14 febbraio 1992 - 14 febbraio 2018 / Conversazione con Luigi Ghirri: fotografare l'Italia

14 Febbraio 2018

Ventisei anni fa, il 14 febbraio 1992, moriva Luigi Ghirri nella sua casa di Roncocesi. Non aveva ancora 50 anni, ma ha lasciato un'opera vasta e complessa. Per ricordarlo ripubblico l'intervista di difficile reperibilità che gli ho fatto nel marzo del 1984, nel momento in cui era stata appena inaugurata la mostra "Viaggio in Italia". 

 

L’appuntamento è in piazza, a Formigine, e mentre aspetto Luigi Ghirri guardo la splendida Rocca. Non ero mai stato da queste parti e ignoravo l’esistenza di questo edificio medievale. Mi immaginavo Formigine uguale a decine di altri paesi dell’Emilia, paesi composti di palazzine, strade d’asfalto, ville neopadronali, sorte all’improvviso a rompere la geometria dei campi, un paesaggio vecchio di secoli. Sono i nuovi profili dell’Italia pensata e realizzata da torme di geometri, tutta uguale da Cantù a Bologna, da Tortona a Rovigo.

Invece al centro di questo “regno dell’analogo”, così lo chiama Ghirri, c’è l’unico della Rocca. Come dirà poco dopo, lui non fotograferebbe solo il Castello, ma anche la tabaccheria che vi è di fronte.

Del resto in una delle sue più belle fotografie il monumento della piazza di Formigine è visto attraverso le luminarie spente di un luna park. Potrebbe essere in ogni altro luogo. È una fotografia dai colori tenui, in cui prevalgono i colori tipici degli interni delle vecchie case contadine di queste zone.

Sono venuto a Formigine, paese a pochi chilometri da Modena, per parlare con Ghirri del Viaggio in Italia, la mostra fotografica che si è aperta da poco a Bari, a cura sua, di Gianni Leone ed Enzo Velati.

Viaggio in Italia è anche un bel libro che Paola Borgonzoni ha impaginato per il Quadrante e di cui ha pensato la copertina che riproduce una di quelle cartine appese nelle aule scolastiche, su cui hanno viaggiato mentalmente molti italiani.

 

Ghirri è uno dei maggiori fotografi contemporanei. Molto conosciuto all’estero. Il suo lavoro in ambito fotografico è paragonabile a quello che Wenders e Handke conducono nel cinema e nella letteratura. Ha cominciato a fotografare nel 1970: ha stampato alcuni volumi: Kodachrome presso Punto e Virgola (la coraggiosa casa editrice di fotografia creata insieme a Paola Borgonzoni, sua moglie, e ceduta due anni fa per difficoltà economiche), una monografia da Feltrinelli nel 1979, un volumetto da Fabbri nella collana “I grandi fotografi” e un libro su Capri nel 1983 con Jodice e De Seta. Ora sta fotografando Sassuolo, la capitale delle piastrelle, suo paese d’infanzia, per un Viaggio di Ritorno.

La mostra di Bari non è una collettiva di fotografi, ma il primo tentativo di fare punto sull’immagine dell’Italia prodotta dalle mutazioni degli anni ’60 e ’70. Non è neppure una mostra documentaria, l’ennesima rassegna di fotoreporter, ma un viaggio nell’immaginario visivo del nostro Paese.

C’è, nel lavoro di Ghirri e compagni, anche il tentativo di non proporre esclusivamente un punto di vista fotografico, ma di ricercare altri strumenti rappresentativi accanto alla fotografia. Per questa ragione uno scritto di Gianni Celati (Verso la foce. Reportage, per un amico fotografo), compreso nel volume, è stato impaginato insieme alle fotografie e si stacca nettamente dalla introduzione di Arturo Carlo Quintavalle. L’Italia di questo viaggio non è l’Italia settecentesca ed ottocentesca dei grandi viaggiatori. È – dice Ghirri – un’Italia possibile, la ricerca di una identità, un punto di arrivo e di partenza per una immagine possibile.

 

È l’Italia minore?

È il paese che vedono tutti, turisti compresi. Tutti i luoghi hanno un passato da conservare, ma vi è anche il rapporto con il presente.

L’immagine terminale che il turista ha dell’Italia è quella dei Faraglioni di Capri, ma per arrivarci ci sono ottocento chilometri di autostrada, con il loro paesaggio. Anche Amarcord non è una cartolina ma un’immagine dell’Italia. Dopo l’apertura della mostra alcuni hanno scritto che l’Italia in cartolina era finita. Non è vero, questo stereotipo continuerà ad esistere, come esiste quello della Roma della Dolce vita o della Parigi esistenzialista. L’Italia minore è in realtà quella maggiore, mi spiego, non è che questo che appare è il paesaggio della maggioranza silenziosa, è invece lo sterminato paesaggio che l’iconografia tradizionale, lo stereotipo turistico, il settimanale o mensile più o meno patinato hanno rimosso o nascosto.

