Il pluriverso esistenziale di Arundhati Roy e il nostro / Performare l’affettività
“Sono io, e volevo dirti che…”. “Ma qual è l’io che mi sta parlando? L’ermafrodita razionale o la donna dedita alla magia che c’è in te? L’omosessuale che è stato eterosessuale e ancora, ogni tanto, aspira ad esserlo? O forse mi parla l’anima tua indiana che, però, si è fusa con i pezzi di cultura occidentale giunti fino a qui? Magari è il tuo istinto materno che convive nel tuo corpo amputato, per cercare di diventare maschio involontario, a parlarmi! E io che ti ascolto, chi sono? Lo spaesato, il dis-locato, il dis-orientato, perso negli spazi irrespirabili di questa caotica città, che non sa se avrà acqua da bere domani, o il romantico che si perde a contemplare ciò che resta di un tramonto che è l’ombra dei tramonti che furono?”
Quando “io” si rivolge a se stesso o a un altro, si ascolta o osserva, si perde nel bricolage delle differenze, scoprendo che perdersi è, forse, l’unico modo per ritrovarsi, mentre scopre che “io” è una provvisoria metafora che indica qualcosa che non coincide mai con se stessa, una federazione di istanze. Ma quante differenze possiamo contenere in una sola vita? Quanta molteplicità possiamo condividere?
Ambiguità e immaginazione
“Un significante è una potenza performativa, vale a dire un segno che produce degli effetti sensibili sui corpi, che li costituisce, li trasforma e può anche distruggerli”, scrive Rocco Ronchi.
Quando a generare i significanti è l’immaginazione, la pluralità del possibile, la vitalità del vivente e la distinzione creativa dell’umano raggiungono vertici elevati.
Quei vertici li esprime bene Jan Fabre con la mostra: “My only nation is imagination”, presso lo Studio Trisorio di Napoli. Le basi neurofisiologiche della creatività sono connesse alle potenzialità dell’immaginazione, a creare un pluriverso illimitato di espressioni di noi stessi, al punto che l’immaginazione supera ogni realtà effettiva in una conversazione infinita.
È proprio una conversazione infinita, fatta di attraversamenti a più livelli di profondità, quella che scaturisce dalla prosa di Arundhati Roy, in Il Ministero della suprema felicità, Guanda, Milano 2017.
Plurale e molteplice, pur nella sua unità di stile, perfino nella forma letteraria Arundhati Roy conduce a un’esplorazione di un mondo che è cangiante e inatteso, eppure umanissimo, in ogni sua espressione, come ad esempio accade quando scrive:
“Ma la sua desolazione la proteggeva, levandosi intorno a lei in tutta la sua impotenza, finalmente liberata dai vincoli del protocollo sociale” (p. 76).
Una desolazione impotente che protegge e lo fa svincolandosi dal cappio delle norme sociali: ossimori e sottili e raffinate dimensioni del sentire che colgono aspetti inauditi dell’affettività dei protagonisti.
E ancora:
“Gradualmente la Fortezza della Desolazione si ridusse a una dimora di proporzioni gestibili. Si trasformò in una casa: nel luogo di una sofferenza prevedibile e confortante: tremenda, ma con una sua affidabilità. Gli uomini color zafferano rinfoderarono le spade, accantonarono i tridenti e tornarono docilmente alle loro occupazioni consuete: rispondere agli squilli dei campanelli, obbedire agli ordini, picchiare le mogli e far passare il tempo in attesa della prossima spedizione punitiva” (p. 81).
Maestra dell’ambiguità Arundhati Roy lima e increspa, stira e accartoccia, per rendere sentimenti al limite dell’esprimibilità con le parole. Al punto da far impallidire gli esiti dell’indagine sulla funzione dell’ambiguità nel linguaggio poetico, condotta circa novant’anni fa da William Empson in Seven types of Ambiguity (Chatto & Windus, London 1930) e pubblicata da Einaudi, Torino 1965 in Sette tipi di ambiguità. L’ambiguità, per essere tale, è da entrambe le parti, dalla parte dell’autore e da quella del lettore, perché da un lato il linguaggio del poeta contiene in sé presupposti linguistici, tematici e culturali generativi di molteplici significazioni disseminate per tutto il componimento, e dall’altro il lettore ne raccoglie gli effetti soggettivamente attraverso varie associazioni sollecitate dalla costituzione del testo e dalla sua grammatica.
