Babyn Yar: tornare all’inferno

18 Dicembre 2024

Tornare nei luoghi della memoria. Forse bisogna farlo per sentire che l’eco degli orrori avvenuti è soltanto dentro di noi, così forte da darci l’illusione di sentirlo ovunque, in un albero che forse ha assistito, in una roccia, in un muro di pietre incastonato nel cemento. I libri di viaggio, come Un luogo scomodo (Einaudi, 2024), di Jonathan Littell e Antoine D’Agata (che contribuisce alla narrazione con ritratti e foto d’ambiente mai banali), incrociano inevitabilmente strade percorse da altri, giunti lì da direzioni diverse. E come è giusto nei veri viaggi sai quando parti ma non quando arrivi, e neppure se quel che vedrai assomiglierà ancora alle immagini che ne conservi. Non si tratta di un reportage qualsiasi, è una sorta di viaggio archeologico, nello spazio e nel tempo. Che non può essere soddisfatto da un’unica spedizione. Littell e D’Agata progettano un libro su Babyn Yar (Babij Jar in russo), teatro di una immane tragedia avvenuta nel 1941: 100mila morti, in maggioranza ebrei, raccolti e sterminati a fucilate in questa località selvaggia nei dintorni di Kyiv. Luogo ben noto agli studiosi e alle persone colte, ma sconosciuto ai più, confuso con mille altre tragedie non meno spaventose. Littell impara il russo e l’ucraino negli anni di progettazione di questo volume. Il suo non è un approccio giornalistico, ma da studioso e da scrittore. Nei ripetuti viaggi approfondisce le sue letture. E come mi aspettavo, inevitabilmente, già all’inizio del libro appare Vasilij Grossman, con frammenti tratti dalle sue indimenticabili opere. Talmente forti che anche la memoria del lettore si affolla: come non pensare alla tragedia di Berdičev leggendo di Babyn Yar? 

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Località ucraine non troppo distanti tra loro, e su una cartina di guerra del 1941 unendo questi due punti si ripercorre una delle vie d’assalto della Wermacht all’Unione sovietica. L’impatto della micidiale armata è inarrestabile e di una ferocia inaudita. A Berdičev viene massacrata e sepolta brutalmente con altre migliaia in buche collettive la madre di Grossman. Con i collaborazionisti ucraini che spingono sotto terra le teste che riemergono: sparando nel mucchio qualcuno sopravvive sempre. Non sanno che tutti i popoli slavi sono nella lista delle future cancellazioni sognate dal Führer. È la Shoah, certo, nelle sue forme più rudimentali e ben poco industrializzate. I lettori di Grossman si emozioneranno ricordando la lettera della madre che attraversa tutto il doloroso cammino di Vita e destino. Il merito, e forse anche unico limite, di questo libro di Littell e D’Agata è che suscita il ricordo di letture incancellabili. Grossman, soprattutto, ma anche altri immensi poeti e scrittori, per non parlare dei numerosi saggi (e film, documentari…) dedicati a Babyn Yar. Tornano in mente le descrizioni terribili in Le ossa di Berdičev, per esempio, la bella biografia di Grossman scritta dai coniugi Garrard. 

Capire l’Ucraina e capire la Russia non è facile. Per capire qualcosa ci si deve rivolgere ai poeti e agli scrittori, e ai loro strani destini. Figlio di polacchi in fuga e inglese per scelta Joseph Conrad era nato a Berdičev, mezzo secolo prima che ci nascesse Grossman. La storia personale e culturale di Littell, lo testimoniano i suoi libri, è ancora più nomade. La sua ossessione (che condivido) per Babyn Yar è antica e persistente. Le truppe tedesche entrano a Kyiv il 19 settembre 1941. Soltanto tra il 29 e il 30 fucilano 33771 ebrei, secondo la contabilità ufficiale delle SS. La cifra finale, come dicevo, è di almeno centomila morti. Per le fucilazioni scelgono una zona periferica della città, fabbriche isolate, zone verdi abbandonate e solcate da alti burroni: Babyn Yar, appunto, che significa “Il burrone della vecchia”. Luogo appartato e già pronto per le sepolture, ma non per risparmiare altri dolori agli abitanti. SS e soldati tedeschi, forse anche i più esaltati, provavano “qualcosa” uccidendo a fucilate centinaia di persone di tutte le età. È l’inferno. Anche se la Soluzione finale non è ancora ufficialmente iniziata. 

