Prefazione / Algirdas J. Greimas, in segno d'amicizia

16 Marzo 2019

“Da dove cominciare la lettura di un testo di cui si cerca di cogliere il senso?”; e poi: “Da dove cominciare – che non è lo stesso – il discorso sul senso così appreso?”

Il più metodico degli strutturalisti e il più solipsista dei capiscuola formulò così la doppia “domanda di ricerca” che aveva mosso la sua stessa semiotica sin dall’inizio. Lo fece nei suoi ultimi anni, in un’occasione in cui si dette anche una risposta, peraltro paradossale. La vedremo; ma, quando è buona, una domanda può anche bastare a sé stessa.

 

L’amico di Barthes

 

Il titolo Due amici non è solamente quello del racconto di Guy de Maupassant su cui Algirdas Julien Greimas elaborò e collaudò la sua visione del testo e i relativi strumenti analitici, nei seminari che tenne tra il 1972 e il 1975 e nel libro poi uscito nel 1976, di cui qui si presenta la nuova edizione italiana. È anche un’insegna possibile per uno dei miti di fondazione che vengono tramandati a proposito dell’età pionieristica della semiotica: l’incontro fra lo stesso Greimas e Roland Barthes, avvenuto attorno al 1950 e non in qualche crocicchio della Rive Gauche parigina bensì nella cornice, altrettanto favolosa ma molto più esotica, di Alessandria d’Egitto. In una versione della leggenda, Roland Barthes avrebbe donato a Greimas il Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure e lo avrebbe così convinto ad abbandonare la lessicologia a favore della semantica; secondo altre fonti la scoperta saussuriana fu invece contemporanea, solidale, mutua fra i due nuovi amici. È comunque effettivamente capitato che Greimas spostò l’oggetto delle sue ricerche dalla dimensione dell’unità lessicale (quella della parola), o almeno lo inquadrò in una cornice più ampia. Da teorico avrebbe poi insistito, subendone in tutta evidenza il fascino, sui fenomeni derivati dalla proprietà “elastica” della lingua: la possibilità di espandersi o condensarsi, da parola a frase e testo e da testo a frase e parola. Un postulato quasi autobiografico, per uno studioso che aveva appunto espanso il raggio del proprio interesse (e la portata della propria ambizione), passando dallo studio delle singole parole a quello dell’“universo semantico” e della generazione del senso.

 

È poi in sé una forma di espansione anche il fatto che un racconto tanto breve da non occupare più di sei pagine a stampa ne ispiri, di pagine, quasi trecento all’analista che voglia non solo “cogliere il senso” di quanto ha letto ma anche organizzare un “discorso” sul senso che ha così colto. Un eccesso? Può darsi, ma si tenga conto che non si tratta di un’esegesi critico-letteraria. Due amici di Maupassant viene preso da Greimas innanzitutto come testo-campione per costruire una teoria complessiva del senso e del testo. Verrebbe insomma la tentazione di insinuare che non solo il Maupassant di Greimas non è un ritratto biografico né un’esercitazione critica su di lui, ma che addirittura Guy de Maupassant c’entri ben poco con il libro. Sarebbe tuttavia solo una battuta: lo scrittore eponimo in effetti c’entra. Eccome se c’entra.

Per come si era andata configurando sino agli anni settanta, la semiotica letteraria rifuggiva da cedere anche minimamente a qualsiasi forma di considerazione della persona dell’autore. Tra Charles Augustin de Sainte-Beuve e Marcel Proust, un semiologo non avrebbe mai il minimo dubbio nel dare la preferenza all’autore della Recherche e proprio Roland Barthes lo aveva dichiarato per tempo e chiaramente. Nel caso di Maupassant, la “lettura” di Greimas mira a comprendere come il testo dice quel che ha da dire. Quindi non tanto “il testo di Maupassant”, né “il testo in quanto letterario” e neppure “il testo in quanto linguistico”: il testo in quanto Testo. Se la domanda preliminare era “Da dove cominciare la lettura di un testo di cui si cerca di cogliere il senso, da dove cominciare – che non è lo stesso – il discorso sul senso così appreso?” la risposta data dallo stesso Greimas era: “Dalla fine, nel primo caso; dall’inizio, nel secondo.”