L’ambiguità opera a più livelli, delineando così una tipologia vera e propria. Empson ne individua sette tipi e per scovarli suggerisce una close reading, una lettura ravvicinata capace di sondare l’opera nelle sue crepe, volontarie o inconsce, anzi preconsce. L’ambiguità diviene il termine dinamico della poesia e della narrazione, l’anima fuggevole del linguaggio. Empson si spinge ancora oltre, affermando che «l’operare dell’ambiguità è alla radice stessa della poesia». La polivalenza, ricorda Giorgio Melchiori nell’introduzione all’edizione italiana, è rappresentata da parole «avvolte da un alone di suggestività non tanto per la vivezza dell’immagine, ma per le varie possibilità di interpretazione che lasciano aperte» (p. 10). Polivalente quindi, con più valori significativi mimetizzati nelle parole.
Polivalenza plurale dei significati; pluralismo delle culture; variegata e irriducibile pluralità dei codici affettivi; dimensione cangiante delle identità e dei processi di individuazione: un mondo di mondi, un pluriverso di significati, così come è oggi la nostra cosmologia, nonostante le nostre resistenze e le nostre difese; questo diventa pagina dopo pagina il libro di Arundhati Roy.
Conosciamo parecchie dinamiche dei sistemi di risonanza fra il cervello-mente di chi legge e il cervello mente di chi scrive, per riconoscere all’ambiguità il suo valore generativo e la disposizione a rinviare sempre oltre una struttura di significato provvisoriamente e apparentemente consolidata. E tuttavia la creazione letteraria e poetica sopravanza e precede la complessità irriducibile dei significati che emergono riga per riga. Si tratta forse di una delle vie per riconoscere il valore artistico e poetico di un testo. Un po’ come ha sostenuto Roland Barthes:
«Le texte non plus n’est pas isotrope: les bords, la faille, sont imprévisibles» (nemmeno il testo è isotropo: i bordi, la crepa, sono imprevedibili).
Per performare l’affettività, insomma, ci vogliono un linguaggio e un contenuto in grado di farlo. D’altra parte possiamo essere guidati dalle parole alla comprensione di sfumature e finissimi accessi al nostro mondo interno, così come dalle parole, spesso dalle stesse parole, possiamo essere offesi.
È Judith Butler a domandarsi: “Quando affermiamo di essere state offese dalle parole, che tipo di affermazione facciamo? Attribuiamo alle parole la capacità di agire, il potere di offendere, e ci poniamo come obiettivo della loro traiettoria offensiva”. (…) “Dunque, esercitiamo la forza del linguaggio anche mentre cerchiamo di contrastarne la forza…..” [J. Butler, Parole che provocano. Per una politica del performativo, Raffello Cortina Editore, Milano 2010; ed. or. 1997; p. 1].
Siamo esseri linguistici, cioè esseri che hanno bisogno del linguaggio per poter essere, ed è la performatività uno dei caratteri precipui e distintivi del linguaggio, e di quello poetico in particolare.
J. Butler sostiene che “Il performativo agisce in modi che nessuna intenzione cosciente può determinare completamente” (nota 22; p. 238).
Sono proprio le spinte performative imprevedibili a distinguere i giochi linguistici e le montagne russe dei significati nel testo di Arundhati Roy.
Il linguaggio è vulnerabilità che abilita
L’ambiguità delle situazioni e del linguaggio per narrarle in Il ministero della suprema felicità sono connotate da un’elevata vulnerabilità, come del resto è la storia dei protagonisti. La corrispondenza fra contenuto e forma finisce per essere un altro dei tratti distintivi del romanzo. Accade così che il linguaggio vulnerabile si proponga come la via per abilitare identità plurali, contesti ibridi, mondi sovrapposti, personalità molteplici, che a loro volta sono caratterizzati dalla vulnerabilità. Il linguaggio, anche se offensivo, interpella e costituisce comunque un soggetto. Le differenze complesse delle identità in gioco assumono cittadinanza e sono riconosciute per il fatto stesso di essere interpellate. Scrive magistralmente J. Butler:
“Se rivolgersi a qualcuno significa interpellarlo, allora un nome che offende corre il rischio di inaugurare nel parlare un soggetto che finisce per usare il linguaggio al fine di opporsi a quel nome” (p. 3).
Mediante una tale torsione che decostruisce, performa e valorizza il conflitto generativo, è possibile rendersi conto che non veniamo all’esistenza prima di essere interpellati da qualcuno.
