Amitav Ghosh e la maledizione della noce moscata

23 Dicembre 2022

Amitav Ghosh (nato a Calcutta nel ’56 ma laureato a Oxford) è antropologo e narratore, ed è abbastanza conosciuto anche in Italia sia come studioso che come letterato. Questo libro nasce e si intreccia con la diffusione della pandemia di Covid ma è in realtà una lunga meditazione sul mondo inteso come luogo fisico in cui abitiamo e sulla sua storia. Tra l’altro si leggono lunghe riflessioni sugli imponenti movimenti migratori verso l’Europa e l’Italia. Ghosh ha trascorso lunghi periodi in Italia per incontrare alcuni migranti provenienti dalla sua area geografica d’origine. “Non si parlava mai dei rifugiati dell’Asia meridionale. Eppure nelle fotografie dei barconi che attraversavano i Balcani vedevo volti palesemente sudasiatici. Anzi avevo l’impressione che buona parte di quei rifugiati provenisse dalla stessa parte di mondo in cui affondano le mie radici: il delta del Gange.”

Tra le molte storie proposte ne scelgo una, che definirei emblematica della ricerca di Ghosh. Si tratta di un trentenne bengladese chiamato Khokon, e anche se lui non accetta questa definizione è il tipico migrante climatico. Il Bangladesh non è uno stato in rovina e non ci sono guerre: come mai tanti migranti si muovono proprio da lì? Khokon e la sua famiglia erano agricoltori e da generazioni vivevano dei frutti dei loro raccolti. Ma nel giro di pochi anni il clima è cambiato radicalmente.

“C’erano inondazioni improvvise e catastrofiche, causate talvolta da forti piogge e talvolta dal rilascio di enormi volumi d’acqua dalle dighe a monte, in India. Nel 1998 i loro terreni erano rimasti allagati per sei mesi. (…) Siccità prolungate, violente grandinate e acquazzoni fuori stagione.” Vedendo precipitare la situazione il padre di Khokon decide di vendere parte dei terreni per pagare un mediatore in grado di far espatriare almeno il figlio ventenne. Finito avventurosamente in Francia Khokon ne viene espulso poco dopo, e si ritrova sconfortato in Bangladesh. Il padre decide di vendere anche gli altri terreni pur di mandarlo in occidente di nuovo. Stavolta va peggio. Finisce in Libia. Per anni è ridotto in schiavitù e soltanto per miracolo riesce a salire su un barcone diretto in Sicilia. Avendo pochissimi soldi viaggia sul fondo del barcone, accanto al motore. Un suo compagno di sventura che comincia a vomitare viene subito buttato fuori bordo. Giunto presso lontani parenti a Parma Khokon si salva e ora lavora in quella città.

Non saprei dire perché ho scelto di raccontare proprio questa, tra le mille parabole contenute nel libro. Forse per farne apprezzare la profonda attualità: si parla dei principali temi del nostro presente, praticamente di tutti. Uno dei suoi sottotitoli potrebbe essere: tutto si tiene. Storia, antropologia, politica, letteratura. I secoli dei grandi navigatori, i primi imperi che esplorano e conquistano il mondo. In parte con la conoscenza (Darwin) per lo più con la violenza. Selvaggi, dimenticati dalla storia, più primati che uomini. Praticamente dovunque. Dalle Americhe alle vaste Indie. Fino alle isole che come pulviscoli emergono dalle profondità dell’oceano indiano.

Dovunque (e qui l’antropologia si fa comparata e strutturale) e con gli stessi metodi. Malattie e genocidio. Ghosh divide il mondo in due metà antropologicamente opposte: quella dominante considera il mondo un insieme inanimato da sfruttare per arricchirsi, l’altra considera ogni cosa, vulcani e fiumi, alberi e insetti, come creature viventi. Il libro ci trascina in un lungo ragionamento sul mondo partendo da un’isoletta vulcanica che bisogna usare tutte le lenti di Google Earth per trovarla. Selamon è un villaggio nell’arcipelago delle Banda, nel lontano sud-est dell’Oceano Indiano. Siamo nel 1621. Sonck è il funzionario olandese che guida l’ennesima flotta.

Ha l’ordine di allontanare gli abitanti in qualunque modo e di impossessarsi della preziosa pianta che soltanto lì cresce: l’albero della noce moscata. Il mondo civilizzato adora le spezie rare, il chiodo di garofano per esempio, che cresce guarda caso in un’isola vicina. Sono aromi da Re, desiderati spasmodicamente da tutti. Per qualche tempo si tentano vie diplomatiche ma una notte, dopo vari incidenti, scatta, letteralmente, una scintilla. Cade una lampada, nella moschea dove gli ufficiali sono accampati, e la paura che ne deriva induce tutti gli olandesi a aprire il fuoco facendo strage di indigeni. I pochi sopravvissuti riescono però a tenere in vita ricordi e tradizioni tribali che con la natura avevano un rapporto tutt’altro che predatorio. I vulcani, per esempio.

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“Anche al Cuanung Api, che troneggia sopra le isole Banda, si attribuiva la capacità di emettere auspici e presagi. Per questa ragione nelle isole si diffuse un grande timore quando il vulcano eruttò, dopo un lungo periodo di inattività, proprio il giorno in cui la prima nave olandese giunse nell’arcipelago, nel 1599.” Ma è straordinario come la lingua dei vulcani fosse ascoltata in varie altre parti del mondo. “Per i molucchesi, come per molti altri abitanti di zone sismiche, i vulcani sono sia artefici della storia che narratori di storie.”

