Speciale
Ti scrivo. Dal paese di Silvio D'Arzo
Sono trascorsi quarant’anni dalla notte tra il 1° e il 2 di novembre in cui Pier Paolo Pasolini è stato assassinato a Ostia, un tempo lungo e insieme breve. La sua figura di scrittore, regista, poeta e intellettuale è rimasta nella memoria degli italiani; anzi, è andata crescendo e continua a essere oggetto di interesse, non solo di critici e studiosi, ma anche di gente comune. Pasolini è uno degli autori italiani più noti nel mondo. In occasione delle celebrazioni promosse dal Comune di Bologna, dalla Fondazione Cineteca di Bologna, e all’interno del progetto speciale per il quarantennale della morte, che si articola in un vasto e ricco programma d’iniziative nella città dove Pasolini è nato e ha studiato, doppiozero, media partner, ha scelto di realizzare uno specifico contributo. Si articola in tre parti. Interviste, lettere e poesie. Oggi proseguiamo con la seconda: lettere che scrittori e saggisti indirizzano a Pier Paolo Pasolini, come se lui potesse leggerle.
Apriremo questa sezione agli interventi dei lettori: potranno scrivere a loro volta delle missive (massimo 5000 battute) indirizzate al poeta e scrittore, la redazione vaglierà quali pubblicare sul sito di doppiozero.
Caro Pier Paolo,
ognuno di noi ha attraversato quella particolare esperienza per cui, a distanza di anni, tratteniamo un ricordo quasi fisico di accadimenti importanti, decisivi, caratterizzati da un prima e un dopo irreversibile per se stessi e per tutti. Di quei momenti conserviamo lucido il ricordo di dove eravamo e cosa facevamo: istanti di "tempo congelato" dove il fotogramma interiore, emotivo diventa anche quello del luogo, del tempo, dei gesti...
Nel mio caso credo sia accaduto almeno tre volte. La prima, ancora relativamente vicina nel tempo, ha avuto i modi di un pasto frettoloso, un divano davanti a un televisore improvvisamente spalancato sull'abisso delle Torri Gemelle, esattamente l'istante che il secondo aereo penetra nella Torre Sud e toglie ogni illusione rivolta al caso e alla disgrazia. Noi in costume e t-shirt in una delle ultime giornate tardo estive regalate dalla Riviera, restavamo appesi alla forchetta. La seconda volta molto tempo prima, appena bambino, in una cucina fatta solo di credenza, tavolo e sedie, l'apparecchio radio in alto e io sotto con un gioco mentre irrompeva la notizia che avevano ammazzato il presidente Kennedy. La terza nel 1975, certamente di minor ampiezza epocale, meno rappresentativa di interessi generali, meno irreversibile per sé e per tutti ma sempre con la cesura netta di un "prima e un dopo".
Sono venuto a sapere della morte di Pier Paolo Pasolini nel primo pomeriggio del due novembre di quell'anno, "vestito dalla festa" e in procinto di andare in discoteca in un paese vicino. Un mio amico, appoggiato a un muretto di pietra, era stato il portatore della notizia in mezzo allo stupore attonito degli altri. Intorno, la luce netta ma già tremula del cielo di montagna e "...sette case. Sette case addossate e nient'altro: più due strade di sassi, un cortile che chiamano piazza, e uno stagno e un canale, e montagne fin quanto ne vuoi...”. Ero esattamente nella piazza che anni dopo avrei scoperto essere la stessa descritta da Silvio D'Arzo in Casa d'altri. Più tardi, quel pomeriggio, avremmo fatto le stesse cose, trascorsa la solita domenica sulla montagna appenninica. Verso la discoteca-balera in macchina e lungo il tragitto la sosta in ogni osteria di paese, in quello che in quegli anni chiamavamo ironicamente "cantagiro". Anzi, era una delle mie prime iniziazioni di cantagiro alcolico attraverso panorami e discoteche emiliane. Vestito dalla domenica e ai piedi un paio di college (scarpe sportive e basse particolarmente di moda fino negli anni 80, completamente inadeguate per la montagna) ero uno di quegli adolescenti-ragazzi intrisi del facile, grato e stupido consumismo di cui tu scrivevi. Una di quelle domeniche di divertimento e stordimento che Lucio Dalla pochi anni dopo avrebbe descritto bene in Anna e Marco (..."Anna bello sguardo non perde un ballo, Marco che a ballare sembra un cavallo, in un locale che è uno schifo, una checca che fa il tifo..."), domeniche un po' buzzurre e ripetitive delle "compagnie" che accomunavano da nord a sud l'Italia di quegli anni.
Più volte in seguito mi sono chiesto perché la percezione anche in quel caso di "un prima e un dopo" irreversibile, in qualche modo epocale. Tu eri del 1922, due anni più vecchio di mio padre, eppure ai miei occhi mi sembravi molto più giovane, quasi di un’altra generazione e non tanto per i tratti fisici, comunque giovanili. Allora ti conoscevo distrattamente e soprattutto come personaggio pubblico; avevo visto forse un paio dei tuoi film, conoscevo qualcuno dei tuoi articoli ma in fondo poca, poca roba. Eppure il taglio lucido delle tue parole mi aveva già "distrattamente" colpito come il tuo essere severo cantore del mondo della tradizione, severo come i tuoi tratti, quasi scolpiti. Un'austerità anche fisica la tua, mi rendo conto, inquietante per un ragazzo che come condizione esistenziale "doveva", quasi per definizione, essere attratto dalla modernità, in tutte le sue forme. Ma è sempre l'inquietudine che pone domande, che solleva questioni...
Credo che di te, malgrado le tue lucide analisi, malgrado le sue parole e il tuo dichiararti per certi versi "anti moderno", io percepissi anche il tratto anticonformista (per definizione "giovane"), il tuo essere tuo malgrado un simbolo della "modernità", il tuo essere star. E una sorta di rock star della letteratura – anche nell'aspetto, nell'abbigliamento, nei capelli, forse ante litteram, lo eri. In questo, forse percepivo contraddizioni che erano anche le contraddizioni dell'epoca. Per chi da bambino, da ragazzo o da adulto ha vissuto gli anni del boom economico, quel periodo è stata una contraddizione esistenziale spalmata su due decenni. Sono stati gli anni dello spopolamento delle montagne e dei terreni marginali, gli anni della emigrazione, della vita in casermoni anonimi, dei soldi facili, della Giulietta, della 500, degli acquisti a rate, della nostalgia per la terra e della corsa in città, delle fattorie finite invendute, delle vacanze al mare, dei giovani come categoria sociale, della musica beat-rock e del festival di Sanremo, della bellezza della formica e del moplen, dell'epidemia dei tumori ancora ignorata, gli anni di Diabolik e dei settimanali filo monarchici, gli anni del terrorismo e insieme quelli della disco music...
Essere stati bambini, ragazzi o adulti in quel periodo significava respirarne inconsapevolmente tutte le contraddizioni, le seduzioni e repulsioni irrisolte destinate a trascinarsi ancora a lungo. Di quelle seduzioni e repulsioni tu sei stato critico implacabile ma al tempo stesso anche catalizzatore e testimone, ne sei stato urlo, tu stesso contraddizione vivente, ne sei stato soprattutto l'elemento che con voce critica dava un senso, un filo logico a quelle contraddizioni. Con la tua scomparsa, insieme alla percezione di un "prima e dopo" irreversibile, in qualche modo epocale, forse percepivamo inconsapevolmente di essere più soli davanti agli anni che sarebbero venuti.