Diario clinico 7 / Il senso di abbandono

16 Marzo 2021

“Che dire, non sono concentrata, continuo a pensare all’andamento del virus, sono stufa di parlarne e di sentirne parlare, ma è la prima volta che sento di appartenere a una collettività. Ho paura di vaccinarmi, lo faccio per senso del dovere nei confronti degli altri”. Si parla del più e del meno, chissà se si potrà andare in vacanza, chissà se con il nuovo governo cambierà qualcosa. Sono conversazioni non analitiche, così le chiama Ogden, che partono da un film, uno spettacolo, un libro, la politica. Ricordo a Luisa un suo sogno recente: litigava con il padre che assumeva una posizione negazionista, una posizione che hanno anche diverse sue amiche. La tonalità cambia, la voce si abbassa, le associazioni aprono a un’altra dimensione, diventa un parlare come sognare.

 

Nell’ora d’analisi non si sa mai quale sarà l’argomento, nell’imprevedibilità sta la vitalità. Quel non sapere, non poter predire: quell’effetto sorpresa nel quale credono Bion e Fachinelli. Come negli adattamenti del setting imposti, quest’anno, da quanto sta avvenendo nel mondo esterno. I ruoli si sono spesso rovesciati. Il terapeuta si fa trovare puntuale davanti allo schermo, non è detto che il compagno d’analisi arrivi in tempo. Potrebbe avere una call improvvisa, un’incombenza familiare urgente, un cambio di turno con il collega. Marco mi racconta che ha riunito il suo team e ha dichiarato a tutti che il giorno tale all’ora tale ha la seduta: è l’unico modo, mi dice, per garantirsi un’ora alla settimana, per sottrarsi alla tirannia della reperibilità. Il lavoro da remoto non ha diminuito l’ansia da prestazione. Essere a disposizione “acca 24” è diventata una condizione quasi naturale. Così si sceglie uno sfondo “artistico”, una sorta di quarta parete, per proteggersi dagli sguardi del pubblico. Il bambino di Alice ha cinque mesi, l’ha abituato a dormire di giorno e a star sveglio la notte per poter tornare al lavoro. Ogni tanto posiziona il computer lontano da sé, lo mette su un piano alto, nessuno la vede quando allatta. 

Giuseppe ha appena iniziato un nuovo lavoro, fa il programmatore, mi faccio descrivere la sua mansione, non capisco dove stiamo andando, qual è la questione, la connessione con il resto della sua narrazione. Un lungo silenzio, nel qui e ora Giuseppe rivive l’“atmosfera tombale”, quel vuoto dal quale possono affiorare le fantasie aggressive che tanto lo inquietano, che gli fanno chiudere nei cassetti tutte le forbici e tutti i coltelli.

 

Per Barbara la guerra è finita, non ha più bisogno di portare la targhetta con il nome del soldato, di portare la pallottola, come faceva da ragazza, di far vedere i tagli che rivelano le sue ferite – adesso sta pensando a una plastica, ma è anche la prima volta che me li fa vedere. Riesce a pensare da sola, non chiede più pensieri in prestito ad altri. Ma per questo teme di perdersi nella propria mente. Qui non sono conversazioni né dialoghi, sono momenti di riflessioni – li chiama monologhi della coppia individuale. È un lapsus?

Miriam sta finendo il dottorato, vive da sola, i genitori lontani, non ha fidanzati in vista. L’ultima volta che ha incontrato un’amica è stato un mese fa, adesso ha fatto la sua scelta: non ha più tempo nemmeno per la sua analista. Non ottiene il “beneficio assoluto” che si aspettava, si rende conto che, per costruire la sua carriera, ogni relazione va sacrificata. Cerco di rendere sensato il poco tempo che ho ancora a disposizione, mi ritrovo a immaginare quale serie mi sostituirà. Nell’anno appena concluso, nella solitudine dei numeri primi, anche il transfert si è spostato on line: la dipendenza dall’analista si è trasformata nel bisogno compulsivo della protagonista di una serie. Irene, una donna timida e insicura del suo eloquio in pubblico, non è riuscita a capacitarsi della sua identificazione con Tereza Mendoza, una delle narcotrafficanti protagoniste della Regina del Sud.