L’interpellazione costitutiva dei soggetti e dei mondi in cui ci porta Arundhati Roy finisce per creare una nuova cosmologia della contemporaneità, dove individui, luoghi, relazioni ambienti danno vita a una rappresentazione attualizzata e complessa del tempo in cui viviamo, con i suoi portati di estraniazione e di generatività, di esclusione e di appartenenza.
Oltre all’abilitazione di interi mondi c’è anche una riabilitazione di storie e tradizioni tradotte alla temperatura del presente, a partire dal fare i conti con aspetti critici della sua corruzione.
Come ha sostenuto Octavio Paz:
“Quando una società si corrompe, a imputridire per primo è il linguaggio. La critica della società inizia, quindi, con la grammatica e il ristabilimento dei significati”.
Arundathi Roy costruisce un labirinto che rispecchia il tempo in cui viviamo fino a fare del suo paese e della sua città una metafora del presente, in cui si incrociano corpi e spirito, sacro e profano, tradizioni millenarie e ipermodernità, violenza e dolcezza, magia e ragione, esoterismo e realismo, vita e morte, idee e dèi. La distanza culturale si neutralizza ed emergono affinità spirituali insospettabili, documentate anche dalla storia e dall’antropologia, come si può evincere, ad esempio, dagli studi di Ananda Coomaraswamy, La tenebra divina, ora pubblicato da Adelphi, Milano 2017.
La neutralizzazione del senso del tempo così come concepito da noi, insieme alla considerazione delle nostre vite alla stregua della spuma dell’onda, dove noi compariamo per un breve attimo, seppur reali, molteplici e complessi, per poi ricongiungerci per sempre con il flusso eterno, fanno da sfondo al disordine pervasivo, tra tragedie ambientali e irriducibili differenze soggettive, tra forme diffuse di iniziative popolari quasi del tutto sterili e strapotere dell’economia mondo globalizzata, che attraversa tutta la narrazione. Gli dei e le idee convivono nel disordine terreno e montano un gioco della vita tirato al limite, esasperato, eppure umanissimo, che crea le esistenze che affollano le storie.
Il compito della narrazione diventa pratico, e la ricerca linguistica dell’autrice sembra realizzarsi mentre chi legge diventa oggetto stesso della sua ricerca. Non è consentito leggere questo romanzo “dal di fuori”.
La parte di mondo dalla quale l’autrice scrive diventa il mondo in cui viviamo. Ne può essere prova un passaggio a p. 173 del Il ministero della suprema felicità.
“Nella nostra parte di mondo la normalità somiglia un po’ a un uovo in camicia: la sua superficie piatta nasconde nel profondo un tuorlo di inusitata violenza. È la nostra costante inquietudine per quella violenza, il ricordo dei suoi passati travagli e il timore per le sue manifestazioni future, a dettare le regole che permettono a un insieme di popoli variegato e complesso come il nostro di continuare a coesistere: che ci permettono di continuare a vivere insieme, tollerarci e, ogni tanto, ammazzarci l’un l’altro. Finché il nucleo tiene, finché il tuorlo non cola fuori, va tutto bene. Nei momenti di crisi essere lungimiranti aiuta”.
Ad agire nella costruzione delle storie di vita è un’entità che sembra amare l’incompletezza, la sospensione che tende al molteplice, il plurale e il provvisorio: “Se mi è consentito fare un’osservazione un po’ banale”, dice uno dei protagonisti, “forse è a questo che si riduce la vita, nella maggior parte dei casi: fare le prove per uno spettacolo che finisce per non concretizzarsi mai” (p.174).
Del resto, fin dal principio, la narrazione di Arundhati Roy ci conduce in un pluriverso di differenze che abitano nell’indifferenza. La presenza pervasiva degli esseri umani che pullulano da ogni lato si esprime in reti fittissime di conflitti, ambientali, politici, identitari, culturali, di interessi che travolgono tutto e tutto trascinano con sé. Il prologo che si conclude con la considerazione che: ”Non molti hanno notato la scomparsa dei nostri vecchi amici uccelli. C’erano così tante cose da pregustare”, propone un’atmosfera che attraverserà tutto il libro, con la descrizione del diclofenac che, mentre moltiplica esponenzialmente la produttività delle vacche in un’agricoltura che avvelena pianeta e cibo, uccide fino all’estinzione gli avvoltoi dorsobianco. Sarà poi Anjum, che nasce hijira, maschio e femmina, né maschio né femmina, per sempre irrisolta, a fare da guida in un mondo di vite disarticolate e irriducibili e in conflitti che giungono fino al genocidio, come quello del Pakistan, con un milione di morti, (“La carotide di Dio esplose sul nuovo confine tra India e Pakistan e un milione di persone morirono di odio” (p. 23); o come la tragedia del Bangladesh; fino a catastrofi derivanti da disastri fatti dall’uomo come Bophal; per giungere alla perenne e sanguinosa questione del Kashmir.
