Il Romanticismo di Isaiah Berlin

23 Febbraio 2024

Dalla prefazione del curatore Henry Hardy sappiamo che Le radici del Romanticismo è un libro a cui Isaiah Berlin lavorò per anni, ma a cui non seppe dare una veste definitiva. Rimane oggi a disposizione degli studiosi una sterminata quantità di appunti a cui Berlin affiancò una lista di rubriche allo scopo di organizzarli. Quasi a volersi convincere che il librò c’era già, bisognava soltanto dargli una forma compiuta, ma scoprendo, forse, che la forza delle idee ivi contenute traeva la sua energia proprio dall’incompiutezza. Un procedimento che, se è lecito un confronto, ricorda quello leopardiano dello Zibaldone o il Passagenwerk di Benjamin, scritture diversissime ma accomunate dallo zelo della catalogazione ex post o ex ante per dare un ordine ai frammenti.

Chi l’ha potuto vedere al lavoro sapeva che Berlin sottoponeva le sue opere a revisioni continue, talora ossessive, per poi trovare quasi miracolosamente l’uscita dal tunnel. Un traguardo che le sue lunghe e appassionate ricerche sulla genesi del movimento romantico non raggiunsero.

Ciò che oggi si presenta al lettore sotto il titolo Le radici del Romanticismo sono le trascrizioni delle registrazioni delle sue A.W. Mellon Lectures tenute alla National Gallery of Art di Washington nel marzo-aprile 1965.

Il curatore si rammarica del progetto incompiuto, ma si consola pensando che “la trascrizione conserva una freschezza e un’immediatezza, un’intensità e un brio che in una versione scrupolosamente rielaborata ed ampliata avrebbero, com’è inevitabile, subito un certo appannamento”. D’altra parte la citazione da Butler che figura in esergo all’introduzione del curatore era, per la sua lapidaria evidenza, tra le favorite di Berlin: “ogni cosa è quello che è, e non un’altra cosa”. 

Le sue lezioni sulle origini del Romanticismo sono a tutti gli effetti lezioni, tenute vive da una costante e vivacissima postura didattica che conferisce al dettato una perentorietà e una affermatività quasi apodittica. E nondimeno le 200 pagine del volume ora riproposto da Adelphi rivelano un fil rouge che tiene unite in un disegno coerente le molte intuizioni – alcune davvero geniali – che costellano questo libro sotto molti punti di vista sorprendente.

La coesione sistematica sotto una superficie discontinua appare per così dire mimetica del progetto romantico stesso, quello esposto nella rivista jenese “Athenäum”, che Friedrich Schlegel identificava nella forma concisa e necessariamente criptica dell’aforisma in luogo di un’esposizione classicamente sistematica.

L’itinerario proposto dal grande filosofo e politologo di Oxford si apre dunque con un’esplorazione delle cause del fenomeno romantico, un fenomeno che egli non esita a definire la svolta più importante della modernità occidentale nel campo delle teorie della conoscenza.

Ma prima di addentrarsi nella complessa filogenesi del suo oggetto Berlin si pone la questione della legittimità delle definizioni che la storiografia filosofica, letteraria e artistica hanno via via dato di questo insieme di idee “rivoluzionarie”. E conclude affermando che sulla strada delle generalizzazioni, come ad esempio quella che afferma che il Romanticismo nasce da un diverso rapporto con la natura, ci si arena quasi subito dal momento che ad ogni affermazione di questo tipo se ne oppone una di segno opposto. È una questione, quella della precarietà delle definizioni, che ovviamente non riguarda soltanto il movimento romantico; rivela semmai un abito mentale segnato da una rigidità geometrica incapace di misurarsi con la complessità della vita e con il suo impasto di pensiero e sentimento. 

Questo atteggiamento i romantici di Jena lo attribuivano al filisteismo cognitivo della nascente cultura borghese che trovava il suo alimento teorico nell’Illuminismo.

E allora come descrivere il movimento romantico senza cadere nel paradosso di stabilire a priori quale sia il suo fine e misurare quanto i suoi protagonisti si siano avvicinati ad esso?

Qui Berlin, non senza una dose di sana provocazione rispetto alle vulgate correnti, dichiara esplicitamente che la valenza rivoluzionaria di quel movimento richiede un’attenzione più generale alle dinamiche del pensiero che l’hanno preceduto e di cui il Romanticismo è profondamente innervato. 

“A me sembra”, dice Berlin, “che nella seconda metà del Settecento – prima della nascita di quello che viene propriamente designato come il movimento romantico – si sia verificato un radicale mutamento di valori, che ha influenzato il pensiero, il sentimento e l’azione dell’Occidente.” 