 

Come, dalla fine? Questo è il paradosso, ma si scioglie quando ci accorgiamo che il semiologo non sta parlando della prima lettura di un testo: la dà per avvenuta. Leggo un testo e lo comprendo: questo è banale, nulla che interessi o almeno nulla che interessi Greimas. La sua semiotica si mobilita con una lettura di secondo livello: quella che non si limita a intendere il senso, bensì lo “coglie” (intende sé stessa nell’intenderlo). Tale lettura deve avvenire a ritroso ma non nel senso della lettura retrograda, parola per parola, che i vecchi correttori di bozze facevano per controllare gli errori ortografici senza farsi distogliere dal senso delle frasi. Il semiologo retrocede non parola per parola ma per blocchi di testo, dall’ultimo al primo: lo scopo è mettere a nudo i rapporti logici dall’antecedente al conseguente che a chi si attiene invece all’ordo naturalis sembrano scorrere con (per l’appunto) “naturalezza”.

Al lettore di Maupassant questa retrolettura non viene mostrata. Il libro di Greimas corrisponde alla seconda fase, quella sul “discorso sul senso così appreso”, che avviene ripartendo da principio e procedendo, blocco testuale per blocco testuale, verso la fine. Dodici sono i blocchi individuati in Due amici, segmenti di lunghezza diversa (da un paio di righe a una pagina) che Greimas mette in fila per mostrare al suo lettore come il racconto corrisponda a una sequenza di trasformazioni. Sempre quel che si può raccontare (anzi: dire) è una trasformazione; sempre il senso si manifesta nella trasformazione, sempre gli “stati” (delle cose, dei corpi, degli animi) sono provvisori.

Noi possiamo certo dire che Due amici, nel suo complesso, è un breve racconto che appartiene al canone del realismo (restando anche dentro al luogo comune critico che l’analisi di Greimas finisce per distruggere). Ma se il suo nome proprio – cioè il titolo Due amici – è unitario, la sua composizione certo unitaria non è. Il testo è un tessuto, si articola in parti, costruisce il suo senso per strati successivi. Con il suo lessico più tipico, e non certo accattivante per lettori non adepti e studenti, la semiotica dice che il testo è un “sintagma”: un insieme di elementi manifestati, presenti, che nella lingua verbale è disposto in una successione nel tempo (parlato) o nello spazio (scritto).

 

Possiamo dunque dire che dopo i prodromi di Semantica strutturale e la prima raccolta di saggi intitolata Del senso, Greimas ha elaborato la sua semiotica con un’analisi testuale: una sequenza di dodici esercizi analitici, condotti su dodici sequenze testuali. Un sintagma teorico, sulla cui base sarebbe cresciuta l’impresa, invece, paradigmatica del Dictionnaire. Lo dice lui stesso, alla fine della Premessa: l’intento non è quello di aggiungere una nuova inezia superficiale al repertorio della critica letteraria; si tratta di “rilevare i caratteri semiotici generalizzabili del testo” (corsivo mio), ciò che Due amici ha in comune con qualsiasi testo. E per farne cosa? “In vista di un eventuale inventario”: era l’annuncio del Dictionnaire. Nel Dictionnaire troveremo denominazioni e definizioni diciamo così istituzionali (“percorso generativo”, “schema narrativo canonico”) di entità che si sono delineate nel Maupassant. Regole, e non solo regolarità (grammatiche, e non solo modelli abitudinari), tratte dall’uso; paradigmi teorici costruiti su sintagmi analitici. Greimas ha messo in esercizio la sua semiotica del testo, prima di strutturarla in disciplina e codificarla in un dizionario tecnico.

 

L’amico di Flaubert

 

Due uomini, piccolo borghesi, non particolarmente brillanti per ingegno ma di carattere cordiale, si incontrano su un boulevard parigino, familiarizzano e decidono di passare un po’ di tempo assieme. Di che storia si tratta?

