Corsi e ricorsi dell’ornamento

2 Dicembre 2023

Negli anni della nostra formazione (e ancor prima, in quelli della modernità stessa) si è compiuta la diseducazione all'ornamento. Da principio ci ha pensato Adolf Loos con il suo Ornamento e delitto, cui ha fatto seguito il Less is more di Mies van der Rohe, radicale, definitiva sentenza di messa al bando di ogni orpello o decorazione che fosse o volesse essere, emessa nel nome di una essenzialità minimalista che ha finito per caratterizzare l'intero secolo breve. E così, nella querelle tra ridondanza e sobrietà, nell’architettura, nell’arredamento, nel design (bi e tridimensionale), nella moda (addirittura nei gioielli, ‘ornamenti’ per definizione) e, a volte, persino nell’arte figurativa, per non dire di quella musicale e coreutica e nelle scenografie di cinema e teatro (opera lirica inclusa), ha finito per trionfare la seconda, con buona pace di tutti, persino dei più scettici.

Ma davvero, davvero l’ornamento è un delitto?

Davvero il meno è il più?

Varcate le soglie del secondo millennio questi interrogativi sorgono spontanei. D’altra parte, da che mondo è mondo, il secolo successivo ha sempre confutato gli assiomi estetici del secolo precedente, si sa. Così era avvenuto anche nel passaggio fra ottocento e novecento quando alla forma determinata dall’ornamento (Eclettismo – con tutti i revivals –, Arts and Crafts, Liberty, etc.) si è sostituita la forma prevalente sull’ornamento (la famosa forma/funzione bauhausiana).

Corsi e ricorsi dell’ornamento. 

Ora no. 

Ora sì. 

Ora forse.

Ed ecco il tema essere affrontato dal libro Il sogno umano sulla forma, l'ornamento nelle arti tra passato e presente, a cura di Claudio Franzoni, Pierluca Nardoni e Gian Luca Tusini (Paolo Emilio Persiani editore, pp. 204, € 15,90) offrire soluzioni ai legittimi dubbi, o, almeno, porre il problema, storicizzandolo.

Si tratta, in realtà delle relazioni della giornata di studio dedicata al tema dell’ornamento, tenutasi nel 2021, al DAMSLAB, in collaborazione con il Dipartimento Beni Culturali – Alma Mater Studiorum – dell’Università di Bologna, a sua volta punto finale di riflessione sulla mostra What a wonderful word. La lunga storia dell’ornamento tra arte e natura, ospitata a Reggio Emilia in Palazzo Magnani e nei Chiostri di San Pietro tra il 2019 e il 2020. Curata dagli stessi Claudio Franzoni e Pierluca Nardoni, era accompagnata da un sontuoso catalogo edito da Skira (pp. 320, € 37.00), ricco di illustrazioni e dell’intervento critico di numerosi studiosi.

Quel che mi aveva maggiormente affascinata di quel catalogo, insieme al suo travolgente cromatismo, all’opulenza delle sue immagini, al tripudio delle forme che sono un regalo per gli occhi, è il suo essere stato concepito come un vocabolario: cinquantasei voci curate da altrettanti autori che ne hanno selezionato pure le illustrazioni.

Anche il libro edito da Persiani contiene saggi di autori diversi ma vede 

la parola prevalere sull’immagine, come si conviene a un volume contenente gli atti di un convegno.

Che l’ornamento abbia a che fare con la parola, scritta e parlata? Si interroga Pierluca Nardoni, facendo riferimento anche agli studi di Walter Ong e di Ernst Gombrich, domandandosi “se a un ciclo culturale a predominanza orale corrisponda, a grandi linee, una cultura artistica a predominanza ornamentale”.

Citando Massimo Carboni, soggiunge che: “il tempus dell’ornamento […] si trova immerso in una totalità ambientale di ritmi auditivi, visivi, fisiopatologici, muscolari in cui il tempo non è un dato ma una costruzione di tempi parziali, plurimi e discreti ricorsivi e insieme dissonanti”. Lo stesso Carboni era giunto ad affermare che le decorazioni greche sarebbero “schemi costruiti su principi acustici”.

D’altronde, la forte interdipendenza tra oralità e arti performative è ancora oggi facilmente riscontrabile nelle culture africane non contaminate dal sedicente progresso.

Il saggio prosegue con approfondite analisi delle “grammatiche” ornamentali, dei principi e dei ritmi che le presiedono.

Nel suo testo, intitolato Ornamento e dettaglio, Marzia Faietti cita poi un tema che era stato affrontato nel seminario bolognese Le parole dell’ornamento, che aveva avuto l’obiettivo “di studiare il lessico della decorazione artistica e architettonica e di definire un punto di intersezione tra le ricerche dedicate alla prassi e quelle rivolte al lessico”.

