Sull'intervento di Giorgio Fontana / Il romanzo è morto?

31 Ottobre 2018

Di solito si interviene in una discussione per esprimere un netto dissenso, ma non è questo il mio caso. Le riflessioni di Fontana sono l'espressione di un lungo lavoro e di molte letture. Se ci sono delle differenze nei nostri ragionamenti si tratta di sfumature, di particolari, qualche volta di accenti. A me non interessa se uno scrittore è giovane o vecchio. L'età non vale come scusante, non vale neppure come spiegazione. Leopardi ha scritto L'infinito a vent'anni. Devo anche dire che senza la sollecitazione di Doppiozero non scriverei questo intervento. Non perché sottovaluti i contenuti espressi da Fontana, che come dicevo trovo intelligenti e per nulla giovanili, ma perché ho già vissuto diverse stagioni di questi dibattiti, alla fine di una tale inutilità che sarebbe noioso riassumerli. Con il passare del tempo dei dibattiti non resta traccia, e neppure delle dichiarazioni di poetica: restano, e non sempre, pochissime opere. Le prime ad appassire le opere delle avanguardie italiane (sempre accademiche o di regime), che dopo una fase involontariamente comica svaniscono nel nulla da cui provenivano.

 

Il romanzo muore a ogni ciclo generazionale. Ed è giusto così, perché secondo me il romanzo non esiste, è un genere auto-generante, non c'è schema, non c'è struttura. Ognuno scrive il suo romanzo. Non un romanzo qualsiasi. Quelli li scrivono i "giornalisti e scrittori", cioè tutti.

Un tempo si diceva dei gialli (e dintorni di varie oscurità) quel che oggi si dice delle serie tv. Credo stia succedendo la stessa cosa. Il giallo, che allora veniva considerato misero e negletto aveva la sua dignità, fior di scrittori si erano cimentati, Chandler ma prima Poe, poi c'è Simenon che non si discute… Risultato: il giallo-poliziesco-noir- eccetera è ora l'unico genere letterario che il nostro lettore medio è in grado di leggere e che trova in libreria. Malavitosi, mitragliette, ispettori, ndranghete, investigazioni, non c'è altro. Si era già capito da tempo. Anche un romanzo in costume medievale si doveva costruire con tecniche investigative squisitamente anglosassoni. Il risultato è una noia mortale.

 

Giornalista e scrittore. Magistrato e scrittore. Presidente e scrittore. Architetto e scrittore. Ormai la parola scrittore è un sostantivo secondario, segue sempre a una "e". Sarei tentato di dare una mia interpretazione: se c'è prima una "e" quello non è sicuramente uno scrittore. Immaginate Cechov "medico e scrittore". Lo so, non mi occupo del cuore del problema, ma di un suo margine illusorio. Ormai tutta l'editoria italiana è incentrata su questo margine illusorio. Fontana ha il coraggio di dirlo partecipando a un (importante, credo) festival letterario: come mai c'è tanta gente qui mentre il numero dei lettori diminuisce a vista d'occhio? Perché di questo dobbiamo occuparci, lasciando perdere i destini del romanzo che se la caverà come sempre e ci seppellirà tutti. La mia risposta è questa: perché si pubblicano troppi libri, purtroppo quasi tutti insignificanti o dilettanteschi. La giustificazione del nemico è la seguente: si pubblicano libri brutti ma che vendono perché così possiamo fare anche libri migliori che però hanno pochi lettori. Ragionamenti simili si addensano attorno alle grandi serie tv, nuovo business mondiale smart e multimediale. All'inizio fu X-Files, che a rivederlo vien da ripetere il grido liberatorio di Fantozzi: è una cagata pazzesca! Poi si va a seguire, su versanti sentimentali o avventurosi, ma per tutti o quasi a un certo punto si alzerà forte il grido di Fantozzi (che peraltro diceva a sua volta una cagata pazzesca). 

 

Opera di Jackson Pollock.


No, non c'è una competizione con queste forme di narrazione. Si tratta di materiali incomparabili, capre e cavoli. Harry Potter non è come Don Quijote de la Mancha. 

L'appassionato seguace di Trono di spade non sarà mai un lettore di Arno Schmidt. Il problema è che le persone che dovrebbero interessarci come lettori non sono i dilettanti e gli aspiranti poeti, che come è noto leggono a malapena i loro stessi versi, considerando i poeti pubblicati indegni di menzione e loro naturali competitors. La sensazione è che ci stiamo occupando di un ombelico narcisistico che non meriterebbe alcuna attenzione. 

La convinzione di Fontana da cui dissento è a monte, ed è la centralità delle storie. Il narratore è uno che inventa delle storie. D'accordo sul verbo inventare ma metterei l'accento sulla parola scrittura, e la metterei prima della parola storie. Considero più scrittore Canetti, che non inventava delle storie ma ne raccontava diverse, di tanti scrittori dalle modeste invenzioni. L'essenziale è il come, l'essenziale è il chi. Questa creatura che ho osato inventare e che ora esiste indipendentemente da me, abbandonata alla mia scrittura, porta con sé la storia che ascolteremo. Neanch'io che scrivo la conosco. Non ho una storia da raccontare, ho una creatura con cui convivere. Quando scrivevo sceneggiature mi sembrava di non scrivere, pensavo continuamente: sono qui per un equivoco (le storie, appunto), questo lavoro ha in comune col mio soltanto una tastiera. 