 

Quale è stato il vostro problema come fotografi nel rappresentare questa Italia?

È stato quello di lavorare senza un precedente, il precedente è lo “strapaese”, quindi senza “punti di riferimento” accettabili. La fotografia italiana non ha una tradizione fotografica da cui partire: l’immagine dell’Italia, la sua iconografia è pittorica, è l’idea di un luogo che contiene l’arte; si tratta di una iconografia consolidata, difficile da modificare. Diversa, ad esempio, è la situazione americana. La sua immagine è essenzialmente fotografica e cinematografica, noi non abbiamo “memoria storica” per quanto riguarda l’immagine fotografica. Quindi noi fotografi ci siamo messi in rapporto con il “luogo” in cui vivono gli italiani né in maniera apologetica né in maniera critica. Abbiamo cercato piuttosto dei nodi dialettici, diverse strade e stratificazioni, per avviare un processo di conoscenza, non abbiamo dato nulla per scontato e non abbiamo dato identità precostituite e totalizzanti.

 

Ma per conoscere questo Paese è sufficiente la fotografia?

No, certamente l’immagine non ha valenze totalizzanti rispetto ad altre… La mostra che abbiamo realizzato è una indicazione di metodo. Si dovrebbe recuperare anche la grande stagione del documentario italiano, purtroppo oggi relegato alla televisione, alla sua funzione cronachistica.

 

Quanto c’è di mentale nell’immagine di questa Italia?

Vi è una sovrapposizione di immagini. Sezionare un immaginario italiano è molto più difficile rispetto a quello di altri paesi, come gli Stati Uniti. L’immaginario visivo del Novecento è, nel nostro paese, composto da immagini che derivano dalle fotografie degli Alinari, dai sussidiari, dalle cartoline illustrate, dai libri del Touring Club e da mille altri luoghi. Sono cataste di immagini. Ogni fotografo vede l’Italia attraverso questa infinita miriade di immagini. Questo tende a costruire quello che definirei il “luogo comune”. Questo “luogo comune” è la piazza di San Pietro con il porticato, la cupola, magari un prete che la attraversa. Il problema è quello di vedere attraverso tutte le immagini precedenti quel luogo e nel contempo di cancellarle per avere una propria “prima visione” di piazza San Pietro.

 

Quali sono le immagini dell’Italia che oggi vanno ad aggiungersi al magazzino visivo accentuando nel contempo quell’aspetto conoscitivo che indicavi prima?

Sono le immagini che come ho detto prima escono dai canali dello stereotipo turistico, e dalle illustrazioni della stampa. È uno spazio che vive tra le immagini che devono sembrare definitive di un luogo. Sono le immagini che pongono domande non quelle che danno delle risposte. E sono le immagini che volenti e nolenti spostano anche il campo di attenzione in un paesaggio che ha subito e determinato mutazioni di portata storica, e queste non sono l’antistereotipo, sono immagini necessarie. Il cinema ha saputo, fino a qualche tempo fa, essere attento all’Italia che avanzava, alle periferie, alle autostrade, alle industrie. Oggi, invece, vi è una scarsa attenzione alle modificazioni che avvengono sul corpo dell’Italia. Neppure i fotoreporter o i giornali sono attenti a queste trasformazioni.

 

Vuoi dire che ripetono sempre la stessa immagine. Mi sembra che si tratti dell’immagine inventata dai grandi settimanali, quella dell’“Espresso” di De Benedetti; anche se escono nuovi mensili fotografici o di immagini non vi è niente di nuovo.

La grande informazione, e quella visiva soprattutto, crede di portare il mondo in casa, mentre in effetti aumenta la distanza che ci separa dall’esistente. Lavora sullo spettacolo, il lontano che diventa vicino e il vicino che reso in modo spettacolare sembra sempre più lontano. È l’inafferrabile, e tutto diventa sconosciuto, è una anestesia dello sguardo. Ma la soglia vera dello sconosciuto è molto vicina, e probabilmente si annida in una piccola fessura dello stagnante mondo del conosciuto. In definitiva non importa che in Viaggio in Italia vi sia o non vi sia il Duomo di Milano, o le architetture di Aldo Rossi piuttosto che quelle del Borromini. Occorre che il vedere attraversi campi molto vasti, come quello dell’immaginario soggettivo e quello collettivo, occorre che il vedere costruisca una propria strada tra gli indefiniti contorni mentali della memoria, che attivi in definitiva nuove strategie di rappresentazione, che tengono conto del mondo esterno e dei mondi interni, del fotografo e dell’osservatore.

