Ernesto Franco: utopia e disincanto

12 Settembre 2024

Non avrei mai creduto che mi toccasse scrivere un ricordo di Ernesto Franco, morto ieri nella sua Genova all’età di 68 anni appena compiuti. Conoscevo e amavo come tanti la sua indomita vitalità intellettuale e umana che contagiava anche i più scettici, i più apatici dei suoi colleghi e amici. Sapevo della sua malattia ma ero convinto che l’avrebbe superata come superò altri momenti difficili della sua vita.

Ci sono stati anni, ormai lontani, in cui ci siamo trovati a condividere progetti e utopie editoriali dalle sponde di case editrici solide e blasonate come Garzanti e poi Einaudi. C’era allora la sfrontatezza, sia pure vigile e attenta, di pensare che l’editoria, anche quella più accreditata, potesse voltare pagina e diventare il luogo di nuove sperimentazioni in sintonia con i cambiamenti epocali che erano in corso. 

Erano i primi anni Novanta, gli anni in cui qualcuno sognava la fine della storia, e che, al contrario, sollecitavano un’attenzione a un nuovo corso degli eventi e alle nuove svolte culturali da leggere e da tradurre in libri.

Erano anni in cui le letterature del mondo richiedevano nuovi ascolti, nuovi traduttori e nuove traduzioni, nuove forme della comunicazione editoriale. 

Ernesto si era formato giovanissimo a quella scuola di interpretazione e di reinvenzione dei classici del pensiero filosofico e religioso che era la genovese Marietti. Di quella casa editrice, diretta da un sacerdote di genio, don Antonio Balletto, Ernesto curava, tra le altre cose, l’ufficio stampa in dialogo con le pagine culturali dei giornali che allora avevano una visibilità e un’importanza che oggi rimpiangiamo. 

Le sue geniali intuizioni editoriali – ricordo in Garzanti la proposta di Breviario mediterraneo di Predrag Matvejevic con prefazione di Claudio Magris – si misuravano costantemente con le esigenze della ricezione, cioè con il pubblico reale e con chi doveva trasmettere a quel pubblico le proposte editoriali. C’era in lui, fin da allora, un senso della concretezza della cultura e di come funzionava la mediazione culturale.

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Questa attitudine al realismo editoriale, che lo ha messo al riparo dalle facili tentazioni utopiche delle molte piccole case editrici nate negli anni Ottanta e Novanta, è diventata nei successivi anni einaudiani la cifra del suo operare. 

Nello stesso tempo le sue qualità affabulatorie e la capacità di mediazione diventarono uno strumento prezioso in quella officina del sapere dall’aura vagamente sacrale che era l’Einaudi. Quella delle rituali ‘riunioni del mercoledì’ e dell’interlocuzione frequente con i consulenti

Una sacralità fortemente minata dalle crisi economiche e dagli avvicendamenti proprietari ma che si manteneva pressoché inalterata nell’opinione pubblica colta. 

Ernesto seppe inserirsi con ironia e disincanto in quella austera realtà, immettendo leggerezza e umorismo persino negli ultimi anni del monumento vivente della casa editrice, in Giulio Einaudi, che per la verità, aveva una sua peculiare propensione alla dissacrazione, soprattutto quando incontrava le certezze apodittiche dei suoi redattori. 

Ricordo la festa di compleanno di Ernesto per i suoi quarant’anni in cui volle invitare la casa editrice, compreso l’illustre fondatore che accettò di buon grado, nella sua bella casa di campagna che domina le colline di Chiavari. Ho ancora impressa l’immagine di Giulio che ballava con Ernesto al ritmo di una canzone rock.

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Einaudi e Franco avevano, così mi pareva, un’intima e mai dichiarata complicità – una sorta di curiosa simbiosi tra understatement sabaudo e genovese – che consentì di governare i programmi editoriali di quegli anni di grandi cambiamenti e di importanti acquisizioni di autori della letteratura mondiale, mantenendosi fedele alla tradizione della casa editrice. 

Anni in cui il direttore generale e poi amministratore delegato Vittorio Bo doveva vedersela con le logiche d’impresa del gruppo Mondadori e Franco, diventato poi direttore editoriale, assicurava agli autori storici della casa che nulla sarebbe cambiato sul piano editoriale. 