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©Hamburger Institut für Sozialforschung.
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©Hamburger Institut für Sozialforschung.

Successivamente alcune fosse comuni verranno riaperte per bruciare i cadaveri. Ma le cancellazioni non finiranno mai. L’intera zona verrà spianata e spianata di nuovo dai sovietici. Per qualche tempo non sarà neppure chiaro dove fossero avvenute quelle stragi atroci. Cancellare, rimuovere, ma cosa? La presenza ebraica, l’esistenza stessa degli individui che formavano delle comunità presenti in quei luoghi da generazioni. Grossman, soldato-scrittore dell’Armata Rossa, scopre così di avere un Dittatore implacabile sopra di sé, e che il comunismo non esisteva. I suoi primi articoli violentemente censurati riguardano proprio il popolo al quale Grossman stesso apparteneva (quasi inconsapevolmente, considerandosi normale cittadino russo): i nazisti, lo correggono, hanno fatto strage di centomila cittadini russi, non di ebrei, come scriveva lui. Ebrei è parola proibita. Perché siamo tutti russi. Rimozione di Babyn Yar, dunque, con ruspe naziste e sovietiche. E poi tardivi monumenti in cemento, a volte dedicati a personalità dall’ambiguo passato, accolte come numi tutelari della nuova nazione. Interessante la ricostruzione del mito contemporaneo ucraino rappresentato da Bandera, eroe nazionale. Macerie, monumenti, contraddizioni, macerie su macerie. 

La Storia ha la mano pesante con l’Ucraina. Babyn Yar era un burrone, ora è tutto piatto. Littell cita un brano di Grossman (tratto dalla prima edizione di La Madonna a Treblinka): “Sotto i piedi la terra ondeggia, soffice, grassa, quasi impregnata di olio di lino, la terra senza fondo di Treblinka, fluttuante come gli abissi marini. Eppure questo spiazzo cinto di filo spinato ha inghiottito più vite umane di tutti gli oceani e i mari della Terra dall’inizio dei tempi. Il suolo vomita pezzi di ossa, denti, carta, oggetti – non li vuole, quei segreti.” Tracce, tracce psichiche naturalmente, non più frammenti di ossa, testimonianze, questo cercano Littell e D’Agata. Ma nel pieno delle loro ricerche, e come in un romanzo, accade qualcosa all’improvviso: nel febbraio del 2022 la Russia invade l’Ucraina. E le rovine di una nuova guerra andranno a sovrapporsi alle rovine precedenti.

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©Hamburger Institut für Sozialforschung.
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©Hamburger Institut für Sozialforschung.

Gli osservatori della tragedia presente continuano a cercare tracce di avvenimenti lontani, quasi di un secolo prima, già scomparsi dalla scena, illeggibili. Sul presente, del resto, sono sempre in ritardo: già molti giornalisti hanno fatto le stesse domande alle stesse persone. Come se il presente continuasse a sfuggire ai due ricercatori. «Una foto di Rodrigo Abd dell’AP (liberazione di Buča, oblast di Kyiv, nel marzo 2022) mostra una donna che cammina da sola tra i rottami con una scatola di cartone sotto braccio, passando davanti alle macerie delle case di via Vokzalna… A maggio, quando ci siamo passati, la strada era già riasfaltata e nei giardini crescevano felci, tulipani…» Sempre seguendo queste mappe pregresse di filmati e foto bussano alla porta di una casa dove due sorelle di Buča sono state uccise da una bomba. «Lei ha aperto la porta di uno spiraglio e ha sputato verso di me: “Siamo stufi di parlare con i giornalisti” e mi ha chiuso la porta in faccia prima ancora che potessi articolare le parole che stavo per pronunciare: “La capisco signora”.» La battaglia per riconquistare Buča è una delle più cruente e importanti della prima fase dell’aggressione russa. 

