Ravel, dandy scettico
«Ho composto solo un capolavoro, il Boléro. Sfortunatamente, lì dentro non c’è musica». Ironia e autoironia si mescolano in questa caustica battuta, risalente probabilmente ai primi Anni Trenta, una delle tante che costellano la biografia di Maurice Ravel. Dal 1928, quando la partitura fu completata, la fama già notevole del compositore si era grandemente allargata grazie a questa pagina sinfonica anomala, nata come partitura per balletto ma ben presto svincolata dalle coreografie, trascinante e sconcertante in pari misura. Si tratta di un’ossessione ritmica di congelato esotismo iberico, dentro a un elementare tema bipartito, praticamente sempre uguale a sé stesso, animato solo dai successivi ingressi delle diverse voci orchestrali che un po’ alla volta lo “indossano”, lungo un estenuante “crescendo”. Sempre uguale l’armonia: la tonalità di Do maggiore non cambia, salvo un passaggio a Mi maggiore a poche battute dalla fine. La chiusa è caratterizzata da una dissonanza che ha un effetto quasi traumatico dopo l’effetto ipnotico, o di esasperazione, indotto da tutto quello che precede. Come avrebbe scritto Claude Levi-Strauss oltre quarant’anni dopo (L’homme nu, Parigi 1971), «La formidabile dissonanza che occupa la seconda metà della penultima battuta […] significa che ormai niente ha più importanza, del timbro, del ritmo, della tonalità o della melodia». Il Boléro come annuncio della modernità in musica, dunque. Ben oltre la voga allora corrente del neoclassicismo.
Anche se grazie a questa musica diventò ricco – ma era sempre vissuto con agio del suo lavoro, fra commissioni, diritti d’autore, proventi delle edizioni, cachet per la sua vasta attività concertistica internazionale – nei suoi ultimi anni il compositore francese avrebbe perfino affermato di considerarla una sorta di burla nei confronti del pubblico e degli addetti ai lavori. Il primo non se n’è mai dato per inteso, e il suo favore ha fatto sì che questa pagina sia stabilmente nel repertorio di tutte le orchestre sinfoniche del mondo fin dal suo primo apparire. I secondi sono meno entusiasti: il giudizio prevalente è che si tratti più che altro di un’abile invenzione di notevole effetto.

Nonostante il suo tipico “understatement”, Ravel non esitò a difendere il Boléro dagli interpreti che gli sembravano inattendibili, fino a una clamorosa rottura con Arturo Toscanini. L’incidente avvenne il 4 maggio 1930, quando il celebre direttore presentò la recentissima partitura all’Opéra di Parigi con la New York Philharmonic. Dopo l’esecuzione, il compositore si recò nei camerini e ostentatamente cavò di tasca un orologio. «Un minuto e mezzo troppo veloce», disse al maestro. «Era l’unico modo per salvare il pezzo», fu la replica. Per gli appassionati e per chi vuole cercare sul web, le esecuzioni “alla Ravel” (sulla scorta anche di una archeologica registrazione da lui diretta) devono avvicinarsi ai 16 minuti. Sull’argomento, il compositore non disdegnava il paradosso. Con un altro grande del podio come Wilhelm Furtwängler, per esempio, sostenne che eseguire questa musica con un tempo troppo rapido la fa sembrare più lunga. Singolare, ma ha ragione il biografo raveliano Marcel Marnat: «Ciascuno porta in sé un Boléro personale».
Nato 150 anni fa – il 7 marzo 1875 – Ravel era figlio di un brillante ingegnere svizzero con radici savoiarde; sua madre era di origini basche. Quando aveva pochi mesi la famiglia si trasferì a Parigi lasciando Ciboure, il paesino natìo affacciato sul Golfo di Biscaglia, a pochi chilometri dal confine spagnolo nel Paese Basco francese. Nella capitale il musicista trascorse la giovinezza immerso nel clima delle straordinarie trasformazioni della musica e in generale dell’arte all’alba del XX secolo. Erano gli anni della svolta drammaturgica antiwagneriana di Debussy, delle provocazioni di Satie. Presto i Ballets russes di Sergej Djagilev avrebbero fatto scandalo, lanciando Stravinskij. Di questo clima febbrile Ravel fu protagonista in maniera distaccata ed equilibrata, mai avanguardistica in senso plateale, se non in occasione di un paio di concerti nei quali le sue musiche ebbero accoglienze contestate. In particolare, nonostante l’assoluta devozione per Mallarmé e la sua visionaria poesia, ben presto tenne ad affermare il suo distacco dal Simbolismo, anche per marcare la propria differenza rispetto a Debussy. Una risposta all’equivoco critico, duro a morire ancora oggi, che ne fa semplicisticamente un epigono dell’autore del Pelléas.

