Ottobre 1921 - ottobre 2021 / Zanzotto dalla terra alla poesia
Un libro che si deve maneggiare a lungo, iniziare, riprendere, iniziare di nuovo, portare in fondo con attenzione. Andrea Zanzotto. Il canto dalla terra, di Andrea Cortellessa (Laterza, 2021), ha una compattezza, una densità che attrae e avvince, e che impegna allo stremo il lettore, incalzando, innescando tema da tema, riprendendo motivi, svolgendo cellule di senso interne con un andamento compositivo avvolgente, allo stesso tempo centripeto e centrifugo.
Centripeto perché il nucleo al quale sempre si ritorna è la relazione tra l’opera di Zanzotto e l’esistenza che il poeta compone nell’opera (rinvierei al virgiliano “componere curas”, proferito da un Enea che sempre ha alle spalle un disastro e sempre fugge avanti sospinto da una necessità/desiderio). Centrifugo perché la realtà (materiale, sociale, storica, psichica) che l’opera di Zanzotto circoscrive, riscrive e interpola è in continuo rinvio e rilancio verso altro e altrove.
Il capitolo introduttivo espone già dalla prima pagina lo scarto rispetto alle consuetudini accademiche, non solo dicendo “io” (e su questo “io critico” ritorneremo), ma agganciando la biografia intellettuale dell’estensore alla vicenda del suo interesse per il poeta, e così anticipando il corpo a corpo che in seguito lo porterà a giocare liberamente la distanza interpretativa dall’opera di Zanzotto in ragione di un richiamo costante alla dimensione esistenziale che la attraversa nella sua totalità.
E nelle medesime pagine introduttive intitolate con calco zanzottiano, e credo non senza ironia, Il centro di lettura, vanno rinvenute le premesse dell’intera operazione. Spero di individuare bene, semplificando assai, i passaggi:
1) la critica zanzottiana ha sempre insistito troppo sulla “superficie” testuale della sua poesia, privilegiando il significante sul significato, ovvero non indagando a fondo quelli che un tempo si sarebbero chiamati i contenuti, ma accanendosi sulle ragioni della forma (e Cortellessa in proposito accomuna le scuole di analisi formalistica o stilistica agli approcci psicanalitici, filosofici o di critica delle fonti); e circoscrive crediti e debiti nel nome di Lacan, così spesso ingombrante nell’interpretazione dell’opera del poeta;
2) La densità della pagina zanzottiana ha fatto trascurare l’estensione della sua opera. E proprio nell’estensione, invece, che comprende, con la poesia, le diverse forme di narrativa, saggistica e critica, si trova quella profondità che sfugge all’indagine della singola pagina di poesia o di prosa. Quindi l’autore si confronterà con tutto Zanzotto;
3) L’estensione dell’opera comporta un excursus temporale davvero notevole, che attraversa fasi diverse della società e della storia, percorrendo il Novecento e muovendosi oltre i limiti temporali e culturali del secolo. Uno Zanzotto, quindi, da leggere come nodo centrale del Novecento ma da non relegare al Novecento, poiché la parte della sua opera che si sporge nel nuovo millennio (con una “seconda trilogia”: a Il Galateo in Bosco, Fosfeni e Idioma, si aggiunge e contrappone Meteo, Sovrimpressioni, Conglomerati) affonda nel nostro tempo attuale una parola necessaria. Di conseguenza, i giovani poeti, oltre che i giovani critici, dovrebbero tenerne maggior conto di quanto è oggi riscontrabile. Uno Zanzotto futuro, dunque, ancora tutto da leggere.
Il volume si dispiega poi perseguendo con diabolica acribia un’intenzione fondata: la complessità dell’opera zanzottiana si deve affrontare intessendo un testo che risponda con altrettanta complessità. Si può rendere conto della vertigine delle relazioni di parola e di pensiero che così spesso Zanzotto innesca soltanto ripercorrendone il movimento, riproducendo i segmenti del tracciato che di volta in volta segna. A un’opera-enciclopedia si può rispondere soltanto con una enciclopedica ricognizione degli interni collegamenti, rinvii e rimandi.
Il risultato è, per un lettore benignamente ostinato, un vero e proprio tesoro di connessioni ragionate, di acute segnalazioni bibliografiche, di inesauste notizie sull’autore e sull’opera. Quello di Cortellessa è a sua volta un libro-opera dove la critica (i suoi strumenti, le sue finalità) è teoricamente messa in scacco nel momento in cui tutte le strategie vengono assunte e inabissate nella ricerca di un nesso ulteriore tra opera e vita e, direi, tra vita ed esistenza. Ne è controparte significativa il fatto che all’iniziale tratto autobiografico che espone il proprio interesse critico Cortellessa faccia corrispondere un capitolo nel quale si ripercorre interamente (integrando le notizie già presenti nella Cronologia del Meridiano a lui dedicato) la biografia documentabile del poeta di Pieve di Soligo. Un capitolo strategicamente importante, dal titolo significativo (dove bio e grafia sono separate da due frecce direzionali che portano da bio a grafia e viceversa), con il quale si vuole indicare che tra la vita e l’opera c’è uno spazio ulteriore, esistenziale, appunto, che ha una sua temporalità diversa dalla semplice successione cronologica, e che è proprio l’opera a dispiegare questa dimensione e a indicarcene le vie.
