Animalità: nostalgia delle origini o concetto-progetto?
Straniamento è parola filosofica. Anzi, per certi aspetti può essere considerata cifra essenziale dell'atteggiamento filosofico. Si filosofa sul serio solo se si opera un'azione straniante – rispetto al mondo, al senso comune, alla doxa, alle tradizioni, all'autorità, alle credenze. Di più: solo quando ci si torce fino al limite estremo del domandare – perché qualcosa e non il nulla? perché sono qui? chi sono? donde viene quel chi che domanda? – solo allora l'avventura filosofica assumerà un senso (drammatico) di vita vissuta.
Di questo tipo di torsioni è costellata la storia della filosofia (dalla periagoghé platonica all'epoché fenomenologica), ma soltanto di recente lo straniamento ha potuto raggiungere ulteriori livelli di consapevolezza e drammaticità. La “detective-story” filosofica che Jim Holt conduce con arguzia nella propria indagine ontologica intitolata Perché il mondo esiste? [di cui abbiamo scritto qui NdR], non sarebbe forse stata possibile senza la cosmologia novecentesca (ma anche senza le turbe metafisiche di Heidegger); ancor più il nostro chiederci che cosa siamo in quanto umani deve parecchio alla biologia e al recente fiorire delle neuroscienze. Rimane il fatto che è solo la filosofia, proprio per la congenita attitudine di cui parlavo in apertura, a sapersi in ultima analisi avventurare, senza tema di perdersi, sulle strade stranianti del domandare più radicale.
A proposito della domanda circa la natura umana – o, ad esser precisi, se una cosa come la natura umana esista – molti interessanti spunti ci dà il saggio di Felice Cimatti Filosofia dell'animalità. Fin nel titolo il progetto è ambizioso: si tratta, cioè, di andare alla radice di quel concetto sfuggente e quantomai ambiguo che è... stavo per scrivere l'humanitas, ma non avrei sbagliato di molto, se è vero che l'umano si costituisce proprio sulla negazione (mancanza, rimozione, amputazione) di ciò che è animale, ovvero di ciò che gli esseri umani vengono considerando altro-da-sé nella maniera più drastica e però prossima.
Non seguirò puntualmente il testo di Cimatti, ma solo alcuni suoi ragionamenti, per cercare di mostrare come il nodo sia ancora quello spinozista (e irrisolto) della critica (impossibile ma necessaria) all'antropocentrismo – sullo sfondo di una etica immanente, fondata cioè sul diritto assoluto all'esistenza di ogni ente, modo, essente che afferisce la sostanza.
Tolta infatti l'animalità – che parrebbe l'architrave del ragionamento – molti dei concetti-chiave utilizzati da Cimatti sono riconducibili proprio all'Etica di Spinoza: la già citata critica all'antropocentrismo, il rapporto-opposizione tra corpo e mente (o “io”), l'immanenza, l'immaginazione – così come un retroterra interpretativo imprescindibile è quello del pensiero di Deleuze.
Ma procediamo con ordine, e cominciamo dalla nostra amica zecca.
Ormai si potrebbe costruire una vera e propria bibliografia (e fenomenologia) della zecca: quanto più questo animale appare insulso (oltre che fastidioso), tanto più invece assurge alla gloria di astrusi ragionamenti di scienziati e filosofi. Dopo lo zoologo Uexküll e la celebre distinzione tra ambiente e mondo fatta propria anche da Heidegger, Ixodes ricinus è entrata di diritto nella riflessione estrema e straniante circa la nostra natura umano-animale e il rapporto tra natura e cultura, bios e nous.
È proprio l'osservazione del comportamento dell'animale-zecca a determinare di riflesso la tesi che “l'uomo è quell'animale in grado di vedere l'animalità degli altri animali, e quindi di prendere le distanze dalla propria stessa animalità” (Cimatti, 15): l'uomo, cioè, non vive in un ambiente, immerso o schiacciato in una determinazione necessitante (la ricerca unidirezionale di un liquido ad una determinata temperatura che si trova sotto la pelle di determinati mammiferi), egli vive semmai nei “dintorni” degli ambienti, “tra” l'uno e l'altro.