Fin dall’inizio del suo percorso, frequentò da protagonista lo stimolante e raffinato contesto sociale dell’alta cultura, affermando la propria immagine come quella di un dandy dai gusti sofisticati, sempre elegantissimo nella sua caratteristica figura minuta (era piccolo di statura e di corporatura esile). Seguì i corsi del Conservatorio di Parigi senza brillare e fu allievo di Gabriel Fauré per la composizione. Fra il 1900 e il 1905 partecipò per quattro volte al Prix de Rome, passaggio quasi obbligato per la notorietà in campo musicale, che prima di lui aveva laureato musicisti come Gounod, Bizet, Massenet e Debussy (e che fra l’altro valeva un notevole assegno di mantenimento) e fu sempre escluso. All’ultima bocciatura era già fra i musicisti più in vista di Parigi e la sua estromissione innescò una polemica campagna di stampa: il direttore del Conservatorio finì per dimettersi.
In quei primi anni del Novecento viveva ancora con la famiglia: continuò a farlo dopo la scomparsa del padre, nel 1908, e fino alla morte della madre, avvenuta nel 1917. Comprò casa solo quattro anni più tardi: dal 1921 abitò a “Le Belvédère”, curiosa dimora dalle stanze minuscole a Montfort-l’Amaury, piccolo centro a una cinquantina di chilometri a ovest di Parigi. Qui componeva e teneva salotto, senza naturalmente disdegnare frequentissime puntate nella capitale. Da qui – come racconta Jean Echenoz in un romanzo breve di straordinaria sottigliezza psicologica (Ravel, Adelphi, 2007) – partiva per i suoi viaggi di “stella” della musica. Era un’attività molto intensa: tournée concertistiche in tutta Europa e nei primi mesi del 1928 – trionfalmente – anche negli Stati Uniti. Gli impegni non gli impedivano di trovare il tempo per compiere vacanze esotiche (Spagna, Marocco) o tornare nei luoghi dov’era nato, molto amati. Non si sposò mai, nessuna biografia fa menzione di qualche relazione sentimentale, fu sempre circondato da numerosi e devoti amici-estimatori, uomini e donne. La vicinanza psicologica al mondo dell’infanzia e la passione per ogni tipo di giocattolo erano tratti salienti della sua personalità, del resto rispecchiate in due fra le sue composizioni più importanti, i brani per pianoforte a quattro mani di Ma mère l’oye (scritti nel 1908 a partire da alcune favole di Perrault e altri autori, pubblicati nel 1910, trascritti per orchestra nel 1911) e la sua seconda opera, L’enfant et les sortilèges, su libretto di Colette, “fantasia lirica” composta fra il 1920 e il 1925 e andata in scena un secolo fa a Montecarlo.

Morì a 62 anni, il 28 dicembre 1937, a causa di una drammatica malattia neurologica che negli ultimi anni lo aveva progressivamente ridotto all’afasia e all’aprassia. Non riusciva più a parlare, non era in grado di suonare il pianoforte, non poteva scrivere, le normali attività gli erano impedite. Sottoposto a un inutile intervento chirurgico al cervello, si spense pochi giorni dopo. Fu sepolto a Levallois, nella tomba del padre e della madre.
Fra i generi musicali, l’unico al quale Ravel si è dedicato continuativamente lungo l’intero arco della sua vicenda creativa è quello vocale. Una melodia per voce e pianoforte è la sua prima composizione nota, risalente al 1893 (Ballade de la Reine morte d’aimer); Don Quichotte à Dulcinée per voce e orchestra da Cervantes è l’ultima musica completata prima della malattia, nel 1932 (la pubblicazione seguì nel ’34). Si tratta di tre brani innervati da ritmi di danza esotici, l’indiana “quajira”, la basca “zortzico”, la “jota” aragonese: sono l’ultima apparizione della ricerca stilistica che costituisce larga parte dell’originalità di Ravel. Proprio la continuità della scrittura per la voce fa sì che in questa parte del suo catalogo si trovino comunque i segni più evidenti del modernismo scettico di cui Ravel fu protagonista, lontano com’era da ogni rigore ideologico e comunque quasi “condizionato” dalla facilità di un’invenzione capace di eleganze melodiche e coloristiche sontuose.

