Walter Benjamin tra salvezza e oblio

1 Ottobre 2023

Chi sono i veri maestri e che cosa impariamo da loro? E noi come ci disponiamo dinanzi a colui che eleggiamo a nostro maestro? Il problema sotteso a queste domande può sembrare anacronistico nell’età dell’informazione globale disponibile in ogni momento e in ogni luogo. In realtà è tutt’altro che inattuale, anzi: la relazione maestro allievo è oggi più necessaria che mai perché restituisce al sapere la sua naturale fisiologia, che è fatta di tempi e di luoghi, di durata, di incertezza, di ostacoli, di sconfitte e successi, perfino di tratti fisiognomici, un impasto di situazioni, un’alternanza di stati emotivi, che toccano le esistenze degli allievi restituendo all’acquisizione del sapere quella dimensione umana che l’offerta infinita e gratuita della rete ha cancellato. 

La collana ‘Eredi’ di Feltrinelli diretta da Massimo Recalcati promuove ormai da molti anni incontri con i maestri affidati alla memoria degli allievi. Allievi, non sempre per avere frequentato direttamente i maestri, anzi, spesso si tratta di relazioni lontane nel tempo, in cui non sono solo in gioco i contenuti insegnati ma anche, e forse soprattutto, gli stili di pensiero. 

Osservando queste relazioni si sono potuti evidenziare i tragitti individuali di apprendimento e con essi la mutazione sostanziale del concetto di magistero nei diversi stadi della Modernità.

A fine Settecento, soprattutto in Germania, non era infrequente incontrare nei romanzi di formazione un Meister, un maestro che insegnava il mestiere ai suoi garzoni di bottega. ’Meister’ non a caso si chiama il protagonista di quello che a torto o a ragione è stato considerato il capostipite dei romanzi di formazione, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe.

Ma il Meister non era solo colui che insegnava un’abilità tecnica, era anzitutto una figura morale: ciò che attraeva di lui era la compiutezza della persona, l’armonica compresenza di sapere e fare nel quadro di un’esemplarità che diventava lezione di vita.

Se questi sono stati gli esordi della relazione maestro-allievo sotto il segno dell’illuminismo etico, che intendeva promuovere un’idea di presenza nel mondo non più eterodiretta dall’auctoritas religiosa ma frutto di una progettazione laica, sulla soglia del Novecento il Meister si trasforma in molti casi in una figura incerta, priva di una missione da compiere, in bilico tra malinconia e saggezza.

Ciò che egli lascia in eredità a chi lo seguirà non è un sapere compiuto ma l’esatto contrario, l’incompiutezza. E l’incompiuto è figlio di una vocazione sperimentale che procede per tentativi ed errori, ma, al contrario dell’esperimento scientifico, non aspira a una meta certa, è apertura che vive di apertura, di indeterminazione, di improvvisazione. Un cammino erratico, senza meta, come quello del flâneur baudelairiano. 

Anche Walter Benjamin, nel ritratto che ci consegna Solla nel suo Walter Benjamin. Pensare per immagini, inventare gesti è un soggetto sperimentale, incompiuto, aperto alle tentazioni teoriche più disparate e alle commistioni disciplinari imprevedibili. 

Benjamin diceva che alla critica è connaturata la distanza, il critico ha bisogno di una prospettiva che gli consenta di abbracciare con lo sguardo l’oggetto a cui ha rivolto la sua attenzione. Solo così potrà acquisire conoscenze formulabili in modo netto e preciso. 

Se le scienze esatte definiscono leggi, quelle che il filosofo tedesco del primo Novecento Dilthey chiamava le “Geisteswissenschaften” (scienze dello spirito), e che nel mondo di lingua inglese si chiamano le “human sciences”, forniscono interpretazioni. E le interpretazioni tendono ad assumere una veste formulare, diventano un pattern interpretativo. La formula consentirà di sussumere sotto il suo ampio ombrello affermazioni, passaggi argomentativi e dichiarazioni le più disparate.

Una tentazione questa a cui non si sono sottratte analisi raffinate e destinate a lasciar un segno importante nella loro disciplina, come ad esempio Mimesis di Auerbach, che si è proposto di trovare il comune denominatore della letteratura occidentale nella dargestellte Wirklichkeit, nella vocazione letteraria alla rappresentazione della realtà.