La tesi che qui Cimatti discute criticamente è abbastanza classica, e non nuovissima: già Plessner aveva rilevato la nostra contraddittorietà costitutiva, la “posizionalità eccentrica” per la quale noi siamo quell'ente (vivente, specie, o come si preferisce) in grado di sdoppiarsi in un corpo tra gli altri corpi (Körper) ed un soggetto che è il proprio corpo (Leib): ma “io” in ultima analisi ha un corpo, non lo è, “io” è anzi essenzialmente ciò che prende le distanze dal proprio corpo – e, via via, da tutti gli enti, nominandoli e dominandoli. Atto descrittivo e prescrittivo già narrato originariamente nel libro della Genesi.
Nell'evoluzione della specie umana si attiva così una vera e proprio macchina antropogenica che nel costruire un piano trascendente (fatto di “io”, di super-io, di linguaggio, di simboli, di “cultura” – quella che con metafora efficace, anche se con intenzione irridente, l'antropofilosofo Clifford Geertz definisce “glassa”), finisce per seppellire in una parte inconscia di sé (nei molti strati della “torta”) buona parte della propria materialità esistenziale: il corpo aderente alla vita, che viene ri-costruito (magari nostalgicamente) proprio attraverso il dispositivo dell'animalità.
Altro elemento importante dell'analisi di Cimatti è ovviamente quello che attiene alla nostra costituzione linguistica: noi siamo fatti della stessa sostanza di cui è fatta la lingua, anzi noi siamo linguaggio – ed è proprio questa la faglia di maggior divaricazione dall'animalità, ciò che ci consente di non aderire alla natura e alle cose, di dissociarci dalla vita guardandola dall'alto, da un piano trascendente.
Ma è paradossalmente attraverso il linguaggio che sembra emergere il risentimento per l'immediatezza perduta, come ci rivela l'esperienza dello sguardo dell'animale (ma persino della pietra) e la nudità che questo sguardo tradisce: tale passaggio del ragionamento di Cimatti (che si serve soprattutto dell'analisi di Lacan e che gli fa chiedere ironicamente “che c'è che non va nella pietra?”) non può non richiamare quella straordinaria esperienza programmaticamente straniante, che è la poesia di Wislawa Szymborka – di nuovo di linguaggio si tratta, per quanto poetico, che è però in grado di mettere a nudo proprio questo squilibrio drammatico tra un “io” distaccato e la consustanzialità con tutti gli altri esseri, animali, vegetali, minerali – compresa la pietra (l'ente senza mondo, secondo la gerarchia ontologico-esistenziale stabilita da Heidegger, cui segue l'animale, povero di mondo, con l'uomo in cima, che invece del mondo è formatore), pietra che però ha da dire la sua in proposito:
Busso alla porta della pietra.
– Sono io fammi entrare.
Non cerco in te un rifugio per l’eternità.
Non sono infelice.
Non sono senza casa.
Il mio mondo è degno di ritorno.
Entrerò ed uscirò a mani vuote.
E come prova d’esserci davvero stata
porterò solo parole,
a cui nessuno presterà fede.
– Non entrerai – dice la pietra. –
Ti manca il senso del partecipare.
Un dire ovviamente paradossale, visto che è pur sempre il dire umano ad estorcere un'impossibile parola a enti o viventi che ne sono costitutivamente privi – e il termine “privi” è modalità essenziale di questo movimento di scissione/gerarchizzazione (ma sull'antropocentrismo torneremo).
Su queste tesi al limite estremo del dire e definire – tesi quantomai tòrte e stranianti, effetti di drastica se non violenta epochizzazione – si era già esercitato Giorgio Agamben in un breve testo, e però densissimo di spunti teoretici, L'aperto, il cui titolo rinvia alla riflessione di Heidegger sull'ottava delle Elegie duinesi di Rilke, dove è di nuovo il linguaggio poetico (che più di quello scientifico e forse perfino di quello filosofico, sembra adeguato a svelare le scissioni e gli spargimenti di sangue che le parole nascondono) a indicare la linea divisoria tra l'umano e l'animale.
Agamben identifica nel movimento cangiante di scissione/scomposizione, cesura/articolazione tra umano e animale (che è poi una frattura interna all'umano) l'elemento essenziale della macchina antropologica (e addirittura del destino eminentemente biopolitico del mondo occidentale).
Heidegger tematizza questa scissione a più riprese, e fa dell'uscita dallo stordimento animale (quell'essere assorbiti e aderire senza sbavature che fa coincidere la creatura col suo ambiente) alla noia e all'angoscia cui il mondo espone, la caratteristica essenziale del Dasein.