“L’ironia della situazione stava – e sta tuttora – nel fatto che se si mettessero quattro kashmiri in una stanza e si chiedesse loro di spiegare cosa intendono esattamente con il termine Azadi (libertà), di indicare con precisione i contorni ideologici e geografici del concetto, con ogni probabilità finirebbero per tagliarsi la gola a vicenda” (p. 207).
Ad agire è una passione condensata, distillata, cieca e futile come ogni passione. “Nelle occasioni (per fortuna di breve durata) in cui si scatenava pienamente aveva il potere di squarciare le mura della storia e della geografia, della ragione e della politica” (p. 207).
Le vite nascono nel massimo della precarietà, come Arundhati Roy racconta nel capitolo “Natività” e, inoltre, in uno scenario apocalittico, in cui l’abuso ambientale ha ridotto la vivibilità ai minimi termini.
“Dove un tempo c’erano foreste, ora sorgevano grattacieli e fabbriche d’acciaio, i fiumi venivano imbottigliati e venduti al supermercato, il pesce veniva inscatolato, le montagne crivellate dalle miniere e tramutate in missili scintillanti. Dighe gigantesche illuminavano le città come alberi di Natale. Tutti erano felici.
Lontano dalle luci della pubblicità, si evacuavano villaggi e città. A milioni di persone era imposto di trasferirsi, ma nessuno sapeva dove” (pp. 115 – 116).
La violazione delle vite, rappresentata con un’ampia varietà di forme di oppressione, violenza e torture, fino al limite della sostenibilità esistenziale, consente di creare lo spaccato di un mondo che è e che viene, la cui essenza è allo stesso tempo attraversata da una prorompente vitalità.
L’attualità del romanzo di Arundhati Roy, forse, tra l’altro, sta proprio nel fare del mondo indiano una metafora del nostro mondo. Un mondo che si esprime, oggi, all’insegna di quella che da più parti si definisce la forma VUCA (Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity). La vita in primo luogo, e le condizioni della vivibilità, sono sempre più volatili; affrontiamo un’incertezza che sempre più mostra la propria intensità diffusa, tanto da chiederci se esiste un mondo a venire (come fanno D. Danowski e E. Viveiros de Castro nel libro Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, nottetempo, Milano 2017, su cui ha scritto Pietro Barbetta); ci muoviamo in un contesto di complessità in cui tutto dipende da tutto ed è più volte intrecciato, con un senso labirintico che spesso è disorientante fino a immobilizzarci o farci sentire impotenti; ogni cosa si presenta a noi ambigua, tale per cui per essere ciò che è non è mai unitaria e lineare ma ammette più letture e posizioni che spesso sono l’una il contrario dell’altra e, d’altra parte, siamo consapevoli che la vitalità delle cose è strettamente connessa alla loro ambiguità.
Intanto, come in Il ministero della suprema felicità il pluralismo delle identità e delle culture, il bricolage delle vite, si muovono su uno scenario di decomposizione della vivibilità e degli ambienti della nostra vita.
L’intreccio tra storia umana e storia naturale si è sempre più intensificato, mano a mano che la presenza pervasiva della specie aumentava. Come ha scritto Dipesh Chakrabarty: “È solo in tempi molto recenti che la distinzione tra storia umana e storia naturale […] ha iniziato a crollare” (in The Climate of History: four Theses, Critical Inquiry, 35/2009; p. 207). La domanda che il pluriverso antropologico e ambientale di Arundhati Roy ci pone è se essere attivamente coscienti del proprio ruolo ecologico è necessariamente sinonimo di essere attivamente capaci di modificare questo ruolo.
Forse esiste sempre una possibilità ulteriore se nell’ultima pagina del libro risonanza affettiva e relazionale e contesto della vita si fondono in una scena come la seguente:
“‘Mammina, pipì!’. Anjum la posò a terra sotto un lampione. La bambina pisciò con gli occhi fissi sulla madre, e poi sollevò il sederino per meravigliarsi del cielo notturno, delle stelle e della città millenaria riflessi nella minuscola pozza che aveva prodotto. Anjum la prese in braccio, la baciò e la ricondusse a casa” (p. 486).