Istruzioni per l'immaginazione / A cosa serve la letteratura?

13 Giugno 2017

A mio parere chiedersi «che cos’è la letteratura?» o «che cos’è un testo letterario?», come ha fatto Giovanni Bottiroli (La letteratura: se iniziassimo davvero a studiarla?) non è la maniera più appropriata per affrontare il problema dell’insegnamento della letteratura all’università, né tanto meno a scuola. La questione da porre non dovrebbe essere ontologica, bensì funzionale. Occorre interrogarsi sullo scopo della letteratura, qualunque cosa essa sia: sulla sua ragion d’essere. A che cosa serve? Per che cosa ce ne serviamo? Con quali motivazioni? E in vista di quali obiettivi o vantaggi? Dovendo dare una definizione generalissima, io prenderei in prestito la formula che il linguista israeliano Daniel Dor usa per definire il linguaggio (The Instruction of Imagination. Language as a Social Communication Technology, Oxford U.P. 2015).

 

La letteratura è una tecnica di «istruzione dell’immaginazione», che serve non a «comunicare», semplicemente, bensì a far vivere esperienze simulate. Attraverso una prassi di simulazione socialmente condivisa (diversa quindi dalla fantasticheria individuale) il lettore ha la possibilità di ampliare la propria esperienza esistenziale complessiva: di chiarirla e di arricchirla, di articolarla ed estenderla, acquisendo così nuovi strumenti per far fronte alle sfide della vita reale. 

Potremmo anche formulare questa idea in termini moralmente più impegnativi. Il fine delle opere letterarie dovrebbe essere di aiutarci a vivere. Servono per vivere: così suona il titolo di un intelligente saggio di Bruno Falcetto (sottotitolo Verso un’educazione all’uso della letteratura) edito nel volume collettivo La didattica della letteratura nella scuola delle competenze (cur. G. Langella, Pisa, ETS 2014). A vivere, o a sopravvivere, o a farci vivere meglio, come ha scritto Tzvetan Todorov in un libro del 2007, La littérature en péril (La letteratura in pericolo, Garzanti) e come ha ribadito Antoine Compagnon nella sua prolusione al Collège de France dello stesso anno, La Littérature, pour quoi faire? (disponibile come file di libero accesso su questo sito), la letteratura serve a renderci più felici. O meno infelici. E a renderci migliori: più saggi, più accorti, più sensibili, più lungimiranti (qui Compagnon cita un celebre passo del saggio di Calvino Il midollo del leone); in genere, più attrezzati nell’interpretare il mondo che ci circonda, il mondo umano in primis. Di conseguenza, meglio inseriti nell’ambiente che ci è proprio: più abili nel capire i nostri simili, le loro azioni e i loro atteggiamenti, così come le dinamiche delle relazioni che a loro ci legano; più pronti a intendere il senso e il peso delle parole, nostre e altrui. 

 

Però attenzione: la letteratura non produce questi effetti in maniera automatica. Anzi, può darsi che non li produca affatto. Non solo e non tanto perché, oltre alla grande letteratura, esiste anche la cattiva letteratura: ma soprattutto perché (il caso dei testi sacri insegna) non c’è buon libro di cui non si possa fare cattivo uso: esattamente come non c’è utensile (attrezzo, apparecchiatura, competenza o cognizione) di cui non si possano servire anche gli «stupidi» e i «banditi», per riprendere due categorie del Cipolla di Allegro ma non troppo (Le leggi fondamentali della stupidità umana, Il Mulino 1988). Possiamo consolarci, forse, pensando che è vero anche il contrario: pure di un libro mediocre si può fare un uso positivo. Fatto sta che l’insegnamento della letteratura dovrebbe perseguire questo scopo: incrementare le probabilità che, nell’esperienza letteraria degli allievi, gli effetti ritenuti proficui, augurabili, desiderabili, prevalgano su quelli ritenuti negativi. 

 

Illustrazione di Roger Olmos.