A questa tentazione formulare non si sottrae nemmeno il libro di Solla su W. Benjamin che enfatizza e assume a chiave di lettura delle sue opere, a partire dagli anni Venti del Novecento, la categoria dell’esilio. Una categoria ermeneuticamente fertile, se solo si pensa alla Exilliteratur, ossia agli scrittori e intellettuali tedeschi che dopo l’avvento del nazismo si sono esiliati in Europa o in America. Nel caso di Benjamin, tuttavia, e su questo il libro di Solla si sofferma giustamente con attenzione, si tratta di un esilio non solo fisico ma di una postura dello spirito, di un modo di porsi rispetto alle vulgate correnti della critica e alle letture stereotipate della realtà. Tutto ciò che Benjamin osserva – mondi sociali, metropoli, oggetti culturali, linguaggio, merci, stili di vita – genera un effetto di straniamento: la sua originalità di pensiero consiste, per usare una sua immagine, nel “rivoltare la fodera del tempo”, nel vedere ciò che le consuetudini disciplinari e le loro acquisizioni stereotipate impediscono di scorgere.

 

Di questa originalità d’approccio conoscitivo il libro di Solla offre una vasta testimonianza ripercorrendo stazioni fondamentali del suo pensiero e illuminando i punti di svolta del suo percorso intellettuale. A partire dalla categoria dell’esilio, insieme fisico e spirituale, che ne caratterizzò la perenne inattualità, emergono le figure fondamentali su cui Benjamin ha costruito la sua anacronistica lettura del contemporaneo: l’infanzia, il sogno, il tempo, la noia, la figura del collezionista, la fotografia, il cinema. Su tutto domina una capacità di vedere relazioni e connessioni strutturali che si sottraggono anch’esse alla visione tradizionale delle scienze umane. Solla propone di considerare l’opera monstrum di Benjamin, i “Passaggi parigini”, il cosiddetto Passagenwerk, come una sorta di grandiosa ricapitolazione esoterica del suo pensiero basata sull’accumulo e la catalogazione dei più diversi materiali. Questa assunzione ermeneutica, che a tutta prima può sembrare una forzatura, si rivela in realtà estremamente fertile perché effettivamente nell’opera sui passaggi Benjamin non solo dà vita alla lettura di un’epoca, il XIX secolo, ma anche a una visione stratigrafica del tempo che scardina l’idea di una progressione lineare dell’accadere storico. 

Il suo è il gesto del collezionista che spoglia gli oggetti del loro valore d’uso e li espone come testimoni di un tempo senza tempo e come tali sottratti alla distruzione e all’oblio che il progresso inevitabilmente porta con sé. 

Come aveva intuito Baudelaire, a cui non a caso era dedicato il progetto originario del Passagenwerk, la metropoli moderna, paradossalmente, offre lo scenario ideale per rovesciare il tempo storico, osservandone in filigrana i tratti arcaici e la presenza atemporale del mito.

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Nel continuo cortocircuito tra passato remoto e presente Benjamin legge i segni del futuro. Bene fa Solla a ricordare come la critica benjaminiana all’idea di progresso, che assumerà la sua veste definitiva nelle “Tesi di filosofia della storia”, sia riconducibile alle due figure centrali di Baudelaire e Kafka. Nel primo, in particolare, domina una cifra allegorica che mette al centro ciò che per definizione è lontano e residuale, destinato alla distruzione: gli stracci, gli scarti, ciò di cui la metropoli ogni sera si disfa e che nella notte viene raccolto da quella figura emblematica che è lo chiffonier. Una figura che da Baudelaire in avanti diventerà l’emblema del lato oscuro e tellurico della metropoli votata al progresso. Come ci ha ricordato Mariolina Bertini, recensendo il saggio di Antoine Compagnon dedicato alla filogenesi letteraria di questa figura, in una celebre ripresa del motivo dello straccivendolo, Le Chiffonnier de Paris di Félix Pyat, il protagonista, svuotando la sua gerla dopo una notte di lavoro esclamerà:

“E dire che ho tutta Parigi, in questa gerla di vimini… Ci finisce tutto quanto, la foglia di rosa e il foglio di carta… tutto finisce qui dentro, presto o tardi… E dire che da tutto questo rinascerà della bella carta per i biglietti d’amore, delle belle stoffe per le signore eleganti, carta e stoffe che poi torneranno di nuovo qui, sino alla distruzione finale… È la fossa comune, la fine del mondo… È più che la morte, è l’oblio!” 

