Terra, la guerra, la luna e le fragili meraviglie
Magnifico spazio e bellissimo progetto quelli delle Gallerie d’Italia a Torino, appena inaugurate. Ma l’accoppiata delle due mostre d’esordio nasconde, sotto l’apparente correttezza politica, una perfida ambiguità. Da una parte ci sono le 150 fotografie di Paolo Pellegrin che vanno sotto il titolo di La fragile meraviglia: una sorta di réportage attraverso i cinque continenti sullo stato del pianeta dal punto di vista degli elementi e della vita non umana. Dall’altra c’è Dalla guerra alla luna 1945-1969. È il primo assaggio di quella che sarà la ricognizione sistematica dell’archivio della Publifoto, acquistato proprio dalla Fondazione Intesa San Paolo: in questo caso, una sorta di passaggio a volo d’angelo sull’Italia della ricostruzione, documentata dagli scatti giornalistici della famosa agenzia fondata a Milano nel 1937 da Vincenzo Carrese.
Uno passa da una mostra all’altra e ne esce con una sensazione e un pensiero. La sensazione, comune alle due mostre, è una forma di empatia verso il mondo in quanto tale. Da una parte c’è la bellezza minacciata della natura nella sua forma primitiva, la meraviglia effettiva nei confronti della fragile potenza del cosmo raccontata negli scatti di Pellegrin.
Dall’altra, si apre sui volti dei visitatori un sorriso di nostalgia davanti alle immagini delle misere “coree” italiane del dopoguerra mescolate all’inevitabile Mike Bongiorno sul set dei primi quiz RAI. Una sorta di “come eravamo” che ha lo stesso gusto di esotismo temporale che hanno, dal punto di vista geografico, le fotografie di Pellegrin. Purtroppo, il pensiero razionale che poi segue questo stato di soddisfazione estetica, è crudo e spietato: le due mostre raccontano realtà che sono la prima l’altra faccia della medaglia della seconda. Vale a dire: se il pianeta è ridotto a quella cosa ferita e malata raccontata da Pellegrin è proprio perché l’uomo l’ha modificato con l’entusiasmo del progresso che traspare dalle foto della rinascita italiana. È come se si incrociassero due tempi: quello che si misura a milioni di anni, tipico della cosmologia; e quello che si misura in migliaia, dove si svolge la storia dell’umanità. E quest’incrocio non sembra produrre, alla lunga (in termini umani), un buon risultato.
Un’altra interessante comparazione è quella prodotta da una riflessione sulla forma. Pellegrin, davanti alla natura, mette in campo una visione tutt’altro che naturalistica. Nessuna toccante rappresentazione di animali nella savana in stile National Geographic, né spettacolari eruzioni di vulcani. Non che non ci siano gli uni e gli altri. Ma sono sempre visti in maniera straniante: verrebbe da dire che sono ripresi per un occhio non umano. C’è un bufalo che corre nel deserto del Kalahari: ma è una macchia sfocata nella distanza. C’è un gorilla stravaccato nella foresta del Congo in una grande stampa che occupa un’intera parete: eppure lo vedi solo in un secondo momento, perché l’occhio si perde nell’intrico di rami e liane. E in generale gli animali, quando ci sono, non sembrano gli oggetti dello scatto, ma la componente mobile di un contesto più ampio, che non so se chiamerei “armonico” e tantomeno arcadico: è un mondo di sopravvivenza, perché la natura, leopardianamente, è per tutti matrigna, e non madre amorosa. Quanto ai vulcani e ai fenomeni fisici in generale, Pellegrin li guarda come espressione di forma e tensione, come elementi in senso materiale, all’altro capo dello spettro della tradizione del paesaggio o del panorama. L’idea che stiamo guardando la natura attraverso il processo meccanico della fotografia è rinforzata dai vari supporti usati per la stampa (vetro, materiali trasparenti…) e dalle tecniche di esposizione (formidabili gli scatti nella foresta del Costarica).
I fotografi di Publifoto, al contrario, non vanno in cerca della forma, se non sotto specie – talvolta – della “bella inquadratura”. Loro hanno storie da raccontare, vivono nel divenire sociale, non nell’eterno ripetersi del tempo naturale. Sono, più che degli osservatori, dei documentatori. Ogni loro scatto ha la funzione che avevano i film nei cineforum degli anni sessanta e settanta: motivare un dibattito sociale. Il tema può essere la signora aristocratica che attraversa via Montenapoleone appena uscita dal parrucchiere; un lavoratore delle risaie a Vigevano; le concorrenti di Miss Italia; i residenti di una baracca alla periferia di Milano…
Sono foto “rubate”, che si autoingannano nell’illusione di poter cogliere la vita “così com’è”, ambiguo pilastro dell’idea stessa di fotogiornalismo. Ecco così ritratto, con una sorta di complicità da parte dei soggetti, un popolo che si mette in scena come gli piace immaginarsi: povero ma bello, ottimista e sorridente anche nelle ristrettezze, al lavoro per costruire motociclette, radio, autostrade con una sconfinata fiducia nel futuro. Non è un caso che molti scatti siano stati realizzati in cantieri, in concorsi di bellezza, in studi televisivi o su set del cinema. Forse è proprio quello il momento in cui “realtà” e “finzione” cominciano a scambiarsi di ruolo, in un processo che arriva fino ad oggi: un percorso che inizia col neorealismo di Rossellini e che finisce con i “reality” della tv.
In questa sorta di festa della spensieratezza, c’è però una fotografia disturbante: l’interno di una casa in Sicilia (se tale si può chiamare). Vi sono ritratti una madre e due figli, seduti su un misero letto. Sono sporchi, ma si capisce che tentano di vestirsi “bene” per l’occasione. Si intuisce anche che la casa non si estende molto oltre quell’angolo col letto, anzi è più una grotta che una vera costruzione. E lo spazio è condiviso con un maiale, anche lui in posa davanti al talamo. All’improvviso il tempo della storia umana si incrocia con quello dell’evoluzione darwiniana evocato da Pellegrin. Ci coglie una rivelazione: non siamo altro che una variante zoologica più adattabile e fortunata di altre e, nel dibattito sulla crisi climatica attualmente in corso, scontiamo un peccato originale. Un peccato iconicamente rappresentato da una storiella minima che ho letto proprio il giorno che mi sono recato in mostra. Nella bergamasca, un topo – mangiando il rivestimento di alcuni cavi in una cabina dell’ENEL – ha causato un black out di due ore in cinque paesi.
Niente di strano; se non fosse che la ragione per cui questi incidenti succedono sempre più spesso è data dal fatto che la plastica dei rivestimenti, in ossequio alle nuove direttive, è stata sostituita con materiali recuperabili derivati dalla soia. I topi non hanno mai mangiato i cavi per nutrirsi: lo fanno per usare i denti che altrimenti crescerebbero troppo. Ma oggi hanno un motivo in più, dato che il derivato della soia sembra di loro gradimento. Il re è nudo. Ci preoccupiamo di salvare il pianeta, senza capire che il pianeta non è una controparte, ma un insieme di relazioni ed equilibri. Dentro i quali l’ipocrisia maggiore è quella di dire che ci si preoccupa della Terra, quando in realtà si tratta solo della sopravvivenza della variante homo sapiens. Ancora una volta, ci mettiamo al centro del mondo, quando in realtà il pianeta si salverà benissimo da solo anche senza di noi. In questo senso le fotografie di Pellegrin, vuote di esseri umani, sono uno stimolante esercizio di umiltà; se non, ahinoi, una sorta di profezia.