Per portare a compimento questo intento Cortellessa è costretto a destabilizzare la compattezza sia auto-biografica che autoriale-accademica dell’interprete, muovendosi a sua volta con fulminea rapidità non solo tra temi e tempi diversi, ma anche tra testi e forme di testimonianza differenti. In un certo senso, ciò rende conto pienamente della condizione dell’interprete, che oggi deve rispondere dell’esponenziale progresso tecnologico dell’archiviazione, diversamente però lettore deve prestare attenzione alla dimensione temporale di un “io critico” che di fatto mantiene, in ogni pagina, il tempo dell’“oggi”, in confronto con i molti decenni accolti nell’opera di Zanzotto.
Quando Cortellessa scrive, per fare un solo esempio: “Se oggi noi, col senno dello Zanzotto di poi e in particolare del Galateo in Bosco, possiamo…” indica un passaggio che riguarda la manipolazione di una temporalità che non può riguardare l’autore dell’opera, ma il critico che ne deve sostenere la validità. Non importa qui il contenuto dell’espressione, ma la formula, che vorrebbe comprendere un “senno dello Zanzotto di poi…”, cioè come Zanzotto stesso si leggerebbe dall’altezza cronologica di un dopo che coincide con la stesura del Galateo in Bosco, è ipotesi critica in sé interessante, che deve però essere validata, come si diceva. E più in generale appare procedimento a volte avventuroso, quando si conosca il modo di procedere di Zanzotto durante l’intero arco della sua produzione, che è quello di conservare, ritornandoci, appunti, abbozzi e testi conclusi, in un movimento di ritorno e ripresa che rinforza l’organicità dell’opera stessa ma pone qualche domanda supplementare sulla reale datazione.
E’ un problema, questo, al quale il critico risponde da par suo, con una fitta rete di ritessiture, senza però evidenziarlo tematicamente: Zanzotto “lavora” la datazione delle opere (e dei suoi ricordi) rinforzandone la coerenza complessiva nel tempo, tanto quanto concede credito alle diverse interpretazioni, che la moltitudine di indicazioni esegetiche autoriali indirizza su diverse piste, e che concorre a far lievitare la creatività degli approcci. Quella di Zanzotto è un’opera sempre in fieri nella sua dichiarata risposta all’esistere, e da questa apertura e instabilità, alla quale concorrono dichiarazioni, note e noticine disseminate in ogni direzione, acquisisce anche un irraggiamento di tempi e temi interni che si muove in ogni direzione cronologica. Vale a dire che questo passaggio al “senno di poi” e anche a “quello di prima” si vorrebbe esplicitato e validato più spesso, se non altro per non trovarsi disorientati nel percorrere le diverse serie cronologiche, perché il procedere muovendosi lungo l’arco dell’intera opera produce una costellazione di riferimenti che a volte rischia di diventare, per il lettore che sia un po’ meno devoto zanzottista, nebulosa. Ciò non toglie che, soprattutto per il devoto zanzottista, ogni pagina sia ricca di spunti e proposte, sempre mirate e corroborate da riferimenti. Anzi, voglio annotare che nel libro ha luogo anche una sceltissima e cospicua “antologia personale” dell’intera opera zanzottiana, che da sola varrebbe una ricognizione completa e merita una specifica considerazione.
Un altro pensiero che sovviene al lettore ammirato e a sua volta non poco “zanzottizzato” è che l’influenza culturale e soprattutto psichica dell’autore studiato sul suo studioso è così grande che il nesso conoscitivo tra l’oggetto di studio e il discorso che ne illustra i risultati è così stretto che spesso genera assimilazione “mentale”. Qui, a proposito – ancora – dell’“io critico”, si direbbe che è accaduto qualcosa che con l’opera di Andrea Zanzotto è frequente: essa ha un potere di attrazione, una forza di gravità che attrae l’interprete nel suo movimento così addentro da creare una sorta di simbiosi. L’enciclopedica quantità di testi chiamati a supporto esplicativo e interpretativo dell’opera zanzottiana risulta omogenea a quelli che la stessa opera propone, fagocitando l’interprete in una dimensione culturale che è del tutto affine, quasi famigliare, cosa che un po’ dovrebbe imporre un motivo di discussione dal momento che l’interprete, in questo caso, ha quasi cinquant’anni di meno dell’interpretato e, aggiungo, in un momento che vede quell’atmosfera culturale, fedelissima all’interpretato, non del tutto ancora vigente.