Ora, l’esperienza letteraria fa leva su due fondamentali procedimenti: la personificazione e il coinvolgimento. D’acchito, il primo sembra riguardare il versante della produzione del testo (l’autore), il secondo quello della ricezione (il lettore). In realtà sono sempre chiamati in gioco entrambi, poiché è appunto attraverso la personificazione che l’autore mira a coinvolgere il lettore, mentre il lettore può ravvisare intenti personali o forme di personalizzazione del discorso anche al di là delle intenzioni consapevoli del produttore del testo. Ma questi sono dettagli teorici; il punto principale è un altro. Di che cosa parla la letteratura? Di tutto, ovviamente. La letteratura può rappresentare qualsiasi cosa. Non solo qualunque aspetto della vita reale, ma qualunque realtà ipotetica, fittizia, immaginaria, controfattuale. Il suo tratto distintivo è che lo fa fingendo persone. Si può trattare di figure umane in senso proprio, magari a tutto tondo, come accade nelle rappresentazioni teatrali o nei romanzi, dove si parla appunto di «personaggi», dramatis personae, o nella lirica, che inscena esplicitamente un «io»: ma si può trattare anche, più sottilmente, di un assetto del discorso abbastanza personalizzato da evocare una presenza umana, come avviene anche nelle poesie più astratte o didascaliche, nelle descrizioni più impassibili, nella saggistica. Il discrimine è sempre un’imputazione di concretezza: qualunque cosa dica il testo, qualunque sia il tema che propone o l’argomento che svolge, esso è incorporato, incarnato (embodied), personificato, appunto.

 

La personificazione può seguire le strade più diverse: offrirsi con esplicitezza anagrafica, con tanto di nome, cognome, data di nascita, ascendenza familiare e così via; oppure evocare una silhouette umana in maniera più sfuggente, e spesso proprio per questo tanto più suggestiva; o ancora, antropomorfizzare entità (forze o creature) non umane; o anche solo disseminare il testo di orme e di tracce, increspando la superficie verbale di accenti abbastanza marcati e riconoscibili da stimolare il rinvio a una personalità particolare. 

«Particolare» è un termine chiave. Prendiamo l’enunciato tertium non datur. Di un concetto astratto come questo la letteratura offre esemplificazioni che contengono sempre qualcosa di meno (cosa per cui non possiamo fare a meno della logica) e qualcosa di più (cosa per cui vale la pena di leggere narrazioni). Saltare o non saltare dalla nave, il dilemma di Lord Jim; cedere all’intimazione dei bravi oppure no, l’alternativa che don Abbondio scarta a priori senza comprendere cosa ciò significhi. Eccoci nel regno del particolare concreto. Ma anche dove in un’opera letteraria si incontrano enunciati generali, è l’insieme delle circostanze particolari a produrre una pressione osmotica sull’esperienza del lettore. D’altronde, se noi siamo permeabili ai casi particolari è perché la vita ci viene appunto incontro come una sequenza (o un complesso) di circostanze particolari. 

 

Non di meno, perché il processo abbia luogo – perché la letteratura funzioni come tale – il lettore, per parte sua, si deve sentire coinvolto. Se ne deve interessare: cioè, letteralmente, deve fingere di starci in mezzo (inter + esse). Deve sentirsene, se non rapito, almeno attratto: ovvero interpellato, chiamato in causa. Il meccanismo è quello della proverbiale massima oraziana: mutato nomine, de te fabula narratur (Sat., I, 1, 69-70) Non si dà esperienza letteraria senza un qualche grado di immedesimazione. Sarebbe sbagliato, peraltro, appiattire l’idea di immedesimazione sulla dimensione emotiva e sentimentale, in particolare sulla spinta all’identificazione empatica con i personaggi romanzeschi. Una forma di empatia c’è sempre, ma può investire anche l’attitudine problematica o umoristica o raziocinante che prende corpo nel discorso. Chi parla – chiunque esso sia – la incarna, la incorpora. Il discrimine è sempre un particolare tipo di corporeità, la materialità (sia pur virtuale) di una presenza personale. 

 

Vediamo ora più da vicino la questione dell’insegnamento. Si può insegnare la letteratura? Qui Bottiroli ha ragione: «ciò che un insegnante di lettere può fare è creare le condizioni perché sia possibile un’esperienza estetica. Non la può imporre, ma la può favorire». E ha ragione anche nel sostenere che non deve produrre ostacoli. Io direi, più drasticamente, che dovrebbe evitare di fare danni: primum non nocere, secondo l’aureo monito della scuola salernitana. Lo seguo meno, invece, quando mette in opposizione l’attenzione ai «testi» e l’attenzione ai «contesti», denunciando le nefaste conseguenze del «contestualismo» («il contestualismo uccide la letteratura»). Certo, trattare un testo alla stregua di mero documento di qualcos’altro, riducendolo a pezza d’appoggio per disquisizioni d’ordine storico, psicologico, sociale, «culturale», significa soffocarlo. Danni non meno gravi sono stati prodotti tuttavia – a quanto mi consta, soprattutto a scuola – dall’abuso di nozioni e griglie elaborate dalla teoria letteraria. Non si legge un romanzo per imparare cosa significano le parole «prolessi» o «analessi».

