Ribelli romantici

2 Febbraio 2024

Andrea Wulf ha legato il suo nome a un’opera di grande e meritato successo, L’invenzione della natura. Le avventure di Alexander von Humboldt, l’eroe perduto della scienza (Luiss University Press 2017), in cui ha esplorato la vita, sotto vari aspetti avventurosa, del fratello naturalista del filosofo e teorico del linguaggio Wilhelm von Humboldt, il fondatore dell’Università di Berlino. 

Siamo in quella età cruciale della cultura tedesca che si colloca tra la fine del secolo diciottesimo e l’inizio di quello successivo. 

In quella biografia si rispecchiava un universo culturale che aveva le sue solide radici nell’età del tardo Illuminismo tedesco tra Kant e gli inizi dell’idealismo. La passione scientifica di Alexander lo portò a sviluppare un pensiero della natura che era scienza empirica pur mantenendo una visione fondativa e il gusto dell’interrogazione gnoseologica.

Quel libro ebbe successo perché ricostruì un itinerario culturale connesso a una ricerca geografica, ossia all’esplorazione fisica dell’ignoto e dei segreti della natura che portò Alexander von Humboldt a visitare ampi territori inesplorati dell’America latina. 

Magnifici ribelli. I primi romantici e l’invenzione dell’io (Luiss University Press 2023) già dal titolo segnala un focus diverso, in cui a essere posta sotto la lente di ingrandimento non è la geografia delle scoperte del grande naturalista berlinese ma un microcosmo fatto di filosofi, poeti, filologi e teologi, per così dire il brodo di coltura di un sapere da cui prenderà avvio una delle più straordinarie stagioni culturali della storia occidentale: l’età che in Germania è chiamata Goethezeit, che segnerà l’avvio concomitante della filosofia dell’idealismo e, nella poesia, nella musica e nelle arti visive, del Romanticismo.

In realtà si tratta dello stesso ecosistema culturale dal quale presero avvio le ricerche di Alexander von Humboldt, caratterizzato da una ricerca filosofica e artistica che anzitutto ha come oggetto l’io.

Ed è l’io il protagonista di questo libro di Wulf, un io che sarà il grande tema della filosofia di Fichte e che tuttavia l’autrice ama vedere dalla specola privata delle vite dei protagonisti di quella straordinaria stagione filosofica, quasi ad avvalorare la tesi che un pensiero così irrituale e spregiudicato potesse nascere soltanto da vite altrettanto irrituali e anticonformiste. Un nesso di coerenza, va detto per inciso, che non sempre si presenta tale nella storia culturale.

Se solo allarghiamo di poco l’orizzonte, osserviamo come la geografia di questo breve ma movimentato e complesso giro di anni – in particolare l’ultimo decennio del XVIII secolo – sia stata la Germania nordorientale tra Berlino, Halle, Lipsia e Jena. Politicamente: la Prussia e il Granducato di Sassonia-Weimar-Eisenach, quel luogo d’elezione culturale e politica nella cui capitale, Weimar, Goethe trascorse gran parte della sua vita. Un’età che, come spiega Wulf, era figlia di una svolta filosofica fondamentale, in cui trovano compimento e sistemazione molte istanze emerse nel secolo dei lumi: in particolare dalla filosofia di Kant, dalla sua teoria della conoscenza depositata nelle celebri tre Critiche. Quella kantiana fu una rivoluzione copernicana della filosofia, che segnò una discontinuità assoluta con il pensiero sistematico che lo aveva preceduto. 

Magnifici ribelli segue le tracce e gli effetti di questa svolta e come essa si sia intrecciata con la coeva rivoluzione politica, quella francese, e con i suoi sviluppi europei le cui conseguenze non furono meno rivoluzionarie di quelle che ebbero luogo nella Parigi dell’89.