Probabilmente a Benjamin non è sfuggita questa fenomenologia del riciclo degli oggetti, ed è certo che le implicanze metafisiche di questa visione della fine e dell’inizio della vita non sono estranee al suo pensiero.

Oblio e salvezza sono i due poli intorno a cui il pensiero di Benjamin intreccia la sua lettura contropelo della storia. Su questo aspetto si sofferma Solla, mostrando come il disegno eversivo rispetto alla storiografia di matrice storicistica porti Benjamin ad accostare la ricerca degli scarti all’attività del collezionista animato dalla libertà e dal gusto dell’accostamento imprevedibile, una caratteristica che lo accomuna all’infanzia:

“Come il bambino, il collezionista è capace di una fantasticheria che coincide con il decomporsi delle forme visibili da cui abitualmente siamo condizionati. Alla costrizione delle forme il collezionista e il bambino oppongono una fantasia che è «genio dell’oblio». Ci offrono così un mondo libero dal dolore delle forme fisse, emancipato dalla credenza in determinazioni sclerotiche e in regole immodificabili. (…) Perdendo l’idea di una staticità delle forme, il mondo si trasforma in «un’eterna fugacità», che lascia dietro di sé un profluvio di tracce che andranno decifrate. E nel «perenne» e perciò «infinito disfacimento», nella decomposizione di un mondo che è sempre uguale a se stesso, siamo chiamati ad assistere allo stadio di una creazione che si produce in ogni momento.” 

Ma all’euforia salvifica del collezionista fa da contraltare lo sguardo rivolto alla componente tragica del pensiero filosofico: filosofia non è costruzione ragionata e sistematica, paga della sua compiutezza, ma esposizione continua all’abisso della fine, della morte, della distruzione e dell’oblio. La sola salvezza non è quella del dio heideggeriano, ma la paziente ricerca della traccia di ciò che un tempo è stato e che il progredire della storia ha frantumato. Il filosofo benjaminiano è un archeologo che rinviene e cataloga i reperti, le tracce che si sono salvate. Le interroga e le inserisce in un sistema di relazioni che non sono quelle della contestualità storica che le ha espresse ma un connettivo che attraversa i secoli, dando vita a un ordito che di storico in senso tradizionale non ha più nulla.

Così Benjamin leggeva il legame che unisce le opere d’arte, dandone conto in una lettera all’amico e maestro Florens Christian Rang (siamo nel 1923):

“la storicità specifica delle opere d’arte è tale da non dischiudersi in una «storia dell'arte», ma solo nell’interpretazione. E infatti nell’interpretazione vengono in luce connessioni fra diverse opere d’arte che sono atemporali, e tuttavia non mancano di rilevanza storica.”

Il saggio di Solla mette bene in luce come il punto archimedico del suo pensiero possa essere identificato in quella paradossale atemporalità della storia che dà i suoi frutti migliori nell’arte e che sollecita l’intuizione ermeneutica: i legami che si evidenziano sia all’interno delle opere stesse sia tra opere differenti non sono l’espressione di uno Zeitgeist ma di una rete misteriosa di affinità elettive. Quelle affinità che decidono gli accostamenti delle opere nell’atelier del collezionista oppure la sequenza delle immagini nel montaggio cinematografico. 

Il privilegio accordato alle immagini, alla loro improvvisa comparsa dagli abissi del tempo, quasi fossero fotogrammi isolati di una sequenza misteriosa di cui non si conosce la ratio, sono i punti di ancoraggio del pensiero benjaminiano. Per questo i suoi Denkbilder, le immagini di pensiero, diventano l’antidoto politico oltre che filosofico alla razionalità strumentale che presiede alla logica di dominio del suo tempo storico. 

Di quella logica e di quel tempo l’esilio di Benjamin in fuga dalla Germania nazista appare come una tragica allegoria.

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