Qui le conclusioni interpretative di Agamben e Cimatti paiono divergere: se il primo sottolinea l'elemento di rottura e discontinuità (anche rispetto alla nostalgia evocata da Rilke), Cimatti vi legge quasi psicoanaliticamente una sorta di “risentimento nei confronti dell'immediatezza della vita animale”, un “vago senso di perdita” (55). Entrambi, però, con Heidegger, finiscono per identificare nella meta-fisica la precisa strategia con cui l'umano reagisce a questa drammatica scomposizione: congelamento e abbandono della nuda vita in una zona d'eccezione, esorcizzazione dello sguardo animale (fuori e dentro di sé).
Già in tutta questa analisi appare pressoché scontato dove si voglia andare a parare: sulle tracce di Deleuze si vuol qui riproporre un programma di radicale desoggettivazione – che è poi individuazione senza soggetto, singolarità o essenza singolare, una vita, pura potenza immanente, il superamento di quell'io ingombrante e tetragono della tradizione cristiana e poi cartesiana, che viene costruito proprio a partire dalla scissione originaria e violenta di corpo e mente, materialità della vita e proiezione spirituale-trascendente. Un ri-diventare corpo (corpo animale) che non può che avvenire in un quadro ontologico di radicale immanenza: noi siamo radicati in un essere che non ha fini, che non ha centri, che non ha gerarchie, che non ha faglie o fratture – tranne quelle che produciamo “noi” (il problema è proprio quell'io-noi).
Dove allora la riflessione di Cimatti procede oltre questi assunti già abbastanza esplicitati, in una linea di pensiero che deriva da Spinoza, passa dalle parti di Nietzsche e si aggira, pur oscillante e ondivago, in non pochi filosofi del Novecento che hanno messo al centro della propria riflessione il tema della scissione?
Se Agamben parrebbe avere (è proprio il caso di dire) un sacro timore nello spingersi oltre la soglia di quell'indifferenziato che è la “nuda vita”, quasi una messa a nudo, il toglimento di ogni velo sotto cui è visibile il meccanismo violento dell'antropogenesi (che ha tra l'altro generato Auschwitz), Cimatti sembra invece voler fare un passo oltre. Così Agamben: “Rendere inoperosa la macchina che governa la nostra concezione dell'uomo significherà pertanto non già cercare nuove – più efficaci o più autentiche – articolazioni, quanto esibire il vuoto centrale, lo iato che separa – nell'uomo – l'uomo e l'animale, rischiarsi in questo vuoto: sospensione della sospensione, shabbat tanto dell'animale che dell'uomo” (94).
Mentre invece Cimatti in quel vuoto pare volersi avventurare, tramite un vero e proprio scarto immaginativo: “L'immagine dell'animalità che viene, quella che stiamo provando a pensare, è questa «molteplicità eterogenea di viventi», mobile, contaminata, che non si arrocca in alcun “io”” (103); ovvero un “divenire-animale [che] è lo spazio pericoloso della contingenza e dell'occasione” (151).
Insomma, l'animalità non sarebbe un concetto (un'astrazione) e nemmeno una de-posizione – ciò che viene abbandonato-superato (Aufhebung) una volta assunta la nostra posizione di humanitas: animalità è piuttosto quello che Luciano Parinetto definiva un concetto-progetto, proiezione immaginifico-sensibile, possibilità di riappropriazione materiale – “animalità significa immaginare una soggettività non scissa in corpo e mente” (Cimatti, VII). Ecco che qui entra in gioco direttamente Spinoza, con la sua radicale concezione dell'immanenza e del rapporto tra piano etico e piano ontologico.
Vorrei a questo punto provare a riordinare le tematiche sopra emerse, all'interno di un quadro interpretativo del pensiero di Spinoza che fa del concetto di immanenza (e di vita e delle forme di vita) l'architrave di un pensiero materialistico che è insieme etico, politico ed ontologico e che, nel criticare alla radice ogni forma di trascendenza (spirituale o linguistica o psicoanalitica) può costituire un nuovo modo di intendere la convivenza pacifica tra gli esseri, gli enti, i viventi – un con-essere che se non è più ripristinabile nella sua originarietà (lo “spazio puro”, il “grembo” da cui si vola via sgomenti evocato da Rilke), è tuttavia quanto di più vicino ad un modello percorribile di cura, responsabilità, speranza per la sopravvivenza della specie (e delle specie).
