Museum of Machine / Dayanita Singh: errori, caso, narrazione
Si potrebbe iniziare a raccontare il lavoro della fotografa indiana Dayanita Singh dagli errori. Lo dice lei stessa, l’immagine fotografica ha fissato non tanto la realtà, quanto l’errore che si produce al momento dello scatto, elevato a segno che infonde il senso all’immagine. Accade per la sequenza di Blue Boook. “È stato un incidente”, racconta la fotografa. “Ho finito le pellicole in bianco e nero mentre ero in cima a una torre. E mi sono resa conto con meraviglia che una pellicola per luce diurna utilizzata nei primi dieci minuti dopo il tramonto rende ogni cosa azzurra”. Primo passo.
Poi un altro errore. La fotografa racconta di come si è trovata per caso anche a fotografare macchine industriali. “Ero stata incaricata da «Fortune Magazine» di eseguire un ritratto del proprietario di un’azienda. Lui però non aveva tempo da dedicarmi. In modo un po’ paternalistico mi mandò a visitare le sue fabbriche. E lì restai sbalordita. (…) Non avevo mai visto 10.000 scooter ammassati in unico locale”. Anche in quel caso fu un incidente. Così nasce Museum of Machines, acquisito di recente dal Mast di Bologna, che le dedica una mostra curata da Urs Stahel. Secondo passo.
Poi c’è un altro aspetto da considerare: la narrazione. Dayanita Singh non realizza singole fotografie ma serie di immagini, storie. La forza dei suoi scatti non si annida nel punctum, non ci sono elementi che tengano abbarbicato lo sguardo a qualche vertigine di piacere visivo. Nulla di tutto ciò. Non conta il singolo fotogramma, ma la sequenza, il reticolo, la tessitura, l’insieme. Gli Storyboards sono un esempio. Si tratta di provini a contatto, sequenze che “hanno un andamento cinematografico ed evocano un senso di movimento”. Sono immagini sporche, imperfette, impulsive. Mostrano il margine di imprevedibilità che si nasconde dietro l’azione di scattare una fotografia e insieme la storia del soggetto fotografato nella sua integrità, come un testo scritto per la prima volta e mai sottoposto a correzioni.
E poi c’è la sequenza meglio riuscita dove confluiscono l’errore, il caso, la narrazione. Si intitola File Museum: museo degli archivi. Davanti agli occhi dello spettatore si materializzano stanze colme di scaffali, fogli affastellati, faldoni che occupano ogni centimetro di quelle stanze. Sono gli archivi governativi. La fotografa li mostra in tutta la loro potenza evocativa e coglie con i suoi scatti l’essenza del loro esistere: la materializzazione di tutte le narrazioni, di tutte le possibili immagini inglobate fra le loro pareti e la pulsione invisibile sottesa alla loro creazione.
Collezionare il mondo come antologia di immagini da “portarsi appresso, da accumulare, da conservare”, non era forse l’impulso insopprimibile che Susan Sontag indicava come atto costitutivo alla base dell’esigenza di fotografare? E fotografare gli archivi che contengono il mondo non significa forse razionalizzare l’inafferrabile complessità di quello stesso mondo, uno stato di disordine degli elementi, che la fotocamera, come un codice, ordina nel loro disordine? Si tratta di semplice possesso? È solo questo? No.
Per la Singh l’archivio è l’archeologia della società, in esso sono racchiuse storie, segreti, uomini. Ogni museo-archivio è un mondo a se stante che insieme costituisce un universo complesso: il lavoro, la produzione, la vita, la sua gestione quotidiana, l’archiviazione: Museum of Machines, Museum of Industrial Kitchen, Office Museum, Museum of Printing Press, Museum of Men e infine File Museum.