Un ruolo di rottura, ad esempio, ebbero le Histoires naturelles, presentate a Parigi nel 1907, con l’adozione come testo (scelta che parve ai più provocatoria) delle prose zoologiche di Jules Renard e quindi l’abbandono del contesto poetico, con la sua complessità metrica, a favore di una declamazione molto più diretta. Sei anni più tardi, nel fatidico 1913 dello scandalo del Sacre (Ravel era alla prima e si schierò tra i favorevoli), l’autore francese toccava forse il punto più vicino all’avanguardia. Nei Trois poèmes de Mallarmé, la linea melodica vocale, liberissima, rende in qualche modo omaggio allo “sprechgesang”, al canto parlato ideato da Schoenberg, il cui Pierrot Lunaire, presentato l’anno prima, non era stato ancora sentito da Ravel, ma gli era stato “raccontato” da Stravinskij. E l’influsso si nota anche nello strumentale composito scelto per questi brani, costituto da ottavino, flauto, clarinetto, clarinetto basso, quartetto d’archi e pianoforte.
Infine, la “fiction esotica” del poeta creolo settecentesco Evariste Parny, che non era mai andato in Madagascar (come sosteneva), a raccogliere le sue Chansons madécasses, fornì a Ravel nel 1925-26 l’occasione di un’altra sofisticata e decisiva incursione nel mondo della vocalità. La sua cifra è un esotismo «lascivo, guerriero e indolente», come ha scritto Claudio Casini (Maurice Ravel, Edizioni Studio Tesi, 1989). Qualche anno più tardi, il compositore avrebbe rivendicato, in una conferenza tenuta a Houston durante la tournée americana, la complessità e l’originalità di quel lavoro per voce, pianoforte, violoncello e flauto, forse il punto più avanzato del suo linguaggio musicale: «Sono conscio del fatto che le mie Chanson Madécasses non sono affatto schoenberghiane, ma non so se sarei stato capace di scriverle senza Schoenberg».
Fra gli altri generi, i lavori per pianoforte e quelli di musica da camera sono in larga parte disposti cronologicamente intorno al baratro della Grande Guerra, alla quale Ravel volle partecipare nonostante fosse già stato esonerato dalla leva militare quando aveva vent’anni a causa della sua esangue complessione fisica. Brigando con le sue conoscenze, ottenne nel 1915 l’arruolamento come conducente di camion, e nel 1916 ebbe modo di vivere da vicino la terrificante tragedia, essendo stato inviato nella zona di Verdun.

Molte composizioni del suo catalogo pianistico, fra l’altro, sono state in seguito trascritte dallo stesso autore per orchestra e spesso sono diventate più popolari in questa seconda versione, grazie al sapiente ampliamento delle suggestioni espressive nel gioco timbrico. Una specialità, quella degli “arrangiamenti”, che prediligeva e nella quale eccelleva, come dimostra la sua trascrizione dei Quadri di un’esposizione di Musorgskij (1922), nati per pianoforte ma oggi molto più eseguiti nella sua versione sinfonica. Dopo avere dato prova della sua abilità nel maneggiare l’orchestra con la popolare Rapsodie espagnole (1907), la prima importante trascrizione di sé stesso fu realizzata da Ravel con la Pavane pour une Enfante défunte (1899, nel 1910 per orchestra), il brano che aveva sancito la sua affermazione pubblica al passaggio del secolo, precoce esempio di “esotismo storico”, secondo la definizione di Casini, così anticipato ma subito sterilizzato in supremo manierismo quello che di lì a una ventina d’anni sarebbe stato il movimento neoclassico. All’altro capo della produzione pianistica rispecchiata nell’orchestra sta Le tombeau de Couperin, Suite di danze (Forlane, Rigaudon, Menuet) e di movimenti all’antica (Preludio, Toccata, Fuga) messa a punto durante la guerra – ciascun movimento dedicato a un commilitone morto durante il conflitto. Anche le Valses nobles et sentimentales , scritte e pubblicate nel 1911 avendo come ideale sfondo per l’ispirazione la Vienna di Schubert, diventeranno ben presto brano orchestrale (1912), cosicché le composizioni dedicate solo alla tastiera (per tacere dei pezzi minori) si riducono a poche partiture peraltro molto diverse fra loro: le seduzioni pittoriche di Jeux d’eau (1901), le evocazioni esotico-naturalistiche dei Miroirs (1904), per le quali già il titolo fornisce una sorta di rifrazione descrittiva al quadrato (due dei cinque brani, Una barque sur l’océan e Alborada del gracioso sono comunque pure stati trascritti per orchestra), le astrazioni classicistiche della Sonatine in tre movimenti (1905) e soprattutto Gaspard de la nuit (1908).

