Il sabotaggio dell'empatia

27 Marzo 2014

«Tutta una nuvola di filosofia si condensa in una gocciolina di prassi simbolica». Basterebbe questo ellittico inciso di Ludwig Wittgenstein per riassumere lo spirito dell’ultimo libro di Paolo Virno, Saggio sulla negazione. Per un’antropologia linguistica (Bollati Boringhieri, 2013, pp. 203) dedicato interamente al dispiegamento della costellazione linguistico-antropologica che si nasconde dietro alla più inappariscente e dimessa delle particelle grammaticali del nostro linguaggio: la negazione. Descrivere gli usi e le prerogative del segno ‘non’ significa qui rivelare alcuni tratti distintivi della forma di vita della nostra specie: la capacità di prendere le distanze dagli avvenimenti circostanti, dalle pulsioni psichiche o dalle prescrizioni del proprio corredo istintuale, il bisogno di riti e istituzioni o l’ambivalenza degli affetti. La comune facoltà di dire come non stanno le cose cela precise implicazioni etiche e politiche sull’indole pubblica della nostra mente e descrive la singolare discontinuità tra il fondamento biologico della socialità e i suoi sviluppi linguistici.

 

Sull’esistenza di una intersoggettività originaria che precede la stessa costituzione dei soggetti individuali, hanno insistito in passato pensatori come Vygotskij, Winnicot, Simondon e, più recentemente, gli studi sul funzionamento dei neuroni specchio hanno riformulato quest’idea in modo particolarmente incisivo, incardinando l’anteriorità del noi rispetto all’io al funzionamento di un’area specifica del cervello. Il linguaggio, tuttavia, non costituisce affatto una cassa di risonanza di questa socialità preliminare, non amplifica una sintonia già garantita da un dispositivo cerebrale. Il pensiero verbale, la creatività del linguaggio stesso, provoca piuttosto l’indebolimento e la crisi del cosentire cui si deve l’immediata comprensione delle azioni e delle passioni di un altro animale umano. Ed è proprio la capacità di negare qualsivoglia rappresentazione (appunto ciò che distingue il linguaggio da altri codici comunicativi basati su indizi e segnali, nonché dalle prestazioni cognitive più silenziose come sensazioni, immagini mentali), che permette di mettere in crisi l’originaria empatia neurofisiologica e di mettere in questione l’evidenza percettiva fino al limite estremo che ci fa dire questo non è un uomo.

 

Il linguaggio non manca di offrire un rimedio al sabotaggio dell’empatia prodotta dai neuroni specchio. La disattivazione di questo fragile spazio noi-centrico può essere a sua volta disattivata. La sfera pubblica, «nicchia ecologica delle nostre azioni», lacerazione e sutura allo stesso tempo, trae origine dalla negazione di una negazione. Il dispositivo della doppia negazione non ripristina la primitiva sintonia prelinguistica ma differisce questa instabilità costitutiva che continua a mantenere iscritta al proprio interno il rischio del non-riconoscimento. La categoria che viene qui richiamata è quella, fondamentale per la teologia-politica occidentale, di katéchon, della forza che trattiene il trionfo dell’Anticristo per il teologo – o il disfacimento dell’ordine sociale per il pensiero politico medievale e moderno. Il linguaggio è il katéchon naturalistico che, mediante l’applicazione del ‘non’ a un precedente ‘non’, favorisce la formazione di una sfera pubblica, trattenendo la catastrofe che, d’altra parte, non smette di alimentare. Questo rimane per l’autore lo sfondo imprescindibile di qualsiasi movimento politico che miri a una drastica trasformazione dello stato di cose presente.

