Speciale

Il Castello Interiore di K.

6 Maggio 2024

“In fondo il Castello non era altro che una misera cittadina, un’accozzaglia di casupole senza nessuna caratteristica, tranne quella di essere costruite in pietra, ma l’intonaco era cascato da un pezzo e la pietra pareva sgretolarsi.” Anche la torre, che dovrebbe caratterizzare il Castello, il nuovo arrivato la trova inferiore a quella del suo paese. Quella che vede per la prima volta non è altro che “la torre di una casa d’abitazione, lo si capiva, ora, forse del corpo principale del Castello; era una costruzione rotonda e uniforme, pietosamente rivestita di edera, con piccole finestre che scintillavano al sole; aveva qualcosa di allucinante…”.

Il Castello è su una collina. Quando K. riesce a vederlo dopo la nevicata della notte ne resta deluso, pur avvertendone in parte il misterioso potere che emana. Il povero agrimensore K., chiamato a svolgere il suo lavoro e in attesa dei suoi assistenti, si rende conto di non essere trattato come un fornitore importante. L’Amministrazione fa fatica a rintracciare la sua pratica, all’inizio viene addirittura respinto. La vigilanza del Potere è occhiuta e invisibile, e naturalmente ottusa. Il popolo, soprattutto contadini e commercianti del villaggio che vive all’ombra del Castello, sembra conforme alla legge e tende a muoversi all’unisono come un mesto coro greco. Il primo mistero del Castello è proprio questo. Non è disegnabile, non ha neppure una forma, e questo gli consentirà di averne una complicatissima, anzi indescrivibile. Rubando un grande titolo mistico siamo di fronte (o già dentro senza saperlo? O fuori per sempre?) a un vero e proprio Castello Interiore, un labirinto mentale. Questa è forse la cifra meno esplorata dall’immensa pletora critica, che legge in questo romanzo la nota dominante della sensualità. Che naturalmente c’è, raggiungendo livelli secondo me raggiunti da pochi, ma c’è perché il soggetto che guarda il Castello è (rubando un altro titolo teo-filosofico) l’occhio mistico della metafisica. È l’occhio che guarda l’infinito, e su questa parola (infinito) bisognerà tornare. L’immagine scultorea della Santa a cui ho rubato il titolo (Teresa D’Avila, El Castillo Interior,1577) è la dimostrazione formale di come quest’occhio goda della massima profondità di campo. L’estasi di santa Teresa D’Avila assomiglia alla condizione mentale dell’agrimensore K. e di Kafka stesso. Una condizione che unisce il bene e il male, il dolore e il piacere, la felicità e la paura. L’unica posizione che può assumere un corpo in queste condizioni è una sorta di abbandono attivo. Opporsi non è possibile. Si può soltanto resistere aggrappati a se stessi per non essere portati via dalle correnti. Così K. si affida alle strane costumanze del luogo. Accetta persino i suoi aiutanti finalmente giunti anche se in realtà non sono i suoi veri aiutanti, ma due sempliciotti del Castello mandati da chissà chi. Poi un bellissimo messaggero in abito attillato, Barnabas, gli consegna finalmente la lettera d’incarico: dovrà attenersi agli ordini del Sindaco. La firma è illeggibile (è del potente Klamm), ma il timbro è sufficiente: Il capo della X sezione. Che, trattandolo come un comune operaio lo avverte: “da parte mia non la perderò di vista.” Il Conte, il Signore del Castello, non lo vedrà mai, gli è subito chiaro. Ma l’idea di abbandonare il Castello, così inospitale e inaccessibile, non lo sfiora neppure. Nessuno può rifiutare il suo destino. L’agrimensore smussa velocemente la sicumera iniziale, ma anche moderando le sue proteste continua a formulare pensieri proibiti che lo rendono un estraneo agli occhi della comunità. Tutti sanno di lui, conoscono la sua funzione e il suo incarico, ma lui non sa niente, né del villaggio né della misteriosa vita dei Signori che dominano dal Castello. La sua prima aspirazione è quella di essere riconosciuto almeno come un abitante del villaggio. L’ansia di comunicare lo spinge all’impertinenza, e appena incontra Frieda, la ragazza che serve la birra nell’Albergo dei Signori, si fa avanti e le dichiara tutto il suo desiderio. Neanche quando lei gli fa capire di essere l’amante di Klamm il suo desiderio si placa, anzi si infiamma di più, e la sua audacia lo premia. La ragazza, magra e abbastanza insignificante, ha carattere e coraggio, e si lascia inondare volentieri dal desiderio sfacciato dell’agrimensore, anzi lo incoraggia.