È questo il grande capolavoro per pianoforte di Ravel: una sorta di visione sonora che prende le mosse da tre brani dell’omonimo poema in prosa del semi-sconosciuto poeta “maudit” del primo Ottocento Aloysius Bertrand, prediletto da Baudelaire e Mallarmé. Il trittico è costituito dall’inquietante “racconto” della seduzione tentata da una misteriosa creatura marina (Ondine) e dalle allusioni demoniache e orrorifiche che attraversano Le gibet (un livido paesaggio con forca e impiccato penzolante) e Scarbo (dedicato alle spaventose apparizioni di una sinistra figura di nano). È il culmine della fase decadentista di Ravel, elaborata anche sulla base della sempre ammirata poetica di Edgar Allan Poe. Ma ne è anche in certo modo il superamento: da un lato per la forza di un virtuosismo trascendentale che gioca sulla sbalorditiva multiformità del tocco e quindi del suono, prima ancora che sulla complessità digitale, peraltro ardua come poche nella letteratura pianistica fra Ottocento e Novecento; dall’altro per la tensione drammatica legata all’iterazione ossessiva di vari elementi della frase, oltre che per l’insistente tendenza armonica verso tonalità lontane da quella di base, fino ai confini della tonalità stessa. L’inquietudine “meccanica” in chiave ossessiva delle ripetizioni è una cifra stilistica fra le più caratteristiche del linguaggio raveliano, in quel periodo evidente anche in un contesto totalmente diverso come l’opera buffa L’heure espagnole (1907), commedia salace ambientata nella bottega di un orologiaio. Una tendenza destinata a coagularsi emblematicamente vent’anni più tardi nel Boléro.
Ravel fu molto attivo anche nella musica destinata alla danza: a Parigi, grazie ai Ballets Russes quella era la vetrina del modernismo. Al genere appartengono Daphnis et Chloé, sontuosa “Sinfonia coreografica” in scena un anno prima del Sacre, nel giugno del 1912, e La Valse (1919-20), che segnò la sua rottura con Djagilev per il rifiuto dell’impresario di realizzare la coreografia.

Quanto alle composizioni da camera, anch’esse non di rado condividono la sensibilità per le musiche “altre”, quelle cosiddette esotiche, che rappresentano la cifra creative più autenticamente moderna di Ravel, qualsiasi genere abbia affrontato. Si parla di ritmi e melodie “regionali” ma anche della personale rivisitazione dell’ancor giovanissimo jazz di provenienza americana, già scoperto e acclamato nella Parigi di inizio Anni Venti. Un sottile filo rosso concettuale e ideativo collega, ad esempio, il popolare Trio con pianoforte (1914), ricco di sguardi altrove, con la seducente disinvoltura della Sonata per violino e pianoforte, un lavoro cominciato nel 1923 e finito nel 1926, perché – raccontava Ravel – gli ci erano voluti tre anni per togliere “le note di troppo”. Nel Trio, il secondo movimento, Pantoum, fa esplicito riferimento a schemi metrici della poesia malese accolti dalla lirica più avanzata in Francia, mentre il primo e l’ultimo movimento sono legati al folclore basco. Nella Sonata, il secondo movimento è un Blues. Non certo una novità, allora a Parigi, dove Darius Milhaud e i Sei si erano da tempo avvicinati alla musica afroamericana. Ma qui l’originalità è nella combinazione colto-popolare mediata e risolta in un linguaggio personalissimo, che rende la maniera occasione creativa unica.
È quello che accadrà nei due Concerti per pianoforte, nati quasi insieme all’inizio degli Anni Trenta. In quello per la mano sinistra (lo aveva commissionato il pianista mutilato di guerra Paul Wittgenstein, fratello del filosofo), le allusioni jazz dentro la sfida virtuosistica sono molto più evidenti di quelle che appaiono nel meraviglioso Concerto in Sol. In quest’ultimo, però si assiste alla magica metamorfosi musicale in ragione della quale i riferimenti classici dichiarati dallo stresso compositore (da Mozart a Saint-Saëns) si fondono con quelli esotici, afroamericani specialmente nell’armonia, e generano un linguaggio nuovo. Moderno perché soggettivo: consapevole delle epoche e degli stili che furono, ma capace di reinventarli, di superarli e di renderli universali.
In copertina, Ravel al pianoforte negli ultimi anni.