A proposito di lessico, avete mai riflettuto sul fatto che nell’accezione corrente, allo stesso termine ornamentale viene attribuito il significato contrario di essenziale e che, tutto sommato, esso viene inteso quale sinonimo di superfluo? Tuttavia, in certi campi e in alcune epoche, ornamento è venuto ad assumere il significato opposto a quello comunemente attribuitogli. Ad esempio è accaduto nell’urbanistica, quando, dal 1807 al 1870, era operativa la Commissione d’Ornato, istituita nelle città di Milano e Venezia con decreto napoleonico, per sovrintendere alla politica urbana. In quel decoro urbano di cui essa si occupava, il termine decoro presiedeva allo sviluppo ordinato e armonico delle città, con una quasi prosaica esigenza di concretezza, agli antipodi, dunque del suo senso usuale.

Per ritornare al saggio di Faietti, la storica dell’Arte riflettendo sul “tema della centralità dell’ornamento o della sua perifericità” ci ricorda che “il valore in termini concettuali dell'ornamento non è una questione di formato (il formato minore non è sempre indice della sua natura di accessorio decorativo) e di collocazione (che può essere indifferentemente centrale o marginale entro la composizione), si può accettare il fatto che esso può assumere una rilevanza sotto il profilo tematico anche quando appare come un dettaglio collaterale rispetto al soggetto principale, o, per dirla con Leon Battista Alberti, rispetto l’istoria”.

Come dimenticare il motto di Aby Warburg, Der liebe Gott steckt im Detail (Il buon Dio sta nel dettaglio)?

Claudio Franzoni si domanda invece se vi siano nessi fra l’ornamento e la cultura dominante del tempo in cui esso nasce e si diffonde. “Gli ornamenti hanno un senso? Esiste una relazione tra una data forma ornamentale e la cultura che l’ha prodotta?” Citando Walter Benjamin, ne ripropone poi l’interrogativo: “La moda floreale del Biedermeier e della Restaurazione è forse connessa all’inconscio disagio prodotto dallo sviluppo delle grandi città?”

E per scandagliare il tema, Franzoni riprende, come già il pensatore tedesco, alcuni passi del libro Études pour servir à l’histore des châles di Jean Rey, che contiene una serie di dati piuttosto importanti per ricostruire la storia della moda e delle prime forme industriali ad essa legate, fornitrici, oltre che di scialli, di ricami, di frange, di passamanerie, di drappi, di nastri, di bordure, di bottoni, di galloni, di copricapi, di scarselle, di guanti, di cinture e di tutti quegli altri tipi di ornamento femminile (ed anche maschile) che furoreggiavano tra la fine dell’ottocento e il principio del secolo breve e che forse son stati messi da parte anche a causa delle due guerre mondiali che hanno funestato quest’ultimo.

Luca Capriotti si occupa poi dell’ornatus ecclesiae, ovvero degli elementi ornamentali presenti negli edifici di culto che sorgono lungo le vie del pellegrinaggio dell’attuale Toscana. Attraverso una ricca e puntuale disamina dei luoghi di passaggio pellegrinale, l’autore individua nelle rappresentazioni iconografiche dei Magi e dei Pastori il tema connotante detti luoghi. Così egli scrive: “Sono portato a individuare nella finalità del viaggio l’elemento che accomuna il destino individuale di un pellegrino medievale con la storia universale dei Magi e dei Pastori. Nella storia evangelica la destinazione finale del viaggio è la visita alla manifestazione della divinità, al verbo che si è fatto carne. Allo stesso tempo anche per il pellegrino la priorità del viaggio è di onorare le testimonianze sensibili che hanno definito le coordinate visive e materiali della potenza divina”. L’ornamento, in questo caso, coincidente con l’elemento connotante il luogo, ne diventa dunque la cifra.

Il tema delle cornici, dei margini miniati e dei bianchi girari è poi affrontato in altri tre articoli. Alessandro Volpe si occupa delle Cornici grottesche. L’ornato è necessario? Simonetta Nicolini scrive del Guardare ai margini: qualche osservazione sulla ricezione dell’ornamento miniato tra umanesimo e epoca moderna; mentre Fabrizio Lollini tratta di I bianchi girari come marker culturale.

Poiché non a tutti è dato sapere cosa siano i bianchi girari, eccone una definizione.

Con bianchi girari si indica un tipo di ornamentazione del libro, manoscritto o a stampa, che, nata in epoca carolingia è stata ripresa nelle officine miniaturistiche della Firenze del Quattrocento. Consta di intrecci di viticci raffigurati in bianco su fondi colorati, i cui racemi sono sempre molto sottili e sinuosi e spesso si avvolgono in volute spiraliformi, a volte decorate al loro interno con puntini multicolori.