 

A uccidere la letteratura, a mio avviso, è l’indifferenza nei confronti dei lettori. Io non distinguerei tanto fra «artefatto» e «oggetto virtuale» (termine con cui Bottiroli intende «l’insieme delle interpretazioni possibili»), bensì fra «testo» e «opera», dove l’opera è il testo concretamente riattivato dalla lettura: eseguito – nel senso musicale della parola – da un lettore o da una comunità di lettori. Franco Brioschi cita a più riprese – fra l’altro, nella prefazione a Gli immediati dintorni. Primi e secondi di Vittorio Sereni (Il Saggiatore 2013) – l’epigramma riportato da Possidio alla fine della sua biografia di Sant’Agostino. L’intento del poeta latino era di celebrare la funzione eternatrice della poesia, ma questi due versi si prestano benissimo a rappresentare la riattivazione del testo ad opera del lettore: Vivere post obitum vatem vis nosse, viator? Quod legis, ecce loquor; vox tua nempe mea est («Vuoi sapere, viandante, se il poeta vive dopo la morte? Tu leggi, ed ecco io parlo: la tua voce è la mia»). La poesia rivive, anzi, vive letteralmente nella lettura. Ora, se la letteratura conta in quanto simulazione di esperienze, non si può trascurare il fatto che ogni esperienza è contestuale. Detto altrimenti, chi insegna, insegna sempre a qualcuno: e ciascuno dei soggetti implicati porta con sé un insieme di contesti dai quali non si può prescindere (anche se ovviamente occorre guardarsi con cura dalle derive impressionistiche).

 

Dimostrare che un testo letterario consente molte possibili interpretazioni, o che è stato letto in molte diverse chiavi, è istruttivo ma non cambia le cose, almeno finché non si sia attivata una forma di immedesimazione, di partecipazione – cioè non sia stata intaccata l’indifferenza del destinatario. Il punto cruciale è che da quel testo dovrebbe arrivare, qui e ora, qualcosa di importante per chi lo sta leggendo. Che cosa, è ovviamente impossibile dirlo a priori (in fondo, è il bello della letteratura). 

Da questo punto di vista, l’insistenza di Nadia Fusini sul ruolo del lettore (Leggere con l’orecchio) mi trova del tutto d’accordo. Il centro dell’esperienza letteraria è la lettura: giustissima, quindi, la richiesta che per il fine della «educazione alla lettura» s’impegnino «la scuola, l’università, la critica e l’estetica». Avrei tuttavia una marginale riserva sulla svalutazione della lettura «di evasione». Offrire la possibilità di evadere da un presente frustrante, opprimente o doloroso non è cosa da poco: e, al di là del refrigerio momentaneo, le esperienze estetiche «di evasione» possono poi anche produrre effetti collaterali molto più consistenti e meno effimeri di quanto sospettiamo. Di contro, chi legge con lo scopo «serio» di capire come va il mondo può benissimo commettere errori, incorrere in malintesi. Ben peggio dei lettori ingenui o disimpegnati sono i lettori superficiali, presuntuosi, capaci solo di trovare conferme a convinzioni già acquisite.

 

Un’immagine di buon lettore si trova nelle parole del romanziere Silas Flannery, l’alter ego di Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore: «Dai lettori m’aspetto che leggano nei miei libri qualcosa che io non sapevo, ma posso aspettarmelo solo da quelli che s’aspettano di leggere qualcosa che non sapevano loro».  

Concludo. Nell’università di un tempo si poteva dare per scontata, forse, una diffusa familiarità con l’esperienza letteraria. Gli studenti, almeno nelle Facoltà di Lettere, nutrivano un consolidato interesse per la letteratura: se non proprio per tutti gli autori del nostro canone storico-letterario, certo per molti classici della modernità. Ignoro se queste circostanze si riproducano oggi in qualche isola privilegiata dell’arcipelago accademico. Personalmente, insegno in corsi di laurea dove la letteratura non è in cima ai pensieri degli studenti, quindi non posso non pormi il problema di interessarli, nel senso indicato sopra. Mi sforzo di far sì che le letture che propongo interagiscano con le loro coscienze – s’intende, nei modi propri della letteratura. So per certo che non ci riesco con tutti, né – temo – con la maggior parte; mi auguro di riuscirci almeno con qualcuno. Da tutti cerco però di pretendere che si rendano conto della densità del testo letterario, della pregnanza dell’uso delle parole, della complessità della costruzione del discorso, dell’importanza dei temi toccati. Tanto non basterà perché abbia luogo una vera esperienza estetica; ma se nel frattempo sarò riuscito a non suscitare un disgusto eccessivo, una reazione di repulsione per la letteratura in generale, potrà valere, forse, come presupposto o piattaforma di esperienze future. Non molto, ma meglio che niente. 

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