Quando Guy de Maupassant scriveva Due amici (1883), Gustave Flaubert era morto da tre anni e da due era uscito, incompiuto oltre che postumo, il romanzo a cui aveva dedicato gli ultimi anni di vita, Bouvard et Pécuchet. Potrebbe essere un caso, naturalmente, ma la scena iniziale delle due narrazioni è per alcuni versi simile e il titolo di Maupassant avrebbe potuto comparire anche in copertina al romanzo di Flaubert.

La madre di Maupassant era stata amica di Flaubert sin dall’infanzia e lo stesso giovane Guy, dopo aver conosciuto lo scrittore, lo prese per guida e maestro. Un elemento fortemente flaubertiano è presente in alcuni passaggi che a Greimas ispirano annotazioni che parrebbero estranee alla sua concezione della semiotica e casomai degne, o quasi, di Roland Barthes: “In questa occasione potremmo formulare una regola pratica per la lettura di Maupassant: ogni volta che s’incontra nel testo un luogo comune, il lettore è invitato a considerarlo come un fulcro del racconto e a cercare in esso un ‘senso profondo’.” E poi: “[Maupassant] Si copre pudicamente di un luogo comune ogni volta che c’è qualcosa di importante da dire.” Greimas si sofferma anche sul gioco di parole tra il cliché “È la vita” e il suo ribaltamento in “È la morte”, scherzoso e però profetico della piega tragica imminente. Al romanzo flaubertiano postumo, ai luoghi comuni e al tema della stupidità allude anche l’onomastica scelta da Maupassant: come nota Greimas, “Morissot” e “Sauvage” “possiedono in comune un sot” (stupido).

 

 

Dovremo forse concludere che sia in Flaubert sia in Maupassant l’esistenza di un amico è necessaria al rafforzamento della propria stupidità, che trova così una sponda e una stampella? Che dunque l’amicizia è un presupposto della stupidità se non addirittura una sua causa? Definire la “stupidità moderna” come l’esito di un attrito fatale tra la banalità dei comportamenti (leggere manuali, andare a pesca) e l’eccezionalità delle circostanze sociali (la diffusione incontrollata di sapere contraddittorio, la guerra)? Ai fini dello scritto presente pare opportuno domandarsi piuttosto perché Maupassant e perché Maupassant: perché Greimas ha scelto quello scrittore e perché ha scelto quel titolo.

 

Il lettore di Maupassant

 

Alla prima domanda risponde lo stesso Greimas, nella sua “Premessa”: Deux amis è un testo breve, sufficientemente noto e invecchiato quel tanto da non porre problemi esegetici. Come dire che la sua “prima lettura”, il suo senso primario non è controverso: ha avuto il tempo di assestarsi ma non ancora quello di essere riveduto. Possiamo aggiungere che Maupassant a Greimas piace, piace moltissimo. Pare in particolare appassionarlo il modo in cui il realismo sempre (e ritualmente) attribuito a Maupassant dissimuli addirittura una forma di “simbolismo” soggiacente (per Greimas, Maupassant è a modo suo un “mistico”), che arriva sino a configurare una “sovrarealtà”. E poi il semiologo ammira la sintesi laconica, quasi epigrafica, la presenza rarissima e sempre giustificata della ridondanza, la sapienza nel dosaggio del non-detto; la capacità di stemperare l’enfasi, per esempio impiegando la superficialità dei luoghi comuni per aprire segrete botole sulle profondità testuali. Ecco perché Maupassant, come autore.