La critica fondamentale che Spinoza muove al comune modo di pensare degli umani (una consolidata doxa, un abito mentale diffuso) sta proprio nell'essersi messi al centro della natura: occorre però svelare il trucco, e Spinoza comincia a farlo nell'Appendice alla prima parte dell'Etica, quando dice chiaramente di voler sbaragliare ogni pregiudizio, in particolare il pregiudizio originario da cui gli altri seguono, che è quello del finalismo (o se si vuole dell'autofinalismo): concepire cioè la natura preordinata ad un fine e, nella fattispecie, alla generazione del mondo umano – quello che più avanti definirà con grande efficacia “impero nell'impero” (prefazione alla parte III). Ma si tratta di misere finzioni, o, se si preferisce, di lussureggianti parti dell'immaginazione – della facoltà, cioè, da cui gli umani sono maggiormente governati (a tal proposito potrebbe essere fatta una lettura parallela dell'Etica, come de-costruzione del dispositivo immaginifico).
Spinoza afferma come ogni modo, ente, cosa, e dunque ogni vivente, sia espressione (il termine è fondamentale) dell'unica sostanza (I, prop. 36). Non solo: arriva a dire (II, prop.13, scolio) che “tutta la natura è un unico Individuo, le cui parti, cioè tutti i corpi, variano in infiniti modi senza alcun mutamento dell'Individuo nella sua totalità”. Si tratta di una rappresentazione molto precisa del “piano di immanenza” di cui parla Deleuze nelle sue lezioni su Spinoza, poi pubblicate con il titolo Cosa può un corpo?: immanenza è il “piano fisso”, l'“univocità dell'essere” su cui insistono tutti gli enti e che ne costituiscono orizzontale espressione; “il piano su cui tutto è immerso e in cui tutto si inscrive”. Precisa Deleuze: “L'assunto di base dell'ontologia è che tutti gli enti si equivalgono dal punto di vista dell'essere: la pietra, il folle, l'uomo razionale, l'animale. Ogni ente effettua la quantità d'essere che possiede, e l'essere avrà un unico e medesimo senso per tutti” (90).
Tale assunto ontologico vale immediatamente in campo etico e politico-giuridico: è Mignini ad asserire molto opportunamente come il diritto si fondi, secondo questa prospettiva, sulla forza vitale, sull'esistenza. Il riconoscimento dell'altro è il riconoscimento della sua necessaria esistenza (derivata dal suo essere modo della sostanza) – ciò che esclude alla radice stessa il concetto ambiguo di “tolleranza”, come se si potesse “tollerare” ciò che ha un diritto assoluto di esistere, sancito dal suo situarsi sul piano di immanenza, qualunque sia il suo modo di essere.
Ed è proprio qui che il discorso si aggancia alla proposta di Cimatti di andare oltre l'“io” e le gerarchie e gli ordini che da quell'“io” (se si vuole, un potente dispositivo dell'immaginazione umana) discendono. La proposta può funzionare proprio all'interno della concezione spinozista della singolarità e dell'essenza: così come, sostiene Cimatti, non esiste l'“animale” o l'“animalità” (allo stesso modo che le idee sono finzioni, produzioni immaginifiche), gli enti non possono essere che concepiti (anzi riconosciuti come puramente esistenti) soltanto secondo la loro propria singolarità e moltitudine (animalitudine, verditudine, entitudine...).
Ogni modo della sostanza è un'essenza specifica, un'espressione determinata, ed il modo più appropriato di conoscerla non è quello astratto, della conoscenza oggettiva (l'io che si erge sulle cose e le guarda dall'alto o da lontano o secondo una posizione “neutra” che è in realtà preordinata al dominio) – quel che Spinoza definisce “secondo grado di conoscenza” –, quanto piuttosto un ulteriore livello di accesso all'essere (un accesso interno ed immediato), ovvero il terzo grado di conoscenza che è sub specie aeternitatis, cioè in un'ottica che non è quella della durata, del tempo o della memoria, ma secondo la prospettiva dell'“amore intellettuale di Dio”.
Chiamarlo “amore” opera però una metamorfosi precisa non solo del punto di vista, ma anche del tipo di rapporto: noi in questo modo non ci limitiamo a conoscere, ma partecipiamo della sostanza attraverso la molteplicità delle sue manifestazioni espressive e moltitudinarie. Solo al livello dell'intuizione intellettuale siamo in grado di accedere direttamente al rapporto consustanziale con i singoli – ed essere rapporto tra rapporti – con una rotazione sia dello sguardo che dell'intera concezione etica, da cui non può non derivare un modo radicalmente alternativo di vivere e di socializzare.
