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San Lorenzo / Navi appese ai soffitti

29 Aprile 2021

La prima impressione non è quella che conta, almeno davanti a questo quadro di Vittore Carpaccio (Venezia, Gallerie dell’Accademia). Ci sembra di essere davanti a uno scatto a colori, secoli prima dell’invenzione della fotografia. Come fossimo anche noi all’interno di una chiesa veneziana agli inizi del Cinquecento, ci vengono incontro – con tutta evidenza – la durezza dei marmi, l’irregolarità degli intonaci, il graduarsi delle ombre; e i dettagli più minuti, a cominciare dalle pale e dagli altari della parete di fondo, che è la navata destra della chiesa di Sant’Antonio di Castello, un edificio che a Venezia non esiste più. 

 

Entrando si vedono due grandi pale dipinte, ciascuna con tanti santi su fondo aureo, opere che per stile e struttura sono di certo anteriori a quella del terzo altare, appartenente alla famiglia Ottobon; lo riconosciamo per la struttura architettonica in marmi bianchi e per la pala che raffigura un grande monte. Poco tempo dopo il quadro che stiamo osservando, Carpaccio lavorerà proprio per questo altare, ed eseguirà un’affollata Passione dei Diecimila Martiri del monte Ararat (che reca la data 1515); che cosa è allora la pala dipinta che vediamo all’interno della cornice marmorea? Non è ancora il quadro del 1515, ma – occasione singolare – il pensiero iniziale di Carpaccio per quella che di lì a poco sarebbe diventata l’opera definitiva (infatti già si scorge l’Ararat, che poi è il monte su cui si diceva fosse arrivata l’Arca di Noè).

 

 

L’esatta puntualità dei dettagli domina ogni parte, eppure la ragion d’essere del dipinto è all’opposto – almeno dal nostro punto di vista – della concretezza delle cose che il pittore ci pone davanti. Quello che vediamo, infatti, è il racconto di una visione avvenuta nella chiesa di Sant’Antonio di Castello. La storia è raccontata da Flaminio Corner (Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello..., Padova 1758). Nel giugno del 1511 arriva da Vicenza un religioso e si ferma nel monastero connesso alla chiesa, ma si ammala e muore dopo poco; sospettando un’epidemia, il Magistrato alla Pubblica Sanità chiude il monastero vietando ogni contatto con l’esterno. 

I religiosi implorano i Diecimila Martiri dell’Ararat (come abbiamo visto particolarmente venerati nell’edificio, tanto che a loro era intitolata anche una confraternita). Il 22 giugno, il priore Francescantonio Ottobon, mentre prega davanti all’altare di sant’Antonio abate, si addormenta eppure vede: si aprono le porte della chiesa, e questa si va riempiendo di “una moltitudine di soggetti, i quali coronati egualmente, e con una croce sulle spalle, andavan a due a due processionalmente seguendo un grave personaggio, vestito pontificalmente, che arrivato al mezzo della chiesa diede in maniera pontificale la benedizione, e poscia con tutta la sua comitiva disparve”. Erano insomma i Diecimila Martiri guidati da san Pietro nelle vesti di pontefice benedicente. Ma la visione di Francescantonio ha persino un’appendice sonora, perché dall’immagine di sant’Antonio esce una voce che rassicura il priore: il monastero è salvo “da’ pericoli del morbo epidemico”.

 

Il miracolo non consiste tanto nell’apparizione dei santi martiri, ma nel fatto che – come corpi in carne ed ossa – essi percorrono la chiesa quasi fossero fedeli qualunque, tranne che per gli abiti antichi e le croci in spalla, sfiorando l’unica persona reale, il priore Ottobon, ben riconoscibile per la tonaca e il cappuccio bianco; calpestano i pavimenti rosa e bianchi senza bagliori di luci o effetti sensazionali, mentre, sopra le loro teste resta stabile una pletora di oggetti attaccati alle pareti e appesi all’iconostasi, dinanzi all’altare principale. Sono doni diversi, offerti nel tempo dai fedeli: tanti ceri, alcune riproduzioni di membra umane, alcune uova di struzzo (nel 1954 Millard Meiss aveva descritto quest’ultimo genere di offerte in un saggio incentrato sulla Pala Montefeltro di Piero della Francesca).