Nata nel 1961, Dayanita vive in India, a New Delhi. Ha studiato comunicazione visiva al National Institute of Design di Ahmedabad, specializzandosi poi in fotogiornalismo e fotografia documentaristica presso l’International Center of Photography di New York. Museum Bhavan, il suo ultimo grande progetto, è stato esposto alla Hayward Gallery di Londra nel 2013, al Museum für Moderne Kunst di Francoforte nel 2014, all’Art Institute di Chicago nel 2014 e al Kiran Nadar Museum of Art di New Delhi nel 2016. Le sue opere hanno fatto parte di numerose collettive tra cui la Biennale di Venezia del 2011 e del 2013 e Les Rencontres de la Photographie ad Arles nel 2004 e nel 2007. Dayanita Singh è autrice di undici libri. In uno di essi tutte le immagini contenute fungono anche da copertina, rendendo in tal modo ogni libro diverso dall’altro.
Ma a questo punto come si coniuga la presenza del caso, dell’errore, dell’incidente con l’idea dell’ordine e dell’archivio? A quale spazio discorsivo fa riferimento questo cortocircuito conoscitivo? Nel lavoro di Dayanita vi è un elemento che sfugge alla razionalità classificatoria tipica dell’idea di archivio e rivela la vertigine di una densità insospettata, indice di uno sguardo che si mostra come piega e spazio in divenire. Uno sguardo così potente da stravolgere anche lo spazio emblema della razionalità e dell’ordine.
Prendendosi gioco di ogni tipo di tassonomia, la fotografa conserva uno spazio immateriale tutto per sé, si diverte, gioca. Colloca le sue immagini in supporti che vengono modificati di volta in volta: armadi, paraventi, casse appese, si trasformano, vengono spostati, ricollocati, riassemblati nei diversi spazi espositivi dove la fotografa organizza le sue mostre. Foto-architetture, le definisce. Musei mobili che le permettono di conferire alle foto esposte un significato nuovo: la struttura che le contiene, si trasforma nello spazio di un gesto performativo, che apre a sua volta lo spazio chiuso del dispositivo a nuove configurazioni, un’installazione le cui parti non sono separabili dall’insieme ma sono integrate in modo assoluto.
La fotografia, oggetto immutabile ed emblema dell’immutabilità del referente, diventa “disseminazione e cambiamento” nello spazio creativo dell’installazione, così come l’archivio/museo, emblema della razionalità e dell’ansia classificatoria, è allo stesso tempo fermo e in movimento, espressione di due diversi flussi temporali: l’istante fissato sulla pellicola, l’indice, direbbero i semiologi, e la durata dell’installazione, come spazio discorsivo in cui si manifesta una nuova percezione dell’immagine fotografica. Nulla è mai uguale a se stesso. L’ordine cronologico viene stravolto come la sequenza narrativa.
Non è un caso che l’elemento tempo sia importante nell’opera di Dayanita Singh. I suoi lavori nascono e finiscono con le mostre e vengono reinventati nei nuovi spazi che li ospitano. I soggetti rappresentati rinascono ogni volta con un nuovo senso: la transitorietà destruttura il valore d’uso dell’oggetto raffigurato e il suo essere stato un oggetto di consumo, e ne propone un valore di impiego fantastico: meccanismi che sfuggono al controllo e si situano in uno spazio instabile, una sorta di incongruità che apre ad infiniti percorsi.
E non è poco. In un mondo dove tutto deve essere classificato, controllato, omologato, posseduto, consumato e poi mostrato, la modalità con cui Dayanita Singh inventa supporti mobili ed instabili, introduce un elemento anarchico e giocoso, imprevedibile, inclassificabile, nel cuore stesso della seduzione classificatoria e nel medium considerato lo strumento probatorio per eccellenza, ovvero la fotografia, liberandola da se stessa e dalla sua funzione.
Tutto torna. L’errore di Blue Book e il caso che irrompe nella scelta di fotografare la fabbrica, vero nucleo da cui si generano i Museum Machines, da spazio del margine, diviene uno spazio in cui la molteplicità delle forme e dei significati prende il sopravvento, quasi come se si fosse immersi in una sorta di “Museo Immaginario” per certi aspetti simile a quello di André Malraux. Non era forse quest’ultimo che affermava “la metamorfosi non è un incidente, è la vita stessa dell’opera d’arte”?
Questo vale anche per Dayanita Singh.
Mostra: Dayanita Singh, Museum of Machines, presso il Mast a Bologna, dal 12 ottobre all’8 gennaio 2017.