Speciale

Arte Contemporanea Africana, questione di etichetta?

2 Giugno 2017

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Quando mi è stato chiesto di lavorare per una nuova galleria d’arte contemporanea che avrebbe trattato in prevalenza artisti africani, la mia prima reazione è stata ovviamente di grande gioia, non solo perché il lavoro era molto vicino a ciò che avevo da sempre desiderato, ma anche perché quell’aggettivo “africana” accostato all’universo arte contemporanea per me evocava una serie di idee, riflessioni, sensazioni che proprio in quel periodo andavo concependo. Intanto perché si parla di arte “africana”? Non si tratta di un aggettivo prettamente geografico in quanto viene in genere associato anche alle opere realizzate da artisti di origine africana, ma nati e/o residenti in altri Paesi in tutto il mondo, frutto della cosiddetta Diaspora. Inoltre si tende, per esempio, a far categoria a parte dell’arte Nordafricana con le sue influenze “arabe” e “islamiche” spesso più marcate. Dunque non è una questione geografica, ma non si tratta nemmeno di una vera e propria categoria perché non esistono cifre stilistiche o tematiche o tecniche proprie solo dell’arte africana.

 

C-Gallery, Room 1, Maimouna Guerresi – Kimathi Donkor - Mary Sibande - Robert Pruitt , courtesy of C-Gallery and the artists.

 

Eppure. Le manifestazioni culturali della primavera parigina 2017 sono state interamente dedicate all’Arte Contemporanea Africana, a partire da Art Paris che annunciava l’Africa come ospite d’onore della fiera, per arrivare alle molteplici mostre e conferenze che hanno animato tutta la città. L’edizione 2016 di Armory Show a New York aveva come focus l’Africa e così via per tutta una serie di altre istituzioni e iniziative in tutto il mondo. Ne deduco che l’Arte Contemporanea Africana sia dunque qualcosa di specifico, ma come definire questa specificità? Ogni volta che l’Occidente ha provato a descrivere l’Africa non ha saputo liberarsi di quello sguardo imperialista in cui si trova imprigionato da centinaia di anni. Ricordo per esempio una mostra simbolica come “Magiciens de la Terre” che se da un lato aveva avuto il merito di portare all’attenzione del grande pubblico artisti provenienti da tutto il mondo, dall’altro non era riuscita ad andare oltre una riproposizione delle strutture di potere, raccontando il dialogo tra la cultura francese e le minoranze. La mostra non riusciva a trasmettere una pari dignità ai lavori e agli artisti esposti, forse perché l’audience non era preparata a recepirla in questo modo, inevitabilmente si cadeva nel fascino dell’esotismo trattando le culture estere come scarti della norma dove la norma era ovviamente la cultura occidentale. Non sono sicura che oggi sia diverso. Credo che questa tendenza odierna di presentare grandi rassegne dedicate all’arte contemporanea africana abbia il merito di presentare artisti che senza dubbio sono penalizzati all’interno di un sistema che ragiona ancora in termini di centro e periferia, ma proprio questo atteggiamento di esaltazione della minoranza in quanto tale si rivela controproducente.

 

C-Gallery, Room 1, Maimouna Guerresi - Joel Mpah Dooh - Coby Kennedy , courtesy of C-Gallery and the artists.

 

Etichettando l’arte contemporanea come africana la distinguiamo inevitabilmente dall’arte contemporanea che africana non è, cadendo nella trappola dell’inclusione/esclusione, facendo percepire come diverso qualcosa che diverso non è. Basti notare che la maggior parte delle opere di arte contemporanea africana costa meno di quelle non africane, pur a parità di curriculum. Ma allora perché portare avanti questa distinzione? Questa è la domanda che mi trascino da mesi, e forse la risposta apre ad altre considerazioni che non so se sono in grado di sbrogliare. Mi chiedo se non sono io ad essere troppo permeata dalla mia cultura occidentale da non comprendere che una peculiarità africana esiste, mi chiedo se non siano i miei strumenti ad essere troppo limitati per approcciarmi a questi argomenti. Mi chiedo se la volontà di distinguere l’Arte Contemporanea Africana non sia una forma di resistenza al Sistema dell’Arte Occidentale e al suo delirante mercato, una forma di autodifesa e autodifferenziazione per dire che il Sistema Occidentale non è l’unico, ma esiste anche un Sistema Africano parallelo e diverso con cui si può dialogare senza però fondersi. Fatico però a credere che sia così, più che altro fatico a credere che una tale posizione possa essere vincente e duratura in un mondo globalizzato in cui il mercato ingloba tutto ciò di cui necessita per autoalimentarsi.

 

C-Gallery.

 

Dunque mi sovviene un altro “pericolo” per l’Arte Africana, il pericolo che questa etichetta possa fare di essa una moda al servizio del Mercato, una bolla speculativa che alimenti le vendite per il periodo necessario, fino all’esplosione di una nuova tendenza che soppianterà la precedente. E allora l’Arte Contemporanea Africana diventerebbe solo un momento nella storia e non la storia stessa. In ultima analisi mi chiedo quindi come posso io, in quanto curatrice, in quanto gallerista, fare in modo di uscire da questi trabocchetti riuscendo inoltre a portare con me quella parte di pubblico che avrà voglia di seguirmi. Questa è la mia sfida, ma forse si tratta proprio della sfida del nostro tempo, forse serve una rivoluzione culturale talmente grande da rendere privi di senso tutti questi ragionamenti. Quello che so è che la storia in qualche modo ne verrà a capo, quello che spero è che al tavolo dei narratori, questa volta, si siederanno in tanti, tutti. 

 

Photos by Raffaelle Bellezza.

 

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