Nel febbraio-marzo del ’22 è in atto un vero e proprio accerchiamento di Kiev, respinto dall’esercito ucraino che il 31 marzo rientra in possesso della città. Strage di civili, violenze, stupri, distruzione: questo lasciano le truppe russe. Ascoltando le numerose testimonianze raccolte da Liddell si deve prendere atto di una semplice verità: è un popolo, quello ucraino, invaso dall’esercito di una nazione vicina. Che è gente conosciuta, è l’Impero. E ci sono state mescolanze, come e più che altrove. Ma le vecchiette che coraggiosamente escono per strada a litigare con giganteschi soldati ceceni sono ucraine e gli altri sono dei predatori. Nessuno ha accolto i russi come liberatori. Tra le varie testimonianze raccolte due in particolare mi hanno colpito. La prima è quella di Ruvin Štein, nato nel 1926 a Koziatyn. Di famiglia ebraica abbastanza religiosa “nel 1933, al culmine dell’Holodomor, la carestia pianificata da Stalin che sterminò più di 4 milioni di contadini ucraini, si trasferiscono a Baku in un kolchoz di Tati, strana tribù ebraica di lingua persiana.” Faranno ritorno a Kyiv tre anni dopo. La storia di Ruvin ha dell’incredibile. Sfugge calandosi lungo un tubo dell’acqua al massacro di Babyn Yar. La fame, il freddo, la solitudine di mesi, la partecipazione alla guerra combattendo ancora ragazzo con l’Armata rossa. È lui che indica ai due ricercatori il luogo esatto in cui i nazisti spogliavano gli ebrei di chiavi e oggetti di valore e separavano gli uomini dalle donne: è proprio davanti al muro del cimitero militare di Kyiv, affollato da migliaia di nuove tombe.

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©Hamburger Institut für Sozialforschung.

Altro incontro che mi ha colpito è quello con un pope, padre Joan della chiesa di Syrec. Vanno a trovarlo a casa, alla periferia nord di Kyiv, subito dopo il primo, profondo attacco alla città. Il prete mostra i rottami di un missile nel cortile. Ma questo dolente scrutatore di anime è interessante soprattutto perché è depositario dello spirito più profondo della sua comunità. Racconta la storia di una signora ultranovantenne che era andata a confessarsi da lui. Sollecitata a ricordare dei peccati passati lei ci aveva pensato su e si era ricordata di un fatto che, forse… Riguardava il suo primo marito, che aveva sposato quando aveva vent’anni (quindi siamo negli anni ’30, in pieno delirio staliniano). Temeva avesse delle amanti così lo aveva denunciato alle autorità. “Pochi giorni dopo fu portato via e non lo vidi mai più.” Il prete, scioccato dalla tranquillità con cui la donna rievocava l’episodio, le aveva chiesto se non le sembrava il caso di chiedere perdono a Dio per quel che aveva fatto. E lei: “Beh, lo hanno fatto in tanti…” Voglio concludere trascrivendo le amare considerazioni finali di padre Joan, sprofondato anche lui nel passato, come i suoi interlocutori. Un passato che è radice del presente. “Capite? Era una cristiana praticante da molti anni… E, pensate, sono passati più di sessant’anni da quel momento. Si era risposata, aveva avuto dei figli e andava sempre in chiesa. E fino al momento in cui ha lasciato questo mondo non si è mai pentita. La parola greca che indica il pentimento è metanoia, che etimologicamente significa: cambiamento di mente e di cuore. Lei non l’ha mai avuto. Niente… neppure la guerra, gli anni sovietici, Gorbačëv… è riuscito a farle pensare di aver commesso un crimine terribile, per il quale avrebbe dovuto piangere per il resto della sua vita. Capite?”

In copertina © Hamburger Institut für Sozialforschung.

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