In realtà molto cambiò, la gloriosa bottega artigianale si trasformò in una azienda editoriale moderna, consapevole delle esigenze del mercato e di quelle della proprietà milanese. 

Ma l’arte della mediazione di Ernesto riuscì nell’impresa nient’affatto facile di mantenere in vita il catalogo storico di Einaudi pur immettendo in dosi massicce nuove proposte e nuove collane e riuscendo persino a metabolizzare un’invenzione editoriale a forte vocazione commerciale come è stata ed è tutt’ora Stile Libero ideata dalle allora new entries Paolo Repetti e il compianto Severino Cesari.

La scommessa di Ernesto si dimostrò vincente: Einaudi si rafforzò enormemente nella letteratura straniera e iniziò a catalizzare le energie migliori della narrativa italiana con un mix di autori già affermati ed esordienti. I risultati si videro negli anni successivi.

Tutto questo lo seppe realizzare non certo da solo ma consolidando e costruendo un gruppo di eccellenti collaboratori che riuscì a motivare e a unire stabilmente intorno a sé. 

Non finirò mai di ammirarlo per questa sua sorprendente capacità di amalgamare personalità differenti, di saperle ascoltare, di capirle e di farle lavorare insieme per un obiettivo comune.

È un lascito editoriale importante e ci si augura che chi ne accoglierà l’eredità lo sappia mantenere. 

Ma l’editore di genio dal fare affabile e gentile, era anche un poeta e narratore in proprio di grande originalità. Utopia e disincanto non erano solo la sua divisa editoriale, erano anche i tratti costitutivi del suo fare letterario di cui diede prova in tre originalissimi libri di narrativa: Isolario (1994), Vite senza fine (1999), che vinse il Premio Viareggio, e il recente Storie fantastiche di isole vere (2024). 

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A modo suo, ciascuna di queste storie è lo specchio fedele della sua capacità di unire fantasia e realtà. Emblematico il titolo dell’ultima prova, già attraversata dal una sottile malinconia della fine. 

Ernesto amava le storie di mari vicini e lontani e amava Genova, la protagonista sotto traccia di tutte le sue storie. Nei mari e nelle isole, nella loro naturale distanza dal mondo, vedeva trionfare il paradosso e l’anacronismo. Le sue isole sono percorse da una tensione continua dell’inverosimile e dai tratti tipici di una ‘comédie humaine’ sottratta alle leggi della razionalità strumentale. Ossia a quella dura lex che domina invece il mondo della produzione e dei fatturati e che non tollera il gratuito e la ricerca senza mete precostituite. 

Per lui stare nel mondo era possibile solo standosene anche un po’ fuori; e tuttavia la lontananza non era concepibile se non stando piantato solidamente dentro il mondo. Riuscire a governare questa oscillazione polare, che a tutta prima potrebbe apparire come una condizione dolorosamente schizofrenica, a Ernesto riusciva con la più assoluta naturalezza. Non diversamente da quanto accade al protagonista del suo ultimo libro, il ‘pilota’ del porto di Genova, che racconta all’io narrante le storie fantastiche delle isole che ha visitato nel corso della sua carriera. Per poi ritornare alla realtà, a quella vera, a quella da cui non possiamo liberarci.

Dopo avere descritto l’Isla de la Tortuga, isola piccola del Mar dei Caraibi accanto a Cuba e Haiti-Repubblica dominicana, ma “grandissima, infinita, se la si mette dentro l’“Oceano delle storie”, il Pilota ritorna nella realtà. 

“Il pilota si alza e mi fa un cenno. Camminiamo lungo il molo deserto. Abbiamo tempo. Come ogni molo anche questo è una rampa verso l’ignoto. Sei sulla terra, ma già in mezzo al mare. Sei una partenza pietrificata, sei una voglia di salpare quando sei in fondo al molo. Se non salpi con una nave, lo fai comunque con il desiderio, o con i ricordi. Ogni molo è una macchina della fantasia. E questa città è piena di moli protesi verso il largo. Certo poi, il più delle volte, si torna semplicemente indietro”.

Ernesto questa volta non tornerà indietro, non sappiamo quali isole visiterà, sappiamo però che a vederlo allontanarsi da quel molo ci assale già ora un’infinita nostalgia.

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