Ed è da qui che partono le sue lezioni sulla genesi del fenomeno romantico, da un’interrogazione sulla natura profonda dell’Illuminismo e sulla sua intima tessitura.

Perché se è vero, come diceva Paul Valery, che “non è possibile ubriacarsi, non è possibile saziare la propria sete con le etichette delle bottiglie”, è altrettanto vero che la ricerca di un fil rouge che spieghi la svolta romantica è pur necessaria. E qui si palesa l’irrituale e acutissima capacità di Berlin di osservare le motivazioni essenziali con cui nel Settecento vengono riproposti i grandi quesiti della filosofia: che cos’è la verità e come la si può conoscere in un mondo che si presenta nella sua caotica frammentazione? La risposta che il secolo dei lumi cerca “non deve essere il risultato di una rivelazione, perché rivelazioni di uomini diversi risultano essere reciprocamente contraddittorie”. E nemmeno la tradizione, né i dogmi offrono un terreno saldo su cui costruire un percorso di conoscenza. Per gli illuministi la sola maniera di ottenere una risposta certa è offerta “dal corretto uso della ragione, deduttivamente, come nelle scienze matematiche, o induttivamente, come nelle scienze della natura.” 

E qui compare una nuova figura che si rivela di grande efficacia ermeneutica, quella che descrive la vita come “un puzzle a incastro” per cui la vera scommessa è di trovare un modo per “riunire insieme tutti i diversi pezzi in un unico disegno coerente”. La stella polare a cui il Settecento guarda per quanto concerne il compito di trovare un ordine nel caos delle mille ipotesi conoscitive è la fisica newtoniana. E “ciò che Newton aveva ottenuto nella regione della fisica era sicuramente applicabile anche alle regioni dell’etica e della politica.”

Dunque, la reductio ad unum doveva percorrere la strada indicata dal grande fisico inglese che “con pochissime mosse magistrali, era riuscito a ridurre questo enorme caos [quello delle infinite risposte discordanti]) a uno stato relativamente ordinato.”

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Analoghi saranno gli sforzi che gli illuministi adopereranno per definire l’etica e la politica. Ma anche l’estetica si darà lo stesso compito di riduzione della complessità artistica e letteraria; emblematico è il titolo del trattato di Charles Batteaux: Les beaux arts réduits à un même principe (1746). Dove il principio unico a cui tutte le rappresentazioni artistiche erano subordinate era il principio di imitazione della natura, una natura intesa come forma ideale, come modello universale, ottenuto astraendo dalle infinite determinazioni empiriche.

Se questa era la linea maestra, Berlin ci mostra come nello stesso secolo decimo-ottavo vi fossero figure che come Hume e Hamann minarono le certezze della razionalità dei nessi necessari a unire le disiecta membra delle cose che vediamo nel mondo. Hume lo fa mettendo in dubbio il rapporto di causa ed effetto, ossia che gli effetti di una causa siano prevedibili. Inoltre afferma che la certezza dell’esistenza delle cose non può basarsi sull’evidenza matematica.

Non meno interessante è l’anti-illuminismo di Johann Georg Hamann, che attinse allo scetticismo di Hume per dichiarare che l’universo non è conoscibile mediante la ragione, ma solo attraverso la fede. Le sue conclusioni sono tuttavia più radicali, lo scetticismo verso la ragione astratta approda in Hamann a una radicale messa in questione della legittimità del ragionare attraverso modelli e principi.

Così sintetizza la sua posizione Berlin:

“I francesi si occupavano delle proposizioni generali delle scienze, ma queste proposizioni generali non catturavano mai la concreta, vivente, palpitante realtà della vita. (…) [Hamann] era contro gli scienziati, i burocrati, coloro che mettono ordine nelle cose, i levigati reverendi luterani, i deisti, contro chiunque volesse riporre le cose in scatole, chiunque volesse assimilare una cosa a un’altra…”

Il caso Hamann rivela a Berlin una radice profonda del Romanticismo, anzi, il suo “vero luogo d’origine”: il pietismo, che esercitò un’influenza enorme sull’intellettualità tedesca del Settecento, sulle arti, sulla musica, ad esempio su Bach, ma non meno su Kant e su Herder. 

In una lettera a un critico musicale che gli rimproverava di non aver capito la grandezza dell’autore delle Variazioni Goldberg Berlin rispose: “il punto che mi premeva stabilire è che il grosso delle composizioni di Bach furono scritte in un’atmosfera pietistica; che esisteva una tradizione di interiorità religiosa che in buona parte isolava i tedeschi dalle frivolezze e dallo scintillio del mondo, dalla ricerca della fama mondana e dal generale splendore della Francia, o anche dell’Italia.”