 

 

Là in alto, sulle travi lignee delle prime due arcate, riconosciamo facilmente delle offerte speciali: sono due bastimenti e una nave più lunga, un burchio a un albero. Sembrerebbe un’area riservata alla marineria (la chiesa di Sant’Antonio di Castello non era lontana dall’Arsenale), e potrebbero confermarlo anche tutte le bandierine colorate che vediamo accanto ai tre modelli di navi.

 

 

La pratica di collocare modelli di navi doveva essere frequente, e non solo in Italia: uno degli oggetti più importanti del Maritiem Museum di Rotterdam è la piccola nave (secondo alcuni studiosi una “cocca”) proveniente da San Simon de Matarò, presso Barcellona. Nel suo bel libro sul tema (Ex voto: tra arte e devozione, 2016), Davide Ferraris segnala anche – per quanto molto più recenti – i modelli appesi lungo le pareti della chiesa di Sant’Antonio da Padova a Genova Boccadasse.

Pubblicato nel 1511 – lo stesso anno della visione di Francescantonio Ottobon – l’Elogio della follia di Erasmo ironizza su questa maniera di praticare la religione: “Fra tanti ex voto di cui vedete piene le pareti e persino le volte di certe chiese, ne avete mai visti di qualcuno che fosse guarito dalla follia o che fosse diventato più saggio anche di pochissimo?”.

 

Tranne eccezioni – il santuario di Santa Marie delle Grazie vicino a Mantova, ad esempio – questi ex voto sono scomparsi dalle chiese da secoli, ma la pratica era diffusissima. In talune aree con accenti del tutto speciali: fu Aby Warburg (Arte del ritratto e borghesia fiorentina, 1902) a sottolineare come in età rinascimentale la chiesa della Santissima Annunziata di Firenze ospitasse un numero stupefacente di doni votivi (“boti”) in cera. Si trattava soprattutto di ritratti dei fedeli, ed è per questo che lo studioso tedesco li prende in considerazione mentre si interroga sulle “forze motrici di un’arte viva del ritratto”. Per Warburg, questo vasto ricorso a immagini in cera era l’esito di un “accordo fra Chiesa e mondo”, secondo il quale era stato lasciato “ai pagani convertiti uno sfogo legittimo dell’inestirpabile primo istinto religioso che spingeva l’uomo ad avvicinarsi al divino nella forma sensibile dell’immagine umana”. Lo storico dell’arte riporta anche la precoce testimonianza di uno scrittore del Trecento: Franco Sacchetti nel Trecentonovelle canzona un fiorentino che, avendo perduto una gatta, decise di “botarsi [far voto], se la ritrovasse”, perciò la fece ritrarre in cera e la pose nella chiesa di Orsanmichele. Una “magia dell’immagine nella forma più crassa”, sosteneva Warburg, eppure capace di dar vita a un pensiero artistico tutt’altro che volgare. 

 

A qualcuno sembrerà ozioso fare distinzioni in un campo che sembra essere dominato dalla sola superstizione, ma una cosa sono le offerte deprecate da Franco Sacchetti, un’altra quelle su cui ironizza Erasmo. Le prime sono fatte, per così dire, in anticipo, servono insomma a implorare una grazia nel tempo a venire, ad esempio ottenere che un viaggio per mare si svolga come sperato, come per le navi-modellino di Venezia e di Matarò. Chiamandole “modellini” guadagniamo la possibilità di darne un’efficace definizione, ma perdiamo di vista la vera natura dell’oggetto: le navi sulla trave non sono immagini di determinate imbarcazioni, né loro sostituti. Sono il segno visibile della preghiera, invocazioni fattesi oggetto. 

Le offerte ridicolizzate da Erasmo, invece, sono l’esito di un fatto preciso, un evento drammatico a cui segue un’immediata invocazione d’aiuto: sono appunto ex voto, conseguenze di una preghiera esaudita. Nel mondo cristiano è la categoria delle offerte “per grazia ricevuta”. Tanto gli uni, quanto gli altri doni hanno comunque una dimensione pubblica, esposti come sono in un luogo sacro, ma il secondo gruppo ha una sua specifica connotazione narrativa, dato che nasce per condividere con gli altri fedeli un episodio a lieto fine.