I gunditjmara, in Australia, conservano memoria di una eruzione avvenuta trentamila anni fa: forse il racconto più antico giunto fino a noi. In tutto il mondo i popoli che hanno subito il più feroce sterminio dai nuovi dominatori (portoghesi, inglesi, olandesi, poi nordamericani ecc) si assomigliano. La civiltà delle macchine, dell’industrializzazione, delle trivellazioni e delle miniere, del petrolio, delle guerre di sterminio per il tè, per i chiodi di garofano, per diffondere l’oppio, questa società che dell’illuminismo originario conserva ben poco, si scontra con popoli legati da secoli ai loro territori, che non sono soltanto passiva pietra o terra, ma un’unica creatura vivente in simbiosi con noi.

La civiltà delle élite urbane contro quella del vitalismo, una sorta di filosofia naturale sempre rinascente, secondo Ghosh, nonostante gli stermini e le cancellazioni. Per gli Apache “il passato è incastonato nei lineamenti della terra, in canyon e laghi, montagne e ruscelli, rocce e praterie.” Nel paesaggio vive il passato, le anime popolano ogni cosa visibile, e il dialogo con loro è possibile. Inutile dire chi ha vinto questa battaglia, perché è esattamente la nostra realtà. Ghosh riconduce al presente tutti gli infiniti rivoli delle sue parabole antropologiche. Lo fa parlando del petrolio, del cambiamento climatico, dell’energia.

Il fatto che il petrolio debba essere trasportato per mare crea delle strozzature commerciali che guarda caso si trovano proprio nell’oceano indiano. Dalla stessa regione delle spezie proviene una enorme quantità di petrolio e di gas naturale. Tra i dieci maggiori esportatori di petrolio cinque provengono da questa parte del mondo. Le petroliere percorrono le stesse rotte degli antichi velieri che portavano spezie. Modificare radicalmente il modo di produrre energia senza più doverla trasportare annullerebbe il più grande affare del mondo.

Non ci sarebbero più ricatti politici, non avrebbe più senso lo stretto di Hormutz (40% delle esportazioni di petrolio) né quello di Malacca, diretto all’immenso mercato orientale. Ghosh cerca di entrare nel cuore del dibattito politico utilizzando un originale approccio multidisciplinare. Paragona popoli non europeizzati lontani decine di migliaia di chilometri, ma ogni volta il conto torna, trasmettendo nel lettore uno strano sconforto, perché siamo tutti colpevoli. Anche gli scrittori, anche gli storici, anche i poeti. Anche il buon selvaggio seguendo questo assioma non è altro che una sorta di barboncino. Personalmente non credo in un mondo così ben diviso in due.

Ne ho un’immagine più caleidoscopica. Estetizzare lo sconfitto è giusto e forse inevitabile. E in fondo i vincitori hanno poco da gioire. La storia è una sorta di gora in cui tutto finisce. Dopo lo sterminio dei nativi e l’intensificazione della coltivazione, la noce moscata perderà completamente il suo valore. Quelli che scendevano dai velieri, iniziando una guerra mai interrotta, e aprivano il fuoco su pacifici e spesso accoglienti popoli indigeni, erano dei mostri, e la loro violenza esprimeva perfettamente lo spirito delle classi dominanti, e la loro cultura predatoria. Ma Darwin disegnava insetti e animali, e non faceva del male a nessuno. Aveva in sé i semi di una cultura meravigliosa, che certamente Ghosh ha esplorato molto meglio di me.

Nelle sue infinite parabole scritte con grande efficacia, Ghosh ci mostra civilizzatori barbari e indigeni con tradizioni e culture orali che sprofondavano nei secoli. Animismo, dialogo con gli antenati, identificazione tra antenati e luoghi. L’uccisione dei saggi anziani del villaggio di Selamon è un’offesa all’umanità, e Ghosh ci trasmette la sua giusta indignazione. Il genocidio (o in alternativa: lo schiavismo…) dei popoli indigeni è la forma più radicale di razzismo: a loro è negata persino l’appartenenza al genere umano.

Come ho già detto il libro non è soltanto un (notevole) repertorio di storie e leggende, ma torna direi quasi ossessivamente sui nostri giorni, sulle guerre e le pandemie che si inseguono in un mondo che si sta disegnando davanti ai nostri occhi con forme inedite. Citerò una domanda polemica che emerge dal libro, e che nel suo apparente candore si incide nella memoria. Parlando delle fonti inquinanti che stanno devastando il pianeta pone un problema solo apparentemente minore: quanto inquinano i mezzi militari? Aerei, navi, sommergibili, mezzi di trasporto. Del sistema industriale abbiamo qualche coordinata numerica, dai nostri eserciti non viene fornito alcun numero. Se La maledizione della noce moscata dialoga con il presente più di quanto ti aspetteresti, la scrittura che lo anima non cede a tendenze modaiole, che ingloberò nell’espressione neo-narcisismo di massa.

Il signor Ghosh, che scrive riempendo i lunghi tempi del lockdown, appare nelle pagine giusto il necessario, e sempre con discrezione. Dal punto di vista ideologico o post-ideologico non riesco a definire con precisione la collocazione dell’autore. Appartenendo alla mia generazione ha una vocazione radicale, ma come tanti ex rivoluzionari (e lo dico senza nessuna ironia!) si trova ad esplorare mondi concettuali complessi alla luce di ostinate riscritture della storia. La figura più evocata dalla mia generazione, con voci e da strade diverse, è sicuramente quella di Papa Francesco che appare, del tutto a proposito, anche in questo libro.

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