La passione esplode sull’impiantito dell’osteria nell’albergo dei Signori appena liberato dalla chiassosa scorta di Klamm: il Capo della X sezione è di là, K. ha potuto guardarlo attraverso un buco nella parete, grasso e flaccido, la testa cadente. Lì per terra, tra macchie di birra e sporcizia, K.  e Frieda si amano per ore disperatamente. K. ha “l’impressione costante di smarrirsi, o di essersi tanto addentrato in un paese straniero come nessun uomo prima di lui, dove l’aria stessa non aveva nessuno degli elementi dell’aria nativa, dove pareva di soffocare tanto ci si sentiva estranei…”. Gli uomini apparsi finora sembrano amebe, per nulla gentili, ficcanaso, morbosi, completamente passivi. Anche Frieda è un’estranea? Una ragazza che a fatica, dai gradini più bassi della servitù, ha raggiunto la posizione di mescitrice di birra, e certo malvolentieri ha accettato come amante l’orrendo Klamm, ha qualcosa in comune con K., una vendetta da consumare contro un potere subdolo, una sete di affetti, di amore, sia pure brutale e senza abbellimenti. Il Potere dormicchia dietro al muro, i due ribelli si rotolano di piacere su un impiantito sudicio, al buio. I loro corpi si ribellano al potere (lo offendono, lo sbeffeggiano) più delle loro menti. Soltanto Frieda ha il coraggio (l’incoscienza) di sfidare Klamm. Quando lui la chiama ad alta voce gli risponde gridando: “Sono qua, sono con l’agrimensore!”

Questo è il potente, complesso incipit di Il Castello, che qualche critico ha definito “il romanzo più ambizioso di Kafka, anche se forse non il più riuscito.” Fare graduatorie è sempre sciocco ma francamente nulla può scalfire la struggente bellezza del più estremo dei romanzi di Kafka, il più impenetrabile, esattamente come la torre del Conte Westwest. Anche non-fiaba, è stato definito. Forse come esorcismo per le cattive letture, che confondono la fiaba con la potente fantasia sorgiva dello scrittore. Distinguono soltanto realtà fotografica o fiaba. La sua scrittura fluisce davanti ai nostri occhi facilmente, frase dopo frase, non ci sono ostacoli o giochi linguistici, non ci sono piani o programmi, soltanto una continua invenzione, spesso sull’orlo dell’indicibile. K. entra nel suo Castello interiore, sconosciuto e oscuro, forse irraggiungibile. Non si sa come faccia a persistere nella sua soffocata ostinazione di esistere, in quanto agrimensore e in quanto individuo riconoscibile. Possono trattarlo come una nullità, occuparlo infine come semplice bidello, possono umiliarlo, ma anche l’umiliazione può diventare un gradino verso il cuore del mistero. C’è, deve esserci un responsabile di tutta questa insensatezza.