 

Lo scampato naufragio è un tema ricorrente negli ex voto in ogni epoca, anche nel mondo antico. Questa incisione fa parte dell’edizione delle Satire di Giovenale, poeta vissuto tra I e II sec. d. C., curata da Robert Stapylton (Mores Hominum. The Manners of Men, described in Sixteen Satyrs, by Juvenal, London 1660); il testo di ogni satira viene preceduto da un “explanatory poem” e, appunto, da un’illustrazione di Wenceslaus Hollar, un incisore praghese dalla produzione stupefacente per quantità e varietà. 

 

 

Chiamarla illustrazione è forse improprio. D’altra parte, come si può illustrare un componimento poetico, in questo caso la Satira XII? Contrassegnate da piccoli numeri, vediamo le statue di Giunone, Minerva, Giove e Cerere, e poi gli animali che Giovenale sta per sacrificare ad essi: vuole celebrare il ritorno da un viaggio per mare dell’amico Catullo, un ritorno tanto più felice visto lo scampato pericolo, dopo una tempesta: “Come una nube una tenebra spessa / ingoia il cielo, si appicca il fuoco / in un lampo all’alberatura” (traduzione di Guido Ceronetti). 

La nave era stata colpita da un fulmine, e subito i legni si erano infiammati. A bordo, tutti si erano resi conto – “sudando freddo” – che “non c’è naufragio paragonabile / alle vele incendiate”, poiché i pericoli per l’imbarcazione vengono da fuori (la tempesta) e da dentro (le fiamme): “L’acqua ha invaso lo scafo, / ora un fianco ora l’altro è sommerso, / l’unico albero superstite vacilla / e la perizia del vecchio timoniere / come imperizia”.  

 

A questo punto Catullo fa gettare in mare tutto quello che si poteva, comprese le cose preziose (il poeta coglie l’occasione per una breve tirata contro il lusso eccessivo). Ma non basta, e si arriva alla soluzione estrema, sacrificare “l’albero a colpi d’ascia”. La burrasca è passata, il mare si è calmato, e la nave procede pian piano (i marinai hanno appeso camicie e braghe al posto delle vele sull’ultimo albero rimasto in piedi, quello di prua). 

Insomma, alla fine è andata bene, ma – aggiunge il poeta latino – si sa che nei viaggi per mare “gli accidenti possibili” vanno messi nel conto: “quanta gente li ha / vissuti! Per questo tanti templi / formicolano di tavole votive / e Iside è la manna dei pittori”.

Il quadretto che, nell’incisione di Hollar, il poeta mostra all’amico vuole essere appunto una di queste tavolette: il fulmine, i flutti, la nave, le mercanzie gettate in acqua. Innumerevoli ex voto del genere sono stati realizzati nei secoli per santuari costieri o comunque vicini al mare, come quello di Santa Maria del Monte a Cesena, in Romagna. 

 

 

Da qui proviene questa tavoletta, che sembra risalire alla seconda metà del Cinquecento (lo suggeriscono gli abiti dei due signori inginocchiati verso la Vergine che guarda dalle nubi); loro pregano, ma i sei uomini dell’equipaggio le provano tutte per raddrizzare la nave, tutta piegata su un fianco.

In anni non troppo distanti, una scena simile dovette svolgersi nel Tirreno, al largo di Monterosso, in Liguria. Una nave mercantile comandata da un certo Niccolò Allegretti di Ragusa (Dubrovnik in Croazia) viene sorpresa da una tempesta; “ciurma” e capitano “fecero voto unitamente a Dio, che se li avesse dall'imminente naufragio liberati, nel primo terreno o porto dove si fossero afferrati sarebbero tutti a piedi scalzi andati pellegrini alla chiesa più memorabile per divozione che ivi fosse”. 

 

Lo racconta un codice conservato nel santuario di Montallegro sulle colline sopra Rapallo, il porto più a nord in cui erano fortunosamente arrivati. È in questa chiesa che alla fine di dicembre del 1574,” tutti a piedi scalzi”, affissero il quadretto in argento che ancora vi si conserva: la grande nave è in perfetto stato, tra flutti non troppo spaventosi.

 

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