In quanto al titolo, chiedo la licenza di usare un ricordo personale, per quanto frivolo esso possa apparire. Quando, studente, ebbi la prima occasione di visitare la Fnac parigina delle Halles, pioniera delle megalibrerie, cercai invano il Maupassant vicino agli altri libri di Greimas, nel reparto semiotico (che allora esisteva). Prima di chiedere a un commesso o rassegnarmi all’assenza di copie del libro, mi venne l’idea di guardare negli scaffali della critica letteraria, con esito altrettanto negativo. Mi concessi un ultimo tentativo, ancora più balzano, e fu la volta buona: l’analisi testuale greimasiana era effettivamente offerta alla clientela di quell’emporio librario, solo che era collocata nella sezione delle biografie. Qui non ha certo alcun interesse il modo in cui si incrinarono definitivamente i miei già esili entusiasmi per la novità delle grandi librerie di catena. Il punto è casomai l’aver pensato che Greimas un po’ “se la fosse voluta”, dal momento in cui aveva scelto quel titolo e certo non allo scopo di raggirare qualche lettore ignaro degli interdetti semiotici sulla vita degli autori e anzi desideroso di sapere tutto della “vita di Guy de Maupassant” intesa non come romanzo (Une vie, 1883) ma proprio come serie di accadimenti biografici. Perché quel titolo, a dispetto della repulsa strutturalista per le persone degli autori? Si potrebbe pensare che Greimas volesse provocare e affermare che il vero Maupassant è l’enunciatore dei suoi testi, un’istanza fantasmatica ricostruita dall’analisi, e non il figlio poi sifilitico di un’amica d’infanzia di Flaubert. Ma sarebbe un’ipotesi debole. Una chiave forse più sottile potrebbe essere quella buttata là proprio nel cuore dell’analisi, al centro della “sequenza” centrale, la sesta delle dodici. 

 

Greimas ammette che il testo di Maupassant è troppo breve e che troppo scarsa è la nostra conoscenza “delle strutture figurative sociolettali” (cioè dei modi condivisi di vedere e rappresentare il mondo) per riuscire a rendere conto di un fenomeno che in sé è certo assai interessante. La società è tale perché condivide saperi comuni e, appunto, modi di vedere e rappresentare il mondo, di agire e di comunicare. Come si passa da questo strato comune al sapere, al rappresentare e all’agire invece individuali? A quell’insieme di visione del mondo, elaborazione intellettuale, progettazione artistica, organizzazione testuale che con una terminologia magari antiquata ma funzionale allo scopo di intenderci potremmo chiamare, qui, “lo stile di Maupassant”?

 

 

In questo passaggio dal collettivo all’individuale si introduce una differenza decisiva. È ciò che distingue uno scrittore dall’altro ed è ciò che (dice Greimas e l’enfasi del corsivo è sua) determina l’“originalità semantica”. Qui i suoi lettori più affezionati potrebbero riconoscere lo studioso che agli esordi della sua carriera si era occupato del lessico della moda e della nozione di “genio individuale”. Perché mai per capire come funziona il senso in un testo (in qualsiasi testo) occorre abbandonare la dimensione folclorica e adespota della fiaba e andare a scegliere un testo letterario (che certo è il testo meno “qualsiasi” di tutti)? Proprio perché è più complesso. Peccato che la sua complessità è a un tempo causa ed effetto della “genialità” del suo autore, o per dirla con Greimas, “enunciatore”. Quindi la barthesiana “morte dell’autore” va bene, va bene la sua riduzione a istanza e simulacro, non si discute il principio che la prima forma di presenza dell’enunciatore nel suo enunciato è data dal distacco. Ma alla fine il libro lo si intitola al nome dell’autore perché è il suo fantasma quello che anima la caccia all’“originalità semantica”, che rende inquieti i sonni, disordina i codici. Non si era forse detto che il senso c’è solo dove c’è trasformazione?

 

Da un lato, dunque, è verissimo ciò che del resto tutti i commentatori di Greimas affermano: che la sua semiotica nasce nel rapporto con i testi, nasce cioè dal proprio “esercizio” analitico, incrociando metodo deduttivo e principio empirico, come voleva uno dei suoi massimi ispiratori, Louis T. Hjelmslev. L’obiettivo è quello che Greimas dichiara nelle pagine delle sue conclusioni: alla ricerca conviene seguire il “modello metodologico” che “consiste nel costruire, ogni volta che ci si trova in presenza di un fenomeno non analizzato, la sua rappresentazione, in maniera tale che il modello sia più generale del fatto esaminato e che il fenomeno osservato vi si inscriva come una delle sue variabili”. Dall’altro lato, però, avendo scelto proprio Maupassant e proprio quel racconto, succede che Greimas scenda anche nel particolare di quella “variabile” e finisca per scagliare la semiotica contro gli stereotipi della critica tradizionale dei generi che assegnano Maupassant a un realismo quasi pedissequo.