 

Ha voluto che vedessi qualche puntata anch’io, per capire come mai immaginare di impersonarla le facesse così bene. Irene ha sopportato la perdita del lavoro e la mancanza dei suoi cari guardando, in originale, così ripassava l’inglese, The Crown. La coltissima insegnante Alessandra, cool e minimalista, ha trovato il suo alter ego nel sostituto procuratore Imma Tataranni, in perenne viavai tra Matera e Metaponto. I suoi abiti tigrati, a strisce o a pois, la sua personalità irruenta e chiassosa, trasmettono forza al suo essere femminile.

 

Lo ammetto, anch’io ho la mia serie. Non mi ritrovo in Grace Fraser, la terapeuta impersonata da Nicole Kidman la cui vita in Undoing si capovolge: ma lei non esce mai di casa senza lo stylist. Preferisco le detective story di Candice Renoir, capace di indovinare il colpevole a partire dal dettaglio, dai resti di un barbecue rimasti in frigo. Bionda e grassottella, in lotta con la dieta, quattro figli e molti mariti, ogni mattina si ripete “io credo in me” e ascolta in macchina Aretha Franklin che canta Respect

Entrare in rapporto passando attraverso uno schermo, gli studi sono in corso, dà più forza alla proiezione, insinua la possibilità di un fraintendimento comunicativo. La restrizione di movimento e di relazione ha mutato gli usi e i consumi, rinchiude ognuno nel proprio mondo mentale. Dentro le quattro mura siamo ancora esseri onnipotenti e possiamo immaginare che quanto ci accade dipenda solo da noi. Siamo figure in attesa di definizione.

 

“Fuori si diventa ininfluenti, si è uno dei tanti, la casa è il dominio, il centro del mondo. È diventata un’istituzione totale. Ho paura di prendere aria, continuo a rimandare il momento in cui dovrò tornare in ufficio. Mi è venuta una forma di fobia sociale. Mi congratulo però con me stesso. Inizio a pensare che è molto più sano andare a letto presto, prima ti sentivi uno sfigato se dicevi vado a dormire, sono stanco”.  Alberto dedica più tempo ai suoi rituali, si controlla davanti allo specchio, accende e spegne il gas. Rimane folgorato quando gli dico che, a Freud, la nevrosi ossessiva appare come la “caricatura di una religione privata”.

Mi chiedo se il minor numero di toccamenti e sfioramenti fisici e mentali non abbia accentuato l’immersione nella propria coazione a ripetere. Spesso legata a comportamenti e posture che irrigidiscono la struttura della personalità e acuiscono la sensazione di insicurezza. Per Freud la coazione a ripetere poteva arrivare a uno stato di inerzia psichica; Jung, in Energetica psichica (1928), riscontra che in “ogni sistema relativamente chiuso quanto maggior è l’isolamento del sistema psicologico, tanto più si afferma il fenomeno dell’entropia”.  

 

Rovisto tra i miei pensieri, ripasso più volte il tragitto comunicativo che mi ha condotto fin qui – quella reiterazione incessante, cosa mi ha detto cosa gli ho detto – ripercorro le conversazioni speciali, così le chiamava Freud, della mia giornata. Il dialogare analitico forse ci rende un po’ ossessivi in quell’attenzione spasmodica al testo. Per fortuna il rimuginio è stato rivalutato, alcuni psicologi americani lo hanno riabilitato. Hanno scoperto che esprime anche capacità prognostica, previsione e ideazione. Possibilità di immaginare il futuro, dopo un incessante lavorio a posteriori. Rimuginare mantiene il legame, tiene a bada il senso di abbandono. Quel momento, ben descritto in molti romanzi, in cui il contatto si perde, il corpo si allontana, e tutto si confonde nella testa e nelle gambe, come accade al bambino nel momento in cui ha perso la mano della madre. È quello il terrore senza nome, una finestra sull’abisso in un’era arcaica, quando l’ombra di un ficus proiettava sulla parete uno spaventoso mostro. 

Ma la storia di un’analisi può portare rimedio: “Era un signore andato via./A lei qui rimasta tantissimo mancava./La traccia da lui lasciata segnava ovunque intorno a lei l’aria./Come un quadro spostato per sempre segna la parete”. Così dice Il signore d’oro di Vivian Lamarque.

 

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