 

Sassuolo, la capitale della piastrella, uno dei luoghi a più alto reddito pro capite d’Italia e con il maggior inquinamento, luogo di immigrazione, paese “devastato” e reso irriconoscibile dallo sviluppo di decine e decine di piccole fabbriche, che luogo è?

Mi interessa fare un viaggio di ritorno. Sassuolo è il luogo della mia infanzia, ma non è un viaggio nostalgico verso le radici. Certo il passato è importante, così il recupero di una memoria collettiva, ma attraverso il presente. Far storia significa procedere attraverso i mutamenti. Tuttavia non è questo il mio problema centrale. Fotografando Sassuolo procedo a spirale, attraverso il perimetro, i calanchi, le tangenziali, le fabbriche. È l’Italia quotidiana. Sassuolo è il luogo della produzione. Spariscono le montagne di terra per diventare montagne di piastrelle, diventano superficie, vanno, sotto forma di quadrati colorati, in giro per il mondo a ricoprirlo. È uno sterminato territorio dell’analogo. Formigine, il paese dove ora abito, è uguale per certi aspetti a Cefalù, ma al tempo stesso conserva la sua unicità. La mia è una ricerca nell’analogo.

 

Ph Luigi Ghirri.

 

Ma non siamo troppo “vicini” ai luoghi per rappresentare la loro analogia?

Forse. La fotografia è insieme il luogo dell’analogo e dell’unico. Quando Kierkegaard scriveva: “Ah! Che grande scoperta la fotografia, credendo di renderci diversi, ci rende tutti uguali”, fa un’affermazione giusta. Ma è anche vero che quando una persona guarda la propria fotografia cerca un unico, pur sapendo che i mezzi di costruzione dell’unico sono degli analoghi. La stessa cosa succede oggi per il territorio che abitiamo. La fotografia è l’immagine di un mondo possibile, scelto tra tanti mondi possibili, per questo credo che sia più vicina alla fantascienza che ad altri generi letterari o estetici.

 

Ma la fotografia non attiva l’infinita catena della riproducibilità?

Si possono rendere conciliabili le due categorie: quella della copia all’infinito e quella della copia unica. Quando io faccio una foto ricordo di una foto ricordo cerco di fermare la catena della riproducibilità. Forse mi spiego meglio facendo questo esempio: negli anni ’30 August Sander interruppe la catena della produzione in serie dei ritratti, fotografando non un operaio ma l’operaio.

È la ricerca di una “sospensione”, magari, come nel caso di Sander, facendo riferimento a un archetipo. La fotografia esiste nella pausa di riflessione in questa catena della riproducibilità. Per questo la fotografia ha dei tempi lunghi di lettura. Ma in questo “momento sospeso” credo che si debba ricercare una delle caratteristiche della fotografia, il suo sogno impossibile di essere contemporaneamente una immagine dinamica, come quella del cinema, e un’immagine statica, come quella della pittura. La fotografia è una perfetta sintesi tra stati di quiete e movimento.

 

Quando tu fotografi due turisti di schiena in un prato di montagna con le Alpi sullo sfondo, tu fai una foto ricordo di una foto ricordo, ma non è in definitiva una fotografia intellettuale?

Molti hanno scritto che io sono un fotografo “intellettuale” con una segreta disapprovazione in questa parola, ma credo non sia vero. È proprio quella sospensione che crea il malinteso. È che una volta per tutte, si dovrebbe fare distinzione tra una “fotografia artificiale” e una “fotografia naturale”. Questa distinzione si ha proprio nell’interruzione che la seconda attua nei flussi dello sguardo. La prima, la “fotografia artificiale”, trova la propria collocazione nella produzione culturale a catena, ripete all’infinito se stessa, credendo di sfuggire agli stereotipi ed è quindi riproduzione. La seconda attua una sospensione – interruzione nella catena della riproduzione, che è simile ai diversi momenti dello sguardo naturale e interazione col mondo esterno. È questo che cerco con la foto ricordo di una foto ricordo. Ma la storia della fotografia è un corpo separato dall’esistenza, è una storia “intellettuale” di scarso livello, è la storia della miseria dello sguardo.

In certi momenti non amo essere chiamato fotografo, perché ho la sensazione di rinunciare a una parte della mia “naturalità”, di rinunciare a essere una persona, per essere un fotografo, uno specialista.

 

Questa intervista è apparsa su «Il manifesto», 16 marzo 1984.

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