Per dirla con la sua stessa semiotica, il primo “oggetto di valore” del soggetto Greimas era impiegare l’analisi del testo come ricerca sul campo e “collaudare” così la semiotica sino ad allora nota. La prova ha fatto effettivamente emergere la necessità di allargarne i limiti a due grandi aree, entrambe di importanza cruciale: la prima era l’enunciazione, come snodo della generazione del senso, dall’astrazione verso la concretezza umana, viva, vocale del discorso; la seconda era la dimensione cognitiva del racconto, oltre alla pragmatica; pensieri, oltre che azioni. Con un tema come l’amicizia e con le fini osservazioni sulla gioia, sull’inquietudine, sulla serenità, sulla stessa pace intanto Greimas apriva (chissà quanto consapevolmente, in quel momento) uno spiraglio alla semiotica delle passioni dell’animo, allora ancora a venire.

Ma nel farlo si scopre che il testo, nella sua interezza, espressione e contenuto, è a sua volta un segno che significa qualcos’altro, un significato macrotestuale che, dice un Greimas non digiuno di passioni enigmistiche, va “decifrato”. A costo di vedere, magari, nel “realista” Maupassant un “mistico, a suo modo” e di qui un simbolista mascherato.

 

Cenni biografici

 

Algirdas Julius Greimas nacque il 9 marzo del 1917 a Tula, in Russia, da genitori lituani. Compì studi di giurisprudenza e filosofia medievale in Lituania e di filologia francese a Grenoble. Dopo la deportazione dei genitori in Siberia, partecipò alla resistenza antinazista lituana; abbandonò la patria nel 1944, quando essa tornò sotto l’occupazione sovietica, e si spostò prima in Alsazia e poi nella regione parigina. Dal 1945 si interessò di lessicologia, da un’inedita prospettiva sociostorica, e nel 1948 presentò due tesi di dottorato, sul lessico della moda negli anni trenta dell’Ottocento. Nel 1951 la sua richiesta di cittadinanza francese fu accolta e con l’occasione cambiò il suo secondo nome in Julien. Da allora e per più di quarant’anni, fino alla sua scomparsa avvenuta il 28 febbraio del 1992, Greimas si impegnò prevalentemente nella costruzione di una teoria semiotica assai personale ma allo stesso tempo condivisa, vista la quantità di collaboratori, allievi e interlocutori che nei decenni si è raccolta attorno al suo seminario di “Sémantique générale” e nel “Groupe de recherches sémio-linguistiques” (attivi dal 1965 all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi). Tale duplice dimensione, individuale e collettiva, della ricerca greimasiana è perfettamente rappresentata dai due volumi di Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage (Hachette, Paris). Il primo, scritto con Joseph Courtés, uscì nel 1979 e diede sistematicità all’apparato concettuale sviluppato negli studi greimasiani precedenti (e soprattutto a partire dal Maupassant, pubblicato tre anni prima, nel 1976); il secondo volume, uscito nel 1986, raccoglieva correzioni, integrazioni e nuove voci che erano state proposte da quaranta collaboratori, appartenenti a vario titolo alla scuola greimasiana.

 

Questo testo fa parte del saggio introduttivo a Algirdas Julien Greimas, Maupassant. La semiotica del testo in esercizio, a cura di Stefano Bartezzaghi e Giuditta Bassano, introduzione di Stefano Bartezzaghi, postfazione di Gianfranco Marrone, traduzione di Gianfranco Marrone e Stefano Montes, edizione Bompiani, 2019

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