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Su questi temi la sintonia con Robert Walser (amatissimo da Kafka) è evidente. Mentre il racconto e il racconto breve, che sono la (magistrale) musica da camera di Kafka, hanno il loro punto focale in clausola, il romanzo non ha altri punti focali che nella continua invenzione di se stesso, nel suo non poter essere condensato in un finale pre-impostato o addirittura già pronto, perché la sua natura non contempla piani che non siano illusori. Sulla distorsione del tempo nel romanzo si dovrebbe riflettere sempre e di più. Non solo perché il tempo che ci vuole per scriverlo non è lo stesso tempo che ci vuole per leggerlo. Il Tempo nel Castello diventa un personaggio che non ha passato e non ha futuro, perché all time is eternally present, e riesce nella più grande impresa letteraria possibile: riprodurre l’eterno presente della vita stessa. Kafka è morto un secolo fa eppure la sua opera continua a suscitare continue interpretazioni, psicanalitiche e sociologiche, letterarie e storiche: sono ormai migliaia i libri dedicati a lui (seimila, se ne erano contati diversi anni fa), e nessuno può dirsi definitivo. Neppure l’ottimo Max Brod può dare vera testimonianza del Castello, della sua stesura e del suo abbandono. Dalle scarne conversazioni dedicate al romanzo si ricava un’ipotesi di finale, che Brod ricorda abbastanza consolatorio (una sorta di accordo con il Potere) anche se naturalmente contemplava la morte del protagonista. K. ha ottenuto dei riconoscimenti, la battaglia non è stata del tutto vana. Non c’è l’esecuzione di una sentenza, ma soltanto la morte naturale del protagonista, per spossatezza. Circondato dal coro, finalmente accogliente, del Castello. Purtroppo la suggestione non ci è di alcuna utilità: sbirciamo dal buco della serratura aneddotica un finale che Kafka non ha scritto. Soltanto questo conta. Le ultime pagine del romanzo lasciano trasparire una sorta di scoraggiamento, c’è un netto cambio di ritmo, forse un ripensamento. Il dialogo diventa indiretto. Il delicato equilibrio tra pensieri del protagonista e pensieri del narratore si fa instabile. Il manoscritto si interrompe lasciando una frase a metà (“Ella porse a K. la mano tremante e lo fece sedere accanto a sé, parlava a stento, si faticava a capirla, ma quel che diceva”) come per una morte improvvisa, che non ha scrupoli verso un finale da concludere. È successo in pittura, è successo in musica: il compositore è morto prima di concludere, ma sulla base di appunti, o sulla base della profonda conoscenza del lavoro incompiuto, qualcuno ha completato la frase lasciata in sospeso. Più raramente il direttore d’orchestra tacita i suonatori e ammette: qui si interrompe la scrittura dello spartito. Ecco, nonostante le migliaia di libri scritti su di lui, le migliaia di dichiarazioni di giovani scrittori cresciuti (a loro dire) “a pane e Kafka”, nessuno ha osato scrivere il finale del Castello e di America. Il motivo più banale (e vero) è che nessuno sarebbe in grado di farlo senza cadere nel ridicolo. Sta a noi lettori stabilire se abbiamo letto (riletto) un libro non finito o un libro semplicemente infinito. Che tipo di Potere pervade il Castello? Davvero Kafka aveva in mente la decadenza iperburocratica dell’impero asburgico che lo circondava? Il Potere non è soltanto sopraffazione ma è soprattutto complicità, i suoi procedimenti sono lenti e inflessibili, il controllo è totale, le stesse direttive che giungono sono ambigue e si prestano a diverse interpretazioni. K. e il Sindaco discutono per ore la lettera di Klamm, la analizzano in ogni frammento semantico, in ogni sfumatura, in ogni non detto. Leggono la stessa lettera che però ha due significati diversi. Il Potere non è altro che quello che c’è, eternamente. È ineffabile e sfuggente ma anche implacabile, un veleno che penetra gli affetti più cari rendendoli vani e ambigui. Come puoi pretendere di comunicare con il Potere se non parla la tua lingua? Come puoi amare davvero chi potrebbe rivelarsi nemico? La leggenda dell’unico imperatore taoista è tramandata per questa speciale caratteristica: negli anni del suo impero non è mai apparso in pubblico e nessuna legge è stata promulgata. Il risultato in fondo è identico. Nel nostro caso il Potere è superiore alle sue stesse leggi, trasportate a fatica per la loro voluminosità dalle carrozze notturne dei funzionari. Il Castello stimola profonde riflessioni sul Potere, e molte altre opere di Kafka tornano sullo stesso tema. Il rapporto tra gli uomini è complesso, spesso conflittuale, quasi sempre sporcato da menzogne, finzioni, tradimenti, egoismi, meschinità. Sì, ti ho scritto anche una lettera, ma è una lettera privata, non vedi? In nessun modo impegna l’Amministrazione.  

