Speciale
Barche sul fiume, chiacchiere e sudore
In quell’affastellata e gigantesca enciclopedia di parole (prima che di cose) che è La piazza universale di tutte le professioni del mondo di Tomaso Garzoni (1585), uno spazio consistente – come si poteva prevedere – è riservato alla marineria. Il titolo di questa sezione (Discorso CXVLIV) parla da solo: De' maestri da navigi, de' naviganti o marinari o nocchieri, barcaruoli e gondolieri, passaporti o portonari, e zatteri e galioti e pirati o corsari.
I nomi dei mestieri si saldano a quelli delle più diverse imbarcazioni, non importa se antiche o moderne, se ancora in uso o se apprese dalle pagine di un libro. Del resto, due decenni prima, la strada era stata aperta da un testo nato come strumento mnemotecnico, la Tipocosmia di Alessandro Citolini (Venezia 1561). Tra i “legni senza vela” – ad esempio – Citolini elencava “le barchette in generale, il sandolo, la pescaressa, la fisolara [per la caccia in laguna], il battello, la piatta, i porti da passar fiumi, ed i foderi”.
Garzoni dedica un’attenzione speciale proprio alle “barchette da fiume” a cominciare da quella di Caronte in Virgilio. A partire da questa, dice Garzoni con un ragionamento piuttosto contorto, “son detti i barcaruoli gente del diavolo, per il più infideli, bestemmiatori, ubbriachi, spergiuri, sfrosatori di dacij [frodatori di dazi], senza conscienza al mondo, e senza vergogna d’alcuna sorte (...)”.
Un disegno di Wenceslas Hollar – il Tamigi all’altezza di Westminster (British Museum) – databile al tempo del suo primo soggiorno a Londra (1637-1643), mostra l’intenso traffico di barchette a remi e di lunghe chiatte da carico. Non lontano da Lambeth House – il punto scelto dall’artista per orientare la sua veduta – una dozzina di barche è legata a un lungo pontile; una ha caricato alcune persone, e il barcaiolo sta puntando sul fondo una lunga asta per spingersi verso il centro del fiume. Più indietro, due signori con cappello stanno pagando un altro barcaiolo.
I barcaioli, come si è visto, non piacevano per nulla a Tomaso Garzoni; il suo sguardo assomiglia a quello di certi pittori di fine Cinquecento, come il bolognese Bartolomeo Passarotti, che del lavoro altrui coglieva quasi unicamente il lato buffonesco.
“Nelle barche loro – insiste Garzoni – s'impara quanto di tristo sa un soldato, quanto di ghiotto sa un mercante, quanto di reo sa un ruffiano, quanto di cattivo sa un hebreo, quanto di furbo sa un scolare, quanto di maladetto sa una meretrice, e tutta la somma si riverscica addosso al barcaruolo, il qual si tiene a mente il tutto, et se ne serve quando bisogna a luogo, e tempo”. Sulle barche, insiste Tomaso Garzoni, “si contan favole, si caccian carote, si dicono historie, si canta, si gioca, si ride, si mormora, si sguazza, si trionfa, si bestemmia, et mille dishonestà si commettono ognora, e il barcaruolo è sempre in campo con qualche menzogna, con qualche bestemmia, con qualche buffonaria, con qualche parolaccia scandalosa, con qualche maledittione, con qualche bravata (...)”.
Dai barcaiuoli ci si può aspettare di tutto, e qui Garzoni racconta un episodio tanto più truculento, in quanto iniziato come scherzo ai danni di un ebreo. Quella volta in cui alcuni passeggeri si accordarono con un barcaiolo per “far la burla a un certo hebreo ch'era in barca, il qual portava seco un caratello di tonina [barattolo di salsa di tonno], tirarono galantemente l’hebreo alla volta d’un’hostaria, et poi lo piantarono tornando alla barca, dove tutti insieme devorarono la robba del caratello, ch’eran le polpe di suo padre morto a Vercelli, huomo di settantacinque anni; né mai se n’accorsero nel mangiare, se non quando l’hebreo, tornato in barca, et dato d’occhio al mastelletto, con lagrime dirotte gravemente si dolse che suo padre gli fosse stato da christiani così ingordamente mangiato, ove il buon barcaruolo et i suoi compagni, correndo chi da prora, chi da poppa, alla presenza dell’hebreo revocarono a un tratto quella putrida spagnuola [ricetta spagnola], che malamente potevano ritener nel ventre”.
Garzoni sembra insomma spaventato dall’umanità minacciosamente promiscua che si raduna assieme per un certo tempo, nell’attesa che la barca trasbordi i passeggeri da una riva all’altra.
In realtà il fiume è stato luogo del lavoro fisico più che delle chiacchiere. In questa foto di inizio Novecento, si vede bene la lentezza e la fatica dei renaioli che sull’Arno caricavano di ghiaia e di sabbia le loro piccole imbarcazioni.
Anche in questa situazione, come in quella dei barcaioli che trasportano persone e cose da una riva all’altra, si tratta di tragitti limitati. Ma i fiumi si possono anche navigare, cosa relativamente semplice quando i corsi d’acqua sono grandi, molto più complessa quando la loro ampiezza è modesta. In questo caso occorreva spesso che uomini e animali trainassero le imbarcazioni con grosse funi (alzaie), percorrendo le strade lungo gli argini.
Agli inizi del Cinquecento, Bilora, il protagonista del Secondo dialogo di Ruzante, per campare sta tutto il giorno fuori casa tirando barche, finché qualcuno gli tira via la moglie (“A’ volea pur nare a tirar barche e de dì e de note, e altri me ha tirò me mugiere fuora de ca’ a mi, que Dio el sa se mè pi la porò veére”).
Uomini o animali, o tutti e due, si andò avanti così per secoli, se ancora nel secondo Ottocento Telemaco Signorini contrapponeva la tranquillità di un borghese con cilindro e bambina, allo sforzo di cinque uomini piegati a tirare l’alzaia.
Tra le vie d’acqua, persino i canali possono essere navigati. In spazi così artificialmente ordinati e regolati da banchine e chiuse non ci aspetteremo fantasia e sogno. Eppure è proprio su una chiatta, lungo un canale da qualche parte in Francia, che si accende improvvisa una visione, una delle scene più celebri del cinema della prima metà del Novecento. Si chiama Atalante la chiatta del film omonimo di Jean Vigo (1934): venne scelto il nome della veloce cacciatrice del mito antico per un tipo di barca che per forza di cose doveva andare molto lenta. Da qui si tuffa in acqua il protagonista ed è sott’acqua che gli appare, sorridente e vestita da sposa, l’amata Juliette.
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