Sentimento tragico o pessimismo? / Meglio non essere mai nati

27 Dicembre 2018

Prima o poi la vita umana sulla terra si estinguerà, un paio di volte ci è già andata vicina. La faccenda non è nemmeno così drammatica, giacché «nel lungo termine siamo tutti morti», come ebbe a dire il grande economista John Maynard Keynes. L'estinzione potrebbe essere causata da guerra nucleare, da superriscaldamento, da esaurimento delle risorse. Forse verremo sostituiti da automi dotati di intelligenza artificiale o forse no. Potrebbe anche essere che gli esseri umani del futuro supertecnologico, liberati dal lavoro e impegnati soltanto a divertirsi, ci penseranno da soli a ridurre i tassi di natalità fino al punto di non ritorno: gli ultimi rappresentanti della specie umana potrebbero finire in una sorta di zoo in cui verranno allevati a scopo riproduttivo limitato e programmato, per il sollazzo e l'istruzione di visitatori artificialmente intelligenti. Comunque andranno le cose, ci sono buone ragioni affinché la specie umana commetta un suicidio collettivo, un onnisuicidio? 

 

La vita è male

Sì, certo, risponde il nichilista-pessimista-antinatalista di turno, David Benatar, classe 1966, direttore del Dipartimento di Filosofia dell'Università di Città del Capo, in questo volume pubblicato ora in lingua italiana dall'editore Carbonio di Milano (Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo, ed. orig. Better Never to Have Been: The Harm of Coming into Existence, Oxford, Oxford University Press, 2006). Benatar sostiene in questo libro che ogni essere umano è gravemente danneggiato dal fatto di essere messo al mondo e costretto a sopportare l'insopportabile male di vivere che ognuno incontra nella sua esistenza. La vita umana dovrebbe estinguersi per l'unico reale motivo che essa è male, genera dolore e sofferenza.

 

Un ritornello antico

Il tema è antico, ripetuto com'è nel pensiero greco come pure nell'Antico Testamento e presente in autori quali Montesquieu, Voltaire, Schopenhauer, Cioran, che però Benatar non pare frequentare, dedito com'è a un tipo di analisi filosofica che non tiene conto del pensiero «continentale» se non in forma di citazione erudita messa lì con intento decorativo, come un grano di saggezza subito dimenticata. Nemmeno i classici vengono da lui considerati, o qualsiasi oggetto di ricerca che somigli a un libro: entrano infatti nella sua bibliografia quasi esclusivamente articoli recenti di riviste in lingua inglese. Neanche un rigo su Cioran e il suo L'inconveniente di essere nati (1973) o su Nietzsche, che pure ricorda, nella Nascita della tragedia (1872), l'antica leggenda di Re Mida che «inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso; e quando quello infine gli cadde tra le mani, e il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l'uomo, rispose... non essere nato, non essere, essere niente», che è la sentenza risalente a Sofocle (Edipo a Colono) messa da Benatar a titolo del suo libro.

 

 

Meglio non essere nati

La stessa frase con la quale Umberto Curi ha intitolato un suo studio molto continentale, diciamo così, sulla condizione umana: Meglio non essere nati (Torino, Bollati Boringhieri, 2008). Ma mentre Curi, insieme a Nietzsche, salva il sentimento tragico degli antichi Greci definendolo «istanza contraria» rispetto al pessimismo, e dunque riconoscendogli uno «straripante senso di vita e di forza, all'interno della quale persino il dolore agisce come uno stimolante» (citato da Curi che a sua volta cita Nietzsche dal Crepuscolo degli idoli), Benatar nega al dolore ogni dignità. Qualsiasi sofferenza va evitata, a costo di cancellare il genere umano e invocare la soppressione della procreazione. Venire al mondo è sempre e comunque un male, sostiene Benatar, e mettere al mondo persone umane (ma anche animali allevati per morire a vantaggio degli umani) vuol dire far loro sempre e comunque un danno. Il suo primo argomento recita che mettendo al mondo una persona la si danneggia causandole tutti gli aspetti cattivi della vita. Non lo si può confutare sostenendo che le si causano anche tutti gli aspetti buoni, perché, e qui interviene il secondo argomento, se si tiene conto (in senso letterale, calcolando matematicamente) degli aspetti positivi e negativi, buoni e cattivi dell'esistenza, la maggioranza assoluta delle vite contiene aspetti prevalentemente cattivi e non è degna di essere vissuta. Torneremo su questo punto. Per ora continuo a esporre la tesi denatalista di Benatar: l'unico modo per garantire che una eventuale persona futura non soffra è assicurarsi che non diventi mai una persona reale. Il tutto articolato intorno al calcolo benthamiano dei piaceri e dei dolori: se l'imperativo morale dell'utilitarismo è di creare il massimo piacere per il massimo numero di persone, e la vita è sempre e comunque dolore e sofferenza, esistere non vale la pena: meglio non esistere, meglio non essere mai nati. 