 

È però il pensiero di Ludwig Wittgenstein a costituire la trama più o meno nascosta su cui si tesse, almeno in questo libro, il pensiero di Paolo Virno; si può addirittura considerare questo Saggio sulla negazione come una lunga glossa a un passo dei Quaderni 1914-1916 di Wittgenstein datato 26.11.1914: «Si può negare un’immagine? No. E in ciò risiede la distinzione tra immagine e proposizione. L’immagine può servire da proposizione. Ma allora all’immagine viene ad aggiungersi qualcosa che le fa dire qualcosa. In breve: io posso negare solo che l’immagine sia giusta, ma l’immagine stessa non la posso negare». Se la negazione è lo strumento logico che costituisce la discontinuità della prassi linguistica rispetto alle emozioni e ai comportamenti prelinguistici, al tempo stesso è l’operatore che retroagisce sugli stessi modificandone il destino. Da un lato rivela la loro strutturale non identità con gli stati di cose che raffigurano; dall’altro, invece, ne registra l’occasionale discordanza con una specifica dalla realtà dei fatti.

 

Un’immagine mentale dunque non mostra mai come non stanno le cose, non si lascia confutare ma soltanto sostituire, e quando presumo di negarla, non ho a che fare con un’immagine, ma con una sua controfigura linguistica. Le diverse forme di opposizione extralinguistica anche quando impediscono o annullano un altro fatto, non possono in alcun modo essere considerate negative. Qui emerge con evidenza lo scarto con la negazione linguistica che invece è capace di sospendere senza sostituire.

 

Nel rapporto tra immagini mentali e negazione linguistica si gioca una partita di vitale importanza, complementare se vogliamo allo sviluppo di questo Saggio sulla negazione. Virno discute il solo concetto di Vorstellung, di immagine mentale, ma nel testo originale Wittgenstein usa il più generico Bild (picture per l’edizione inglese, immagine dunque). Qui si insinua un problema che rimanendo integralmente aderente al testo wittgensteiniano allo stesso tempo se ne distacca permettendone una diversa lettura: non solamente le Vorstellungen sono innegabili ma ogni immagine lo è. E possiamo dire di più: le immagini stesse, lungi dal rimanere operatori vincolati al linguaggio verbale o agli stati di cose rappresentati, hanno una loro specifica forma di vita e una loro innegabile, ineluttabile efficacia. Noncuranti della propria impotenza a negare, le immagini dispiegano altrove la loro potenza, sovrapponendosi, generando tensioni interne e anacronismi o ingannando la percezione; sogni, fotografie, allucinazioni, immagini materiali o fantasmi sfuggenti come l’aria. E se è vero che «attraverso la mia coordinazione d’oggetti alle parti costitutive dell’immagine, questa viene a rappresentare uno stato di cose e ad essere giusta o sbagliata» per confondere qualsiasi certezza basterà qui ricordare che le immagini non sono in relazione ai soli stati di fatto ma anche ad altre immagini.

 

Riformulando un leitmotiv antropologico dello stesso Virno – come sia possibile «fare cose nuove con le parole» – dovremo ora chiederci come sia possibile fare cose nuove con le immagini. Allo speech act che sappiamo appartenere integralmente alla dimensione linguistica dovremo affiancare un picture act che renda conto dell’efficacia delle immagini (su questo tema di veda Horst Bredekamp, Theorie des Bildakts. Über das Lebensrecht des Bildes, Suhrkamp, Berlino 2011).

 

Ecco finalmente dischiudersi un nuovo ma non meno significativo cantiere di lavoro, un libro possibile di cui non conosciamo né il titolo né il contenuto ma di cui forse possiamo scorgere il sottotitolo che potrebbe suonare all’incirca così: Per un’antropologia visiva. Aprire un simile cantiere di lavoro significherà indagare quali conseguenze sulla prassi e sulla soggettività umana, quale etica e quale forma di vita, siano implicate e coinvolte nell’uso e nell’esperienza delle immagini. Un’esegesi attenta potrà verificare se e come sia possibile raggiungere, di nuovo, attraverso una mistica delle immagini la letteralità del dettato wittgensteiniano che chiude il Tractatus logico-philosophicus: «su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere», ma ciò di cui si deve tacere si può forse aprire alla visione.

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