Un esempio visivo di questa sfuggente, se si vuole “mistica” concezione (ma di un misticismo niente affatto trascendente), lo troviamo riassunto nella felice espressione di Canetti – “bisogna sdraiarsi per terra tra gli animali” – che vorrei arricchire con l'immagine dello stare sdraiati su un fianco (non supini) in un campo erboso e fiorito, sentendosi una tra le innumerevoli forme di vita che lo popolano, anzi, propriamente non “una” accanto o giustapposta, ma “con” – con–essere: e allora il calore del sole è tutt'uno con la pelle, le gambe sprofondano nel terreno, il respiro si confonde con il vento, lo sguardo si muove su un piano spaziale orizzontale che non è però frutto di astrazione:
fili d’erba schierati
sul piano del mio occhio
eguale moltitudine
– e tutte quelle forme di vita, le variegate espressioni di un unico essere, non sono nomi, non sono idee, non sono astrazioni, ma vita pulsante nella quale si è da sempre ricompresi.
Si potrebbe obiettare che si tratta di una mera finzione psicologica, di uno dei tanti impossibili “ritorni alla natura”, alle origini, al “grembo” di Rilke. L'ennesima forma di nòstos, di melancholia irredimibile. Una forma di solipsismo, magari bello e poetico, ma del tutto inconcludente.
Sì certo, sarebbe così se in quel campo ci fossi solo “io”; probabilmente no, se altri esseri cominceranno a sdraiarsi a loro volta, pur in fogge e posizioni diverse, sul medesimo piano, quello di una sostanza che è “un fuoco che si propaga in infiniti focolai” (Pardi). Sulle erbe e sui fiori di quel campo – su ogni filo, ogni petalo, ogni corolla, ogni piccolo insetto, e persino sulla temibile zecca – spirerà allora il “grande vento calmo” che Deleuze avverte in Spinoza.
Ma come la mettiamo con lo straniamento? E dunque con la stessa filosofia che di quello è figlia? Non ci può più essere estraneità di una mente che guarda dall'alto i corpi (compreso il proprio); non si abita più una terra straniera, afflitta da noia ed angoscia, nel momento in cui si riconosce di non esserne più il sale, il centro, il significato ultimo, addirittura il fine.
Si potrà semmai accedere ad una nuova forma di stupore – quella che segue le linee, le forme, le qualità di ogni cosa. Sentirsi corpo tra i corpi, non mente sopra i corpi. “Allora, siamo come l'erba” – dicono Deleuze e Guattari in Mille piani.
Vivere, deinde (forse) philosophari.
Nota bibliografica
Il saggio di Cimatti (Filosofia dell'animalità, Laterza 2013), è ricco di riferimenti di carattere narrativo che val la pena richiamare: Kaputt di Malaparte, Le metamorfosi di Ovidio, il racconto di Kafka Una relazione per un'accademia, Lo stallone di Lawrence, ovviamente Elegie duinesi di Rilke, La leggenda di San Giuliano ospitaliere di Flaubert, La vita degli animali di Coetzee – ciò che costituisce un'interessante bibliografia parallela a quella filosofica o psicoanalitica sul tema dell'animalità (e che spazia da Freud a Lacan, da Deleuze a Derrida, da Heidegger ad Agamben).
Imprescindibili per le tematiche qui affrontate:
G. Agamben, L'aperto: l'uomo e l'animale, Bollati Borighieri 2002
G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, Ombre corte 2007
G. Deleuze, Immanenza, Mimesis 2010
Spinoza, Etica. Trattato teologico-politico, Tea 1991.
La frase di Canetti si trova in una piccola antologia pubblicata da Adelphi nel 2007 con il titolo Un po' di compassione, titolo mutuato da una commovente lettera di Rosa Luxemburg, seguita da scritti di Kafka, Canetti e Joseph Roth.
Infine, molto bello e ricco di spunti l'intervento di Filippo Mignini “Spinoza: la potenza della ragione”, visionabile all'interno di un documentario dedicato al filosofo olandese, e facente parte della serie multimediale “Philosophia. Il cammino del pensiero”.