoro, occupati di quello che sai, non improvvisare competenze che non puoi avere: I mestee i ha da fà quei che je sa fà, ammoniva spiccio il poeta Carlo Maria Maggi (i mestieri vanno fatti da quelli che li sanno fare). Già. Il punto è però che una contraddizione non dissimile si registra anche sul piano culturale; e la letteratura, in questo quadro, gioca un ruolo non secondario. 

Trasponiamo dunque la nostra antinomia in termini culturali. L’istanza della produttività consiste nelle applicazioni immediate del sapere, nelle ricadute tecnologiche della ricerca, nella formazione di figure professionali molto specializzate, negli studi dai quali in breve tempo possano derivare spinoff.  L’istanza della sopravvivenza si esplica invece nella cultura di base, a sua volta declinata in due principali dimensioni. La prima è la ricerca scientifica definita appunto «ricerca di base»; la seconda consiste nella cultura diffusa, cioè nella formazione scolastica. Assai noto, e spesso citato ogni volta che ci si interroga sul valore della ricerca scientifica in epoche di crisi economica, è l’episodio dell’incontro che sarebbe avvenuto all’inizio degli anni Cinquanta dell’Ottocento fra William Gladstone, allora Cancelliere dello scacchiere, e il fisico Michael Faraday, uno dei pionieri degli studi sull’elettricità. Interessante, ammette Gladstone dopo aver preso visione dell’apparecchio elettromagnetico costruito da Faraday, ma in pratica a che cosa serve? Senza scomporsi, Faraday risponde: «One day, sir, you may tax it». Probabilmente l’aneddoto è apocrifo, ma dà l’idea del senso e del valore della ricerca di base (oltre che della miopia di molti leader politici). Le grandi scoperte scientifiche nascono dallo studio dei fenomeni, non dalla ricerca delle applicazioni. Il progresso delle conoscenze nasce dalla curiosità, non dal perseguimento di un tornaconto ravvicinato. Certo, anche gli studi che mirano alla soluzione di problemi concreti sono necessari, ci mancherebbe altro. Ma togliere spazio – cioè persone e risorse – alla ricerca di base, trattandola alla stregua di un lusso che ci si può permettere solo in tempi di vacche grasse, è un madornale errore di prospettiva.     

 

L’altro piano è quello della formazione culturale della cittadinanza. Viviamo in un’epoca di incessanti, incalzanti innovazioni, sia tecnologiche sia organizzative. Il sistema scolastico, e anche quello universitario, non possono inseguire le nuove professioni: altre continueranno a sorgere, è ormai acclarato che nell’arco di una vita lavorativa molte cose – ambiti, ruoli, mansioni – sono destinate a cambiare, e più di una volta. Questo non vuol essere, a scanso di equivoci, un elogio del precariato; al contrario. La vera «flessibilità» (insidioso mantra dei decenni recenti) esige investimenti sulle risorse umane: i quali saranno poi tanto più fruttuosi quanto più solida è la cultura di base. E non si dà solida cultura di base senza il sapere umanistico, senza humanities. Senza studio della storia, dell’arte, della letteratura. 

 

Ma in che senso la letteratura entra in quella che ho chiamato logica della sopravvivenza? Per scongiurare catastrofi ecologiche o sanitarie occorrono competenze, innanzi tutto, scientifiche e tecniche. Per agire contro le pandemie, per contrastare l’inquinamento, per far fronte ai problemi energetici occorrono medici e biologi, fisici e geologi, climatologi e matematici, studiosi di chimica e esperti di agricoltura, ingegneri e architetti. E economisti, s’intende; e giuristi, perché a un certo punto per agire occorre redigere norme, cioè legiferare. Per tutte queste cose la letteratura non serve a nulla. La letteratura non offre soluzioni ai problemi concreti. La letteratura fa un’altra cosa: fornisce le motivazioni per cercarle. Plasma l’immagine di società a cui le possibili soluzioni si devono riferire. Delinea i sistemi di valori e i modelli di convivenza che legittimano le decisioni operative. Condiziona le mentalità, le visioni del mondo. Alimenta le intenzioni, suscita volontà. Orienta gli sguardi: e definisce priorità. La letteratura, ripeto, non dà soluzioni pratiche (di quelle si occupano i vari rami dello scibile umano), bensì circoscrive – scava: in molti casi inventa – lo spazio entro cui le iniziative si dovranno o si potranno dispiegare. In una parola: la letteratura agisce sulla forma della cultura.  

 

Non sarò così sciocco da sostenere che leggere Tolstoj o Proust equivalga a una panacea universale, anche perché i nomi non sono l’elemento decisivo. Quello che si può imparare dalla letteratura – come dal teatro, dalla poesia, dal cinema – si può imparare da molti testi differenti. La letteratura è per sua natura plurale, aperta, inclusiva: nessun canone letterario è assimilabile a un testo sacro (Dio ne scampi); e quanto ai testi sacri, vale il vecchio proverbio (non importa se derivato o no da Tommaso d’Aquino) citato anche nelle memorie di Giacomo Casanova: Méfie-toi de l’homme qui n’a lu qu’un seul livre, guardati da chi ha letto un solo libro. Ma se il coronavirus ci ha fatto capire che scorte strategiche di respiratori e altri dispositivi medici non sono meno necessarie di quelle di petrolio o di armamenti, dobbiamo tenere presente che anche l’immaginario va educato e coltivato con cura. Perché il mondo che con brutale e irresponsabile disinvoltura andiamo modellando – costruendo e distruggendo – è in misura sempre maggiore la proiezione delle nostre coscienze. E le coscienze sono il luogo dove la letteratura opera, lasciando impronte – eredità – durevoli.

 

La logica della sopravvivenza si fonda sull’idea che debbano esistere margini di sicurezza. A tal fine è richiesto l’accumulo di un patrimonio di risorse alle quali si possa attingere in caso di necessità. Tali risorse provengono in gran parte dal passato. Sono il retaggio delle esperienze vissute dalle generazioni precedenti: eredità genetiche, ma anche – e per il nostro discorso dobbiamo dire: soprattutto – eredità culturali. Se ragioniamo in termini di pura sopravvivenza biologica, la principale garanzia che l’umanità ha oggi è il numero. La popolazione mondiale è così numerosa che il futuro della nostra specie, biologicamente parlando, non verrebbe messo a repentaglio nemmeno da una catastrofe che la dimezzasse d’improvviso. Ma la conseguenza non potrebbe che essere un vero e proprio collasso della civiltà, paragonabile solo a quanto avvenne nell’area mediterranea e in buona parte dell’Europa occidentale alla fine del mondo antico. Non è escluso che proprio questo sia il destino che ci attende: un collo di bottiglia storico, dopo il quale si parlerà di Vladimir Putin o Xi Jaoping o Donald Trump come oggi parliamo di Marco Aurelio o di Caligola. 

 

Ripensare, dunque. Ripensare un equilibrio fra ciò che serve subito, ciò che servirà l’anno o il decennio prossimo, e ciò che potrà servire in un futuro che ancora non conosciamo e non possiamo se non vagamente intravedere, o che ignoriamo affatto, ma dal quale non dovremmo comunque farci cogliere impreparati. Tenendo presente che quello che non serve nell’immediato può semplicemente servire a noi: noi come soggetti umani e sociali, esposti individualmente e collettivamente a ostacoli inattesi, a nemici invisibili, a eventualità ignote. E che dovremo trovare dentro di noi, fra di noi, le risorse morali per affrontarle. 

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