L’infinito di un mistico si risolve nell’incontro con l’Essere infinito per definizione, l’infinito di K., di Kafka e di tutti noi, resta infinito per sempre. Quando il giovane (e quindi socialista rivoluzionario) Janouch gli indica entusiasta il corteo operaio che avanza con le bandiere rosse della recente rivoluzione d’Ottobre, Kafka commenta scettico con un sorriso: “vedo già dietro di loro i loro nuovi padroni.” Kafka non ha presagito soltanto il nazismo con Il processo, ma il male oscuro di tutta l’umanità, il tramonto di ogni illusione e di ogni convinzione ideologica. Purtroppo noi abbiamo perso la sua meravigliosa capacità di sorriderne. Dovremmo anche riflettere sul clima letterario, irripetibile, dell’epoca. Proust, Joyce, Mann, Musil, si potrebbe continuare nell’elenco all’infinito. Freud ha da poco pubblicato i suoi lavori più importanti. La rivoluzione darwiniana ha già fatto il giro del mondo. La seconda rivoluzione industriale, lanciata a gran velocità verso la terza, ha reso il mondo completamente diverso da quel che era stato per secoli. Il romanzo sembra esplodere in tutta la sua forza dissacratrice, inventando sempre nuove forme perché il romanzo non ha alcun canone: ognuno di loro reinventa il romanzo. Il contributo estremo di Kafka romanziere è proprio Il castello. Dopo una intensa ma breve stagione positiva a Berlino la malattia lo costringe a tornare sui suoi passi. “La tana” (racconto sublime e terribile), “Giuseppina, la cantante” e Il castello, che gli sfugge di mano restando in sospeso nel suo inavvicinabile mistero, sono le sue ultime opere. Impressionante la quantità di temi sottesi nel Castello: lunghissimi dialoghi all’apparenza semplici, quasi banali, si attorcigliano su se stessi, i personaggi cercano di ricostruire il loro stesso significato come in una disputa filologica, con una verbosità puntigliosa, eccessiva, monotona ma con improvvise impennate del tutto imprevedibili. Verità, bugie, interpretazioni. L’immagine visiva che se ne ricava assomiglia a un quadro di Kokoschka, dove anche l’orizzonte si fa incerto. 

Alterando (ricreando) spazi temporali, perché la vicenda è eternamente presente, avventurandosi in spazi fisici ingannevoli che sono e non sono (il Castello in fondo non esiste) e in personaggi che forse non sono quelli che crediamo siano (il Klamm che appare al villaggio agli occhi di Barnabas, il messaggero infelice, non è lo stesso che vede da lontano al Castello, circondato da inutili lacchè apparentemente affaccendati che in realtà non fanno assolutamente nulla) questo misterioso romanzo attraversa secoli e generazioni, regimi e orrori della storia, eppure ci parla con esattezza esasperante di noi e del nostro presente. Le parole non hanno più senso, le vittime sono carnefici o complici, la realtà è immutabile, modificandosi semplicemente quando crolla su se stessa, e sempre di più gli altri appaiono burattini come i due assistenti di K. Gli dice Olga dagli occhi azzurri (una delle sorelle di Barnabas), in fondo l’altra faccia di Frieda: “Ci sono ostacoli, dubbi, delusioni, ma questo significa soltanto ciò che sapevamo, cioè che nulla ti sarà donato, che devi conquistare lottando ogni minima inezia.” Non sta parlando di libertà, o di carte costituzionali o delle altre vecchie scartoffie ingiallite che vengono spedite per nuove dai funzionari: parla di una divisa per il fratello messaggero. Ne avrà diritto? Qual è il confine che accende il diritto alla divisa? Quale grado degli infiniti sottogradi ne dà il diritto? La famiglia di Barnabas è invisa al villaggio e al Castello: la sorella di Olga si è rifiutata di accettare il volgare invito di un alto funzionario e questo li ha segnati per sempre. Se ne parla di sfuggita, come cosa ovvia: anche sottrarsi alle volgarità del potere è reato e ignominia. Già parlare dei possibili sviluppi della vicenda di K. è utopistico e velleitario. Sembra semplice, basterebbe dire: sono K. l’agrimensore, mi avete chiamato per fare il mio lavoro che però definite inutile e non c’è nessuno a cui io possa chiedere perché sono qui. Questa è la vera domanda: perché sono qui? E perché non posso e non voglio andarmene? Non c’è una resa, in Kafka, anche porgere il collo è una sfida. Se non si può aspirare al Cielo si combatterà scavando una tana infinita nelle viscere della terra. Kafka, insieme agli altri grandi scrittori coevi, annuncia il crepuscolo di un mondo appena nato. Il lettore moderno non distingue più tante sottigliezze (assuefatto alle letture precotte tutto gli sembra fiaba), ma la scrittura di Kafka gli trasmette un’inquietudine inspiegabile che non lo abbandona. Forse percepisce il Potere che circonda anche lui, sempre più kafkiano con il passare dei secoli. In fondo un Potere apparente, mediocre, che nella sua persistenza trova l’unico motivo di esistere, annichilendo qualunque altra pretesa identitaria. I poeti (in versi e in prosa) sono gli unici veri nemici del Potere. C’è ancora qualcuno che ostinatamente si apposta nel buio, in attesa che arrivi il Signore del Castello, pronto a proclamare con ferma gentilezza: Sono K. l’agrimensore, io esisto.

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TAGGED: Franz Kafka

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