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Antonio Basoli, Alfabeto pittorico, ossia raccolta di pensieri pittorici composti di oggetti comincianti dalle singole lettere alfabetiche, Bologna, 1839, copia conservata presso l’Alma Mater Studiorum, Università di Bologna, Biblioteca di Ingegneria e Architettura.

Leggendo, poi, il testo che Alessandra Borgogelli dedica ad Antonio Basoli (1774 – 1843), dal titolo Antonio Basoli. Animismo delle lettere, mi è parso di rivedere nella instancabile e colta ricerca formale dell’artista bolognese e nel suo stile “vago e bizzarro” un’analogia con quello che, oltre un secolo dopo, animerà le architetture di Tomaso Buzzi (1900 – 1981).

Entrambi gli autori sono infatti dotati di una “sconfinata inventività in grado di trascorrere velocemente, come accade nelle reti ultimissime, da Oriente a Occidente, dal piccolo al grande, dal Medioevo ai [loro] tempi, dall’alto al basso e viceversa, con un ritmo vorticoso di particolari invenzioni, abbracciando gli stili via via più eterogenei”.

Unica differenza, al di là del tempo storico in cui ciascuno dei due artisti vive e opera, è che mentre Basoli nei suoi capolettere ricostruisce virtualmente la terza dimensione, Buzzi nella sua architettura la pratica realmente. I capolettere mi paiono assimilarsi in modo così fantastico alle architetture della Scarzuola, da sembrare loro parenti, in un gioco di rimandi che, travalicata la dimensione temporale, appartiene alla “sconfinata inventività” che ha la misura dell’eterno (e che ha Piranesi nel DNA).

In Ornamenti resilienti: episodi di decorazione novecentesca, Enrico Maria Davoli, ci narra di come la decorazione, quasi fosse “la mitica Fenice, sopravvive ai roghi che le vengono inflitti”. E così, nell’assoluta messa al bando dell’ornamento operata dalle avanguardie artistiche del novecento, la decorazione “diviene oggetto di un'indagine autoptica: non più corpo vivo ma disiecta membra. Dalla natura morta cubista al ready made dadaista agli straniamenti metafisici e surrealisti, l’inserimento di scampoli, fettucce, tovaglie, tappezzerie ed altri reperti ornamentali ha una funzione evocativa paragonabile a quella che, in poesia, ha il correlativo oggettivo di Eliot e di Montale”.

Gli ornamenti sopravvivono allora come se fossero “i “cocci aguzzi di bottiglia”, (Montale, Meriggiare pallido e assorto, v. 17), quale acuminata minaccia insidiante la purezza della forma che ha invece da essere in quanto tale. Li ritroviamo nei padri del razionalismo, in Peter Behrens, in Auguste Perret, e persino, incredibile visu, in Adolf Loos che li aveva così perentoriamente condannati. E poi essi fioriscono in un’inaspettata serie di opere d’arte del novecento, di cui l’autore del saggio ci racconta, in una carrellata ricca di sorprese.

“Nel Manifesto Distruzione della sintassi, Immaginazione senza fili. Parola in libertà Filippo Tommaso Marinetti denuncia la nausea della linea curva della spirale e del tourniquet, ovverosia l’avversione verso quegli stilemi tipici della congiuntura Liberty-Art Nouveau”. Così inizia il proprio testo Giuseppe Virelli, intitolato Contro la linea tourniquet. Decorativismo ossimorico dell’arte totale futurista.

In realtà, spiega lo studioso, quella dei Futuristi “Non è da intendersi come una condanna senza appello nei confronti della decorazione in sé […] ma un radicale cambio di prospettiva”, che li conduce a optare per una decorazione sinestetica “pronta ad aggredire lo spazio con il suo roboante carico di colori accesi, vibranti, elettrici, scoppiettanti ma anche di suoni, rumori e odori”. E molti sono gli esempi da lui addotti di opere d’arte futuriste che hanno esercitato una profonda influenza sulle correnti artistiche “postmoderne” italiane, da Archizoom, a Superstudio, fino a Memphis. 

Chiudono il volume i testi di Guido Bartorelli e Pasquale Fameli, autori, rispettivamente, di La danza degli ornamenti e arabeschi in movimento: riferimenti al decorativo nel cinema d’avanguardia tra Germania e Francia e di Dalla trama al rizoma. La spazialità ‘liscia’ di Pattern & Decoration.

Dall’architettura all’arte, dal design al cinema, alla moda, il libro di Claudio Franzoni, Pierluca Nardoni e Gian Luca Tusini ci guida a scoprire le ragioni della riscoperta dell’ornamento che, iniziata negli anni novanta del novecento, è più che mai in auge nel secondo millennio. 

Forse è perché, come ha ironizzato Robert Venturi, 

Less is bore.

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