Un’immersione totale, come risposta all’annosa “crisi della critica”, che produce un esemplare manufatto culturale, ma che rischierebbe alle sue estreme conseguenze la replica di quel Pierre Menard autore del Don Chischiotte, al quale Borges fa riscrivere l’opera di Cervantes, parola per parola, come più perfetta ermeneutica e lettura formale. Si tratterebbe, in fondo, di un esito non lontano da quella che potrebbe essere un’estrema “fantasia di avvicinamento”, che nello Zanzotto critico vuole mettere in comune la realtà e l’esistenza delle quali il testo è di volta in volta sintomo, escrescenza, secrezione e secretum; ma è un limite ben sorvegliato, in fondo, come lo stesso Zanzotto insegna doveroso.
Se Zanzotto ha potuto scrivere che la poesia è sempre lode, legata a quello che – giocando con le parole di Freud – egli definisce “piacere del principio”, lode legata inoltre alla forza di espansione che ha in sé il desiderio stesso, alla potenza di vita e speranza che ha in sé la biologia, ha pure aggiunto che questa lode è sempre collaudo. Giocando sull’etimo, cum-laudare, e portandoci al quotidiano mettere alla prova noi stessi e la realtà, il nostro sentire e il nostro percepire, Zanzotto ci indirizza a un legame profondo tra la terra, l’uomo (l’animale parlante) e la lingua. E il rischio che Cortellessa si prende, nel suo inesausto scavo dentro l’opera zanzottiana, che è quello di diventare più zanzottiano dello stesso Zanzotto, appare come un rischio calcolato per evincere dall’opera del poeta trevigiano qualcosa che oggi è più che mai necessario: i motivi fondanti di una poesia che sia all’altezza della complessità del presente, certo, ma che, soprattutto, non desista di fronte alle domande che l’appartenenza alla terra e il mistero della lingua ci continuano a porre. Mi sembra che in tal senso, individuando questo profondo legame tra la terra e il poeta, un legame che ha la sua unica e vera sostanza nella lingua, il lavoro di Cortellessa centri il suo migliore e più necessario obiettivo.
Tutto il libro appare percorso da questa tensione, che nel capitolo conclusivo trova indicazioni ancora più esplicite. Da questo punto di vista, Zanzotto è interpretato davvero come homo geographicus qual è, dove lo scrivere la terra che il termine geographicus indica ha radice nel rapporto abissale che le forme del mondo, il corpo del parlante e la lingua (di tutti) rinnovano incessantemente. La collocazione del poeta, la sua appartenenza alla terra, viene in necessario risalto, al di là di quello che in termini heideggeriani Zanzotto stesso aveva espresso contro Heidegger, ovvero la visione “catastale” di quest’ultimo nel rapporto tra la lingua e la terra. In questo senso la “mappa” che il poeta chiama all’immaginazione non propone un legame sostanziale con la terra, ma la necessaria continua ridefinizione, nella lingua che sempre si ricrea (vera immateriale e al tempo corporea sostanza), del tempo e del luogo di invenzione e riconoscimento reciproco del parlante con il proprio sé e con gli altri che lo attraversano/corrispondono.
Un’ultima considerazione: nella riflessione finale che lega il lavoro sul dialetto agli Haiku composti in lingua inglese di Zanzotto, forse sarebbe stato interessante includere un terzo dato di riferimento, che è il petèl, ovvero il baby talk, sul quale l’autore ha scritto molto e di più ha avuto commenti, a volte ispirati da fantasiose suggestioni.
Il petèl potrebbe rappresentare il polo esistenziale soggettivo di quello che il dialetto rappresenta sul piano della comunità e l’italiano come lingua ufficiale per la società, così come, giustamente, l’inglese è visto giocarsi il ruolo disgregante e allo stesso tempo di “collaudato” collante (se pure pieno di dissesti e fragilità) rispetto alla perdita, lontananza o tracollo dei primi tre.
Che altro? Si sarà capito che per uno zanzottiano, un po’ zanzottista, alquanto zanzottizzato quale io sono, non è facile recensire un libro che si presenta quasi come una riunione di famiglia, con tutto ciò che di perturbante le riunioni di famiglia mettono in campo, e mi è impossibile dare conto di tutti i sorrisi e i sussulti che si sono avvicendati leggendo, di tutti i “sì, sì” e i “però”, nonché degli abbandoni al gusto di ritrovarsi a casa, riscoprirla così ancora più cara, fondante, vitale e misteriosa. Spero che questo libro venga discusso molto, come merita, e che molti condividano il coraggio che Cortellessa ha avuto nell’esporsi così tanto, con l’unica difesa di una scrittura densissima e obbligante.