Pensarla al modo di Benatar è più che lecito – chi di noi non l'ha mai fatto? – come pure è lecito immaginare di evitare sofferenze alle persone impedendo che diventino tali, quindi non contribuendo a metterne al mondo di nuove. Molte e molti di noi che hanno avuto figli si sono chiesti, in relazione alla progenie – al figlio in genere, non a quella figlia o a questo figlio nello specifico, giacché nessuno può pretendere di sapere quale individuo specifico nascerà – se non hanno fatto un torto mettendola al mondo, magari per soddisfare un desiderio biologico e/o culturale di genitorialità. Perché il mondo è cattivo e i figli soffriranno varie forme di pene, morali e fisiche, ma soprattutto perché dovranno affrontare la loro morte oltre che la morte dei loro cari. Molte e molti di noi sono tormentati dall'idea di aver dato la vita a esseri mortali: non sarebbe stato meglio concentrare le proprie energie nella creazione di opere immortali nell'arte, nella musica, nella letteratura, nella scienza?

 

Ma non è questo il punto di Benatar, che se affronta il tema del dolore dato dalla morte dei propri cari, mai si interroga sull'angoscia di fronte alla propria morte (quella di cui fingiamo di consolarci con l'argomento di Epicuro: se c'è la morte non ci sei tu...). Certo che ci si può suicidare – sempre Benatar – ma questo provoca ulteriore dolore ai sopravvissuti. Né il suicidio né l'aborto sono soluzioni praticabili su larga scala senza creare dolore. Meglio non procreare per nessun motivo, che esso stia nel soddisfare i genitori, dare fratelli a figli già esistenti, propagare la specie, la tribù, la famiglia o la nazione.

 

Vite non degne di essere vissute?

Se poi si può sapere che il figlio nascerà con disabilità, è bene impedirlo. In questo mi sento vicina alle posizioni di Benatar: è moralmente irresponsabile far nascere un bambino votato alla sofferenza e alla morte ed è comunque indispensabile che medici e genitori affrontino insieme il problema, e possano decidere senza costrizione ma con la dovuta informazione. E questo contro la posizione di Habermas che ritiene invece che la scelta denatalistica dei genitori intaccherebbe la possibilità di scelta e di autodeterminazione del figlio. Non certo tuttavia perché – come invece sostiene Benatar in uno dei punti più deboli della sua martellante analisi – la vita di un disabile sia indegna di cominciare. Nessuna vita è degna di cominciare, conclude comunque Benatar, salvandosi in qualche modo dalla insostenibilità della asserzione precedente. Tutti i bambini, disabili e abili vengono messi al mondo senza che i genitori pensino che stanno facendo loro del male. Non ci si deve quindi rammaricare dell'estinzione della popolazione umana, cosa che eviterebbe il dolore di moltissimi esseri cui sarebbe risparmiata l'esistenza. Al massimo si potrà compiangere l'ultimo manipolo di sopravvissuti che si aggireranno in un mondo polveroso e semidesertico conducendo l'esistenza miserrima dei personaggi di un romanzo post-apocalittico di Cormac McCarthy.

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