1939 - 2020 / Mario Lavagetto: un'indomita curiosità

30 Novembre 2020

La scomparsa di Mario Lavagetto lascia un grande dolore in chi lo ha conosciuto e gli è stato vicino, nei molti che sono stati suoi allievi a Bologna, l’università in cui ha insegnato negli anni in cui insegnavano Camporesi, Eco, Carlo Ginzburg, Celati, ma segna anche la fine di un’epoca in cui il suo mestiere, quello del critico letterario, aveva una capacità di penetrazione non solo nella cultura del nostro paese ma anche nei discorsi della politica, della sociologia, della filosofia e in tutte le cosiddette scienze umane. C’era un tempo – dagli anni del dopoguerra fino alla fine degli anni Settanta – in cui fare critica della letteratura era fare politica nel senso più ampio del termine. Ma era anche un modo per visualizzare le acquisizioni dello studio dei comportamenti individuali e collettivi, della memoria di un intero paese e dell’esplorazione delle piccole patrie. Insomma il sapere sulla letteratura consentiva di capire il mondo e suscitava l’illusione di cambiarlo.


Mario Lavagetto ha partecipato a questa formidabile avventura della scienza letteraria, ne è stato un protagonista sui versanti dell’esplorazione dell’io e delle sue traduzioni mitopoietiche e ha lasciato tracce decisive di questo percorso. L’attenzione alle dinamiche della psiche che si fanno scrittura letteraria e si traducono in storie di vite, ‘personaggi uomo’, dialoghi, monologhi, rappresentazioni sceniche, Lavagetto le apprese da un maestro straordinario: Giacomo Debenedetti. Non a caso i suoi autori preferiti sono gli stessi su cui scrisse pagine fondamentali il suo mentore a cominciare dal suo primo fondamentale studio su Saba, La gallina di Saba, uscito da Einaudi nel 1974 nella pionieristica collana ‘La ricerca letteraria’, a cui farà seguito due anni più tardi L'impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo, sempre da Einaudi. Vorrei poi ricordare fra i molti suoi libri Stanza 43, Un lapsus di Marcel Proust, Einaudi, 1991 e La cicatrice di Montaigne. Sulla bugia in letteratura del 1992 presso lo stesso editore. Infine un’impresa di grande portata, la cura di tutte le opere di Svevo uscita nei Meridiani di Mondadori nel 2004.

 

 

Nello stillicidio delle notizie ferali, particolarmente numerose in questo 2020, la scomparsa di Mario Lavagetto ha il sapore amaro di una scommessa rimasta in sospeso: quella di un intellettuale di grande lucidità, che aveva saputo superare il disincanto dovuto alla marginalizzazione progressiva della sua disciplina, la critica letteraria, e che da par suo aveva riassaporato il gusto dell’esplorazione dei testi.

Nel 2005 aveva dato alle stampe il suo de profundis della critica letteraria, provocatoriamente intitolato Eutanasia della critica, una disamina dell’impotenza del discorso sulla letteratura che da strumento di conoscenza dell’uomo e del suo mondo si era trasformato in una pratica autoreferenziale il cui oggetto non era più il testo da interpretare ma l’interpretazione delle interpretazioni.
“Il quadro nel suo insieme e trascurando le singole eccezioni, è desolante – scriveva Lavagetto – e appare condannato a farsi sempre più buio; grava su tutto una sorta di ineluttabilità, il peso di un destino già scritto e che aspetta solo di compiersi e di trovare una sanzione ufficiale. Non resterebbe che deporre le armi e arrendersi alle visioni apocalittiche che Steiner e molti altri non si stancano di riproporre, se un simile atto non comportasse anche una fastidiosa cattiva coscienza: la consapevolezza che c’è sempre, in quelle visioni, in quelle apocalissi, un compiaciuto risarcimento, una condiscendenza sotterranea, invasiva, oscuramente perversa agli appetiti filistei di chi trova in tal modo una comoda autorizzazione ad accantonare ogni verifica. Ancora una volta: a non leggere.”

 

 

Oltre le usate leggi, il suo ultimo libro, dedicato al Decameron di Boccaccio, uscito un anno fa, era la prova più evidente di una sua rinnovata fiducia nei mezzi della critica e soprattutto nella missione del critico che lui aveva formulato così introducendo il suo ultimo lavoro: “nell’avvicinare un classico della letteratura italiana mi propongo, e vi propongo, da un lato uno sforzo per restare continuamente conformi alla lettera del testo e dall’altra di praticare, nel corso della lettura, l’esercizio di una ragionevole controllata eterodossia.”

Lettera e eterodossia: l’accertamento di quello che l’ermeneutica antica chiamava il sensus litteralis, senza il quale ogni interpretazione è una scorciatoia, una falsificazione, spesso una rimozione, abbinato al gesto critico irriverente, che non si fa imbrigliare dall’ufficialità del già noto e dalle interpretazioni canoniche, ma osa sconvolgere le vulgate correnti per portare a galla un senso nascosto che si cela dietro alla lettera. Un significato che per miopia o per convenienza non era stato visto prima.
La ricezione del Decameron, da questo punto di vista, appariva a Lavagetto come un caso paradigmatico di sedimentazioni interpretative in cui la censura operata dalle auctoritates, religiose o no poco importa, aveva finito per nascondere alcuni snodi fondamentali del testo.
E non è casuale che l’esercizio ermeneutico abbia richiamato alla memoria di Mario la figura più eterodossa dell’Ottocento: “La filologia ha detto Nietzsche, è «un’arte onorevole», anche se non riesce mai a risolvere in fretta le proprie questioni: «essa insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, guardando avanti e indietro, non senza secondi fini lasciando porte aperte, con dita e occhi delicati».
Non saprei compendiare meglio le virtù di Mario Lavagetto critico letterario.
Pochi hanno saputo come lui leggere i testi in profondità, interrogandoli dietro le apparenze, con la consapevolezza che solo le apparenze consentono il transito verso i territori del senso, verso la verità, sempre precaria e fungibile, dell’opera.

