Paolo Sortino. Elisabeth
La narrativa italiana conosce un momento particolare. Sarà per via dell’aumento vertiginoso delle pubblicazioni – romanzi e racconti –, sarà forse per l’arrivo di una nuova generazione di scrittori, nata a metà degli anni Settanta, e anche dopo, ma non passa settimana che non escano libri nuovi, e anche interessanti. Non tutti ovviamente, anche perché l’attuale ritmo editoriale, imposto dalle leggi del marketing, sollecita anche gli scrittori già affermati – quelli della generazione degli anni Sessanta – a pubblicare un libro ogni anno, o quasi, non sempre con risultati soddisfacenti.
In questa massa di opere come orientarsi? Quali libri leggere? Quali no? Chi consiglia a chi? Tutti interrogativi cui vale la pena di rispondere. Come? Provando ad affidare il compito di leggere e recensire i libri ad una nuova generazioni di lettori, e soprattutto di lettrici – sono le donne a leggere più libri di narrativa, o più libri in generale, rispetto agli uomini. Ecco allora che inizia con questo primo articolo una “rubrica” di recensioni scritte da persone che debuttano in quest’attività portando con sé uno sguardo che non è quello dei critici di professione attivi su quotidiani, settimanali o riviste.
Pezzi non troppo lunghi, da leggere velocemente, ma sempre con una visione attenta
La claustrofobia è la dimensione di Elisabeth, primo romanzo dell’esordiente Paolo Sortino (Einaudi, pp. 216, € 19,50); la gabbia ne è lo spazio esistenziale. Fino a quasi metà romanzo non c’è alcuna via d’uscita: per il padre carnefice Josef, per la figlia vittima Elisabeth, per il lettore, perfino per la scrittura che abita a tal punto quella prigione da divenire essa stessa edificio indistruttibile.
Il romanzo è ispirato direttamente a un fatto di cronaca. Josef Fritzl nell’agosto del 1984 rapisce la figlia diciottenne Elisabeth e la rinchiude in alcuni locali realizzati sotto la sua abitazione ad Amstetten, capoluogo di provincia della Bassa Austria. Nei ventiquattro anni della sua reclusione dai ripetuti rapporti incestuosi, nascono sette figli.
Elisabeth è un romanzo sofferto, cattivo, che avvolge il lettore e lo avvelena lentamente, eppure a un certo punto il dolore si spezza: la protagonista riesce a rendere flessibili le sbarre di quella prigione, le pareti impenetrabili di cemento armato diventano i confini del suo corpo con i quali aggira la strategia del padre aguzzino.
La violenza cieca di Josef viene trasformata da Elisabeth nel doppio della vita reale: con il padre genera sette figli come lui aveva fatto con sua madre Rosemarie. Ora è Josef il vero prigioniero, la vittima che non riesce a uscire dalla sua vita, mentre Elisabeth si è trasformata nelle pareti del bunker e nelle pagine del romanzo. E noi con lei.
La scrittura ne ripete le ossessioni e fornisce le chiavi per comprendere l’incomprensibile: ogni evento viene dapprima sottilmente annunciato e i gesti inspiegabili sono illuminati da similitudini chiare, limpide e inequivocabili.
Se per certi aspetti ricorda le atmosfere senza via d’uscita dei romanzi di Kafka, qui la protagonista trasforma da prigione a grembo fertile lo spazio in cui si trova murata come un insetto.
Paolo Sortino riesce a scrivere un romanzo sul potere che non può distruggere fino in fondo un individuo: se l’unica colpa di Elisabeth è quella di essere nata, è proprio il potere di dare la vita, l’evento originario che il padre tenta disperatamente di riprodurre, a trasformarsi nell’arma con cui la figlia riesce a demolire la cieca violenza dell’artefice.
Per questo il romanzo di Paolo Sortino è un libro doloroso come un parto, ma che alla fine fa venir voglia di dire, con le parole di un celebre regista, la vita e nient’altro.