 

Un altro segnale d'allarme che secondo me non è ancora stato evidenziato: la scomparsa degli scrittori non-giallisti-noiristi non soltanto dagli scaffali (trovate su due piedi un Bilenchi in libreria…) ma dalle case editrici, dalle redazioni e dalle loro direzioni. Ce ne sono due, entrambi âgés, ma uno forse è andato in pensione. Certo ci saranno giovin scrittori qua e là ma come redattori, non perché scrittori. Qualcuno ricorda il contributo di Giorgio Bassani all'editoria italiana? Non è la mia una riflessione estemporanea: la esprimo soltanto adesso perché alla mia età nessuno potrà malignare. Non voglio dirigere niente. A giovani studiosi mi permetterei di dare un unico suggerimento: guardate quel che è successo prima, di quel momento certo più ricco dell'oggi e che ho riassunto nel nome di Bassani (ma potrei fare decine di nomi). Siamo nel primo dopoguerra. Il viaggio delle opere poi diventate libri cominciava in ambiti ormai dimenticati: le riviste. Rileggendo i numeri anche di una soltanto, Botteghe Oscure, si entra nella letteratura italiana e internazionale del secondo novecento.

 

Molti letterati hanno seguito quel percorso: penso a uno straordinario studioso come Cases, che mi fa piacere ricordare, o al giovanissimo esordiente Silvio D'Arzo. La mia generazione (vicina al dopoguerra ma nello stesso tempo lontanissima) ha conosciuto una versione mao-stalinista di quel fenomeno, con tanto di guru e cialtroni di varia grandezza. Non siamo riusciti a trovare dei padri-maestri, con fatica abbiamo incontrato dei nonni-maestri, in Italia o in giro per il mondo, ognuno per la sua strada, in una solitudine siderale. I nostri professori universitari ci insultavano perché appunto il romanzo era morto e Cassola e Bassani erano due Liale. In fondo l'unica vera battaglia dei cosiddetti intellettuali italiani è stata quella contro gli autori: una tendenza psicotica che è risultata vincente, nella letteratura e nel cinema. L'autore non era altro che un montatore di storie, ma il girato non era più necessario, si era già tanto girato… Ho parlato di generazione ma non eravamo più di una decina, come aspiranti narratori. Proprio come adesso la letteratura era morta. Infatti fummo abbastanza ridicolizzati.

 

Qualcuno può credere che trent'anni fa si sviluppassero dibattiti sulla temperatura dei romanzi? Chi non ha sessant'anni almeno non potrà crederci. C'erano letterature fredde e letterature calde. Calvino: freddo e di moda. Bilenchi (Cassola…) caldo, quindi passatista. La vera domanda, straziante, dovrebbe essere questa: ma perché le persone intelligenti (di qualunque classe e provenienza) non si occupano più di letteratura dopo aver concluso gli studi? (O di storia, di poesia, di filosofia, di scienze, insomma di quel che dovrebbe essere contenuto nei libri…) La risposta, se ci pensiamo, è un circolo vizioso. Non si vendono libri perché sono brutti ma si fanno brutti perché non si vendono libri. Un ridicolo pseudo-sillogismo, ma descrive benissimo il nostro paese e il nostro presente. Nonostante questo non dobbiamo avere troppi complessi verso il passato. I lettori in Italia non ci sono mai stati. Ippolito Nievo, Federigo Tozzi, lo stesso Svevo: in realtà hanno toccato poche migliaia di lettori.

 

Landolfi, Sciascia, Parise, Primo Levi. Leopardi aveva gli stessi lettori di Milo De Angelis (che ha scritto poesie di intensità e qualità non inferiori a quelle dei Canti). Non credo che in Italia ci siano più di due o tremila persone in grado di leggere un romanzo che non contenga una semplice trama, o un saggio di qualche spessore, o una raccolta di poesie. Sono persone di diversi strati sociali, non definibili sociologicamente: individui che non si trasformano in pubblico. La borghesia italiana non ha una sua cultura, non si identifica neppure con il pensiero liberale, lontano dalle loro menti come l'anarchismo di Bakunin. Padroni e operai vedono le stesse serie tv, leggono qualcosa di giallo per addormentarsi così come prima andavano insieme verso il vicolo dei bordelli o verso lo stadio. Non leggevano Botteghe Oscure così come non leggono DoppioZero. L'influenza della letteratura sulla società è sempre stata scarsissima e indiretta. Se ogni tanto tra i best sellers appare un buon libro possiamo tranquillamente invocare il caso, o le mode se preferiamo. Acquistare è verbo diverso da leggere. Guardare la televisione non significa imparare. Inutile inseguire o paragonarsi ad altre forme di narrazione, perché in realtà non ce ne sono. Ci sono delle imitazioni, degli scriba, delle pianole meccaniche, degli uomini (e delle donne) d'affari. La letteratura è sempre lo stesso foglio bianco, cartaceo o elettronico che sia. Ci vuole un certo coraggio per scriverci sopra, e anche una bella dose d'incoscienza. Forse ci vorrebbe anche un po' di pudore, ma l'epoca del pudore è stata archiviata.

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