 

 

Per Mario il testo letterario era un labirinto – una figura che gli era particolarmente cara come lo era a molti scrittori del Novecento, ad esempio a Calvino – una costruzione insieme regolare e misteriosa che non consentiva traiettorie critiche definibili a priori, costruzioni di senso inappellabili. Entrare in un testo non garantiva di poterne uscire seguendo il filo d’Arianna soccorrevole di un metodo critico ma voleva dire lasciarsi sorprendere dall’inatteso e dagli improvvisi cambiamenti di direzione che la costruzione del testo ha conosciuto durante la sua genesi. Come tutti i grandi critici, Mario non seguiva una sola direzione metodologica ma sapeva attingere ai saperi che gli fornivano le chiavi per accedere al senso dei testi, penso all’uso intelligente che ha saputo fare della psicoanalisi nella sua lettura di Svevo e di Proust. Soprattutto sapeva individuare la ‘logica immanente’ dei testi, quella peculiarità irriducibile che decreta l’originalità di una costruzione letteraria e la sua inesauribilità. Tutti fattori che si oppongono alle schematizzazioni semplificanti e alla fossilizzazione formulare a cui le vulgate scolastico-accademiche piegano spesso i testi.
La sua lezione ci ha abituati a vedere le opere letterarie come enigmi, non diversamente da come Freud si misurava con i sogni, e come i sogni anche le opere sono “costruzioni imperfette” ed è proprio questa imperfezione che ne consente l’intelligenza, in altre parole li rende interpretabili. Il che non significa che tutti i significati siano leciti, al contrario, esattamente come Freud stabilì i criteri di un’interpretazione corretta anche nel lavoro critico-letterario la banda di oscillazione è tra l’estremo impossibile della decodificazione automatica ed univoca e l’estremo cognitivamente ed ermeneuticamente sterile delle infinite interpretazioni.

Non è ancora tempo per fare un bilancio del lavoro di una figura intellettuale di questo spessore ma una cosa forse si può dire: l’eredità maggiore che Lavagetto ci lascia in campo critico è data dalla sua formidabile capacità di interrogare i testi contestualmente all’interrogazione circa i metodi con cui li interpretiamo. Un fatto questo che appare ovvio ma che ovvio non è affatto. È curioso che vi sia ancora oggi una resistenza a trasferire nella critica l’attitudine metariflessiva della letteratura, quel gesto che diventerà programmatico con il primo Novecento: se è vero che dall’avvento del Modernismo non è più pensabile di scrivere un romanzo in modo irriflesso dovrebbe essere altrettanto palese che ogni operazione critica deve accompagnarsi alla stessa istanza autoriflessiva.

 

 

C’è un paragrafo nel suo libro ormai classico Freud la letteratura e altro uscito da Einaudi nel 1985 che mi è particolarmente caro. Si intitola: “lavorare con piccoli indizi”, successivamente diventerà un libro che sarà pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2003. Gli indizi sono quelli che la psicoanalisi ricerca nell’interpretazione dei sogni, ma indiziario è anche il procedimento del critico letterario che cerca nelle ampie volute della costruzione testuale i punti di discontinuità, “smagliature e lacune, vuoti e cedimenti” che hanno un senso preciso, anzi sono “Il punto di emergenza (…) di un altro senso, che ha momentaneamente incrinato le istanze rimoventi e che appare regolato da una sorte di retorica negativa”.
In altri termini, come diceva Saba citato non a caso da Lavagetto: il caso non esiste, “esistono nessi e autodecisioni che noi non sappiamo”.
Lavagetto sarà ricordato come il grande esploratore di ciò che i testi dicendo non dicono e proprio perciò dicono infinitamente di più di quanto non appaia a una prima lettura.
Ora, questo sguardo interrogante, mosso da un’indomita curiositas, allergica ai luoghi comuni e ai conformismi imperanti era anche l’abito dell’uomo Lavagetto. La sua onestà intellettuale gli imponeva l’irriverenza nei confronti delle diverse declinazioni della banalità che vedeva dilagare tanto nel mondo accademico, che non a caso ha lasciato anzitempo, quanto in quello dell’editoria diventata industria culturale.
Lo caratterizzava un peculiare coraggio civile nel dire a chiare lettere la sua non disponibilità ad avvalorare soluzioni di comodo laddove le circostanze lo sollecitavano a farlo. Penso alla determinazione con cui seguiva ogni fase della lavorazione dei suoi libri e come sapeva imporre le ragioni della qualità del risultato finale senza scendere a compromessi.
Raramente un ethos così energico e forte ha saputo declinarsi nello stesso modo tanto nella scienza quanto nella vita. Se poi si pensa al mondo accademico, fisiologicamente incline alla rassegnazione e al compromesso, o se si considera la logica dell’utile economico che tende ormai a dominare le scelte editoriali e la fabbricazione dei libri, una figura così orgogliosamente indipendente come quella di Mario Lavagetto assume oggi un rilievo che sarà difficile eguagliare.

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