E qui compare nelle lezioni americane di Berlin una seconda chiave di lettura del Romanticismo, lo spirito antifrancese. Si tratta di un’interpretazione forse eccessivamente enfatizzata ma funzionale a fare del romanticismo un’espressione in primo luogo tedesca e come tale radicata in quella cultura.

Allo spirito antifrancese Berlin riconduce l’opposizione tenacemente perseguita da figure spesso tra loro molto diverse che vedevano nei rituali fatui dell’aristocrazia francese la traduzione simbolica dell’esprit de géométrie. E che all’universalità della ragione e al suo equivalente estetico, il culto della bellezza e dell’armonia, contrapponevano l’osservazione sofferta dei labirinti dell’interiorità, e al dominio sovrano della ragione, la fede in Dio come luce della propria coscienza. 

Una tradizione bimillenaria di razionalismo, dalle origini greche al Medioevo di Tommaso d’Aquino, dal Rinascimento fino all’Illuminismo, aveva identificato la conoscenza con la virtù; il Romanticismo provò ad incrinare questo assioma riportando l’umano al mistero della sua origine e della memoria del suo passato, indagando le infinite fisionomie dell’individuale, i meandri dell’interiorità, il destino tragico della libertà.

Molto belle le pagine su Kant, sulla sua concezione morale, in cui Berlin si chiede perché questo esplicito odiatore del Romanticismo si possa in realtà considerare come un suo diretto antesignano. Lo stesso vale per il kantiano Schiller che nei Masnadieri ci offre un esempio di rara efficacia della dialettica tragica dell’Illuminismo e del destino della libertà umana. Karl Moor combatte la tirannide in nome della libertà ma si rende protagonista con la sua banda di orrori infiniti, distruggendo e incendiando interi villaggi e uccidendo con furia satanica donne e bambini.

Infine, nell’ultimo capitolo Berlin si chiede quale sia stata l’eredità del pensiero romantico. Qui la sua esplorazione, che già si era distinta per una visione fortemente personale, talora esplicitamente idiosincratica, assume un connotato ancora più inconsueto e originale. La sua rilettura del Romanticismo acquista una dimensione diacronica che ci porta diritti al Novecento, fino a toccare i fondamenti ideologici del fascismo ma anche l’influenza decisiva sull’esistenzialismo – “l’erede più autentico del Romanticismo” – o sulle correnti filosofiche che privilegiano un sistema valoriale basato sull’eroismo del fare, sull’espressione della volontà individuale che si trasforma in volontà di azione collettiva.

Che questo lascito sia aporetico non desta stupore, essendo figlio di un pensiero altrettanto aporetico in cui si evidenziano declinazioni opposte tutte sussumibili sotto l’etichetta di Romanticismo. Ma allora cosa accomuna esperienze filosofiche e artistiche in fondo così disparate che a loro volta hanno dato vita a una miriade di direzioni diverse? Per Berlin si tratta semplicemente dell’incontenibile desiderio di distruggere le norme del passato: “Nel Settecento abbiamo un grado estremo di raffinatezza, abbiamo forme, abbiamo regole, abbiamo leggi, abbiamo un’etichetta, abbiamo una forma di vita quanto mai compatta e ben organizzata, si tratti delle arti o della politica o di qualunque altra sfera. Ebbene, tutto ciò che distrugge questo stato di cose, tutto ciò che lo manda a gambe all’aria è benvenuto”.

Può sembrare un eccesso di semplificazione, ma la rottura dell’ordine costituito è in effetti una delle spinte profonde già della prima stagione romantica, come testimonia eloquentemente il programma jenese affidato ai frammenti schlegeliani dell’“Athenäum” in cui, tra le altre cose, si progetta la costruzione di un genere letterario in grado di unire in sé tutti i generi tradizionalmente separati , una sorta di grande fusione poetica che guarda al futuro innervata da una nuova mitologia in sostituzione di quella antica. Una volontà di rottura che da lì in avanti caratterizzerà le più diverse esperienze artistiche, perfino quelle più conservatrici, che invariabilmente si accompagnano all’annuncio enfatico di un nuovo inizio.

Si può senz’altro dire che le apodittiche asserzioni con cui Berlin ha confezionato le sue lezioni americane, sebbene non tutte condivisibili, hanno pur sempre un effetto persuasivo che deriva loro da una magistrale virtù affabulatoria e da un timbro di voce di rara potenza.

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