Non a caso la figura centrale sulla scena jenese, intorno a cui Wulf fa girare i protagonisti di quella stagione, è Caroline Schlegel, figlia del noto orientalista Johann David Michaelis, professore all’Università di Göttingen, una donna che visse la sua emancipazione come itinerario insieme esistenziale e politico, schierandosi con i rivoluzionari filofrancesi che diedero vita alla Repubblica di Magonza. Un esperimento politico di brevissima durata, pochi mesi appena, a cui posero fine, dopo un duro assedio, le truppe prussiane. Ebbene Caroline, in quei mesi, era attivamente schierata dalla parte repubblicana e quando l’esperienza si concluse fu catturata dai vincitori e imprigionata nella fortezza di Königstein. Caroline aveva appena scoperto di essere incinta e la prigionia fu per lei un terribile calvario. Liberata dopo alcuni mesi di detenzione grazie alle conoscenze del fratello presso la corte prussiana, si trattò per lei di trovare una città in cui stabilirsi e ricominciare una nuova vita. Ma la sua reputazione di donna libera e di sentimenti repubblicani fece scattare una conventio ad excludendum: fu respinta dalle città in cui aveva chiesto di poter risiedere e dovette ritornare nella casa paterna a Göttingen. La salvò infine il matrimonio con August Wilhelm Schlegel, che si diceva fosse da lungo tempo innamorato perdutamente della coltissima e disinibita Caroline. La coppia si stabilì nel 1796 a Jena, dove ad August Wilhelm, su interessamento di Schiller, fu affidato un insegnamento nella locale università.

La figura di Caroline Schlegel, a cui la storiografia letteraria tedesca aveva per altro già assegnato un ruolo certamente non marginale all’interno del circolo romantico di Jena, diventa nel libro di Wulf la figura centrale di quel sodalizio e non solo per i suoi meriti culturali ma per la spregiudicata apertura ai nuovi stimoli intellettuali che nascevano in Europa e per la sua naturale capacità di scrollarsi di dosso le convenzioni dogmatiche del pensiero.

Ne è stata prova l’attiva partecipazione di Caroline all’innovativa traduzione in versi dei drammi shakespeariani intrapresa dal marito, a cui essa diede un contributo decisivo. Anzi, sulla base delle testimonianze soprattutto epistolari raccolte da Wulf, pare che la traduzione fosse stata fatta praticamente a quattro mani: August Wilhelm, più versato nelle competenze retoriche, costruiva lo schema metrico, Caroline decideva le scelte lessicali.

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Il metodo d’indagine adottato da Andrea Wulf merita una considerazione a parte. In questo sguardo esteso sulla quotidianità e sulle minute trame biografiche che innervano le esistenze dei suoi ‘magnifici ribelli’ è come se l’autrice svolgesse una ricognizione periscopica, innalzando il suo strumento d’osservazione al di sopra delle prospettive biografiche consuete, scoprendo punti di vista inediti, che stimolano la curiosità nel lettore. La moltiplicazione prospettica si accompagna al minuto carotaggio delle singole esistenze colte nei loro tic, nelle paure e ansie, nelle contraddizioni di cui sono costellate le loro vite. Ne esce un’aneddotica minuta che ci fa scoprire il famoso lato nascosto dei grandi personaggi, ne restituisce il colore delle vite, in breve tutto ciò che gli schematismi interpretativi della storiografia letteraria, artistica e filosofica sacrificano sull’altare della cognizione storica e della ricostruzione sistematica. Sotto questo profilo il libro di Wulf può essere definito una sorta di esercizio cromatico che dà colore alle forme di vita e alle relazioni che le dramatis personae hanno intrattenuto sul palcoscenico jenese.

E torna così in mente il celebre passo della manzoniana “Lettre à Monsieur Chauvet” dove l’autore dei futuri Promessi sposi, dopo essersi speso a favore della scelta da parte del poeta di un fatto storico e di personaggi realmente esistiti, si chiede: “Ma si potrà dire, se al poeta si toglie ciò che lo distingue dallo storico, e cioè il diritto di inventare i fatti, cosa gli resta? La poesia, sì la poesia. Perché alla fin fine, che cosa ci dà la storia? Ci dà avvenimenti che, per così dire, sono conosciuti solo all’esterno; ci dà ciò che gli uomini hanno fatto. Ma quel che essi hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro successi e i loro scacchi (…) coi quali, in una parola, hanno rivelato la loro personalità: tutto questo la storia lo passa sotto silenzio; e tutto questo è invece dominio della poesia.” 

Andrea Wulf in questo libro si comporta come il poeta manzoniano: i fatti narrati corrispondono a quanto è successo, ma nell’economia del suo saggio hanno un peso relativo, ciò che conta davvero sono le loro vite, i loro sentimenti appunto, la trama delle loro relazioni empatiche, i loro amori e i loro disamori.

È bene precisarlo: non siamo in presenza di una rassegna di congetture più o meno arbitrarie ma di un lavoro serio, che poggia su una minuta consultazione dei carteggi e delle testimonianze   autobiografiche rigorosamente indicate in nota – ma perché l’edizione italiana ha cassato la bibliografia? –  e che a partire da questa miriade di confessioni cerca di spiegare una svolta culturale di portata storica. 

Di Novalis si legge che “era alto, snello e bello in maniera quasi effeminata, per via dei lineamenti del viso e delle labbra delicate. La sua pelle era quasi traslucida e i suoi capelli erano lunghi e castani. Vestiva in maniera semplice, ma i suoi occhi, a detta degli amici, brillavano di una luce quasi eterea che li ammaliava tutti.” Pur essendo “devoto a Schiller” aveva conosciuto tra il 1795 e il 1797 Fichte e dopo averlo letto “con la penna in mano” prendendo appunti e immergendosi, sia pure con difficoltà, nelle sue opere aveva scoperto che “Fichte poteva anche non essere stato il miglior interprete del suo stesso strumento – altri magari erano più bravi di lui a “fichtesofare” ma aveva pur sempre inventato un modo del tutto nuovo di pensare”. La conclusione di Wulf è perentoria: “Per Novalis, Fichte era un secondo Copernico.” E poco dopo: “L’incoronazione dell’Io operata da Fichte spinse Novalis alla scoperta di se stesso.”

L’io filosofico, il ruolo del soggetto nella conoscenza e nell’arte, diventa l’io biografico.

Qui si pone un interrogativo interessante che riguarda, non certo da oggi, le modalità della ricerca: in quale conto dobbiamo tenere le ragioni soggettive, posto che esse siano attingibili, nell’interpretazione di un pensiero filosofico o di una creazione artistica? È lecito stabilire una connessione causale rigorosa o si può, al contrario, pensare a uno scarto tra vita e pensiero, tra vita e arte?

A leggere Magnifici ribelli parrebbe che questo scarto non si dia: l’intero libro si costruisce sulla dimensione biografica soggettiva e sulla costruzione di un sistema di relazioni intersoggettive che vanno a delineare la trama di un soggetto plurale. 

Anche il varo della rivista “Athenäum” – una meteora che brillò sul cielo jenese per sei numeri soltanto tra il 1798 e il 1800 –, che divenne l’organo militante e programmatico del primo Romanticismo tedesco, è ricostruita attraverso una felice rifrazione di punti di vista originati dalle lettere che i protagonisti si scambiarono e dalle riflessioni che accompagnarono quella intrapresa.

Wulf ne sottolinea l’originalità riconducibile, a suo parere, alla scelta della forma aforismatica adottata dalla rivista sia pure alternata a testi di più ampia stesura. 

Nella lettura che ne dà l’autrice l’aforisma diventa la cifra di una rottura programmatica delle tradizionali scritture coese e sistematiche della pubblicistica contemporanea, peraltro in quegli anni particolarmente ricca e variegata. 

L’aforisma, dunque, come emblema della ribellione e del desiderio di eversione del gruppo jenese. Ma era davvero solo questo? Un sentimento condiviso che si esprime nell’enunciazione cifrata di un pensiero? O non piuttosto una scelta formale mimetica delle disarmonie della modernità in contrapposizione alla compiutezza armonica dell’antichità?

Il dubbio che la ribellione possa essere l’estrema forma della nostalgia non sfiora l’autrice, così come passa inosservato il diaframma ermeneutico che ha consentito ai romantici di Jena di leggere il loro tempo dalla specola dell’antico e l’antico da quella del moderno.

Il libro si legge davvero come un romanzo ma c’è da chiedersi quanto il metodo biografico adottato contribuisca a un’intelligenza dei contenuti culturali che in quella breve stagione si sono messi in moto, determinando una decisiva discontinuità con la cultura precedente. La domanda non è retorica, è reale e varrebbe la pena di trarne spunto per una riflessione.

L’insistenza sulle motivazioni individuali si rivela in definitiva, per usare la nota distinzione di Leibniz, una ragione necessaria ma forse non sufficiente.

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