Diario di un insegnante 1 / Lunedì sono tornato a scuola

2 Settembre 2020

Lunedì sono tornato a scuola. I corridoi, le scale, le aule, le foto alle pareti, persino le cose fuori posto erano al loro posto, un edificio intero in silenziosa attesa di piedi e voci. Dagli esami di luglio poco è cambiato; in un contrasto a volte stridente (ma non inatteso) con il resto del mondo, la scuola rimane un piccolo santuario silenzioso, un’oasi distante e distanziata di rumori ovattati, di luci mai forti, di saluti discreti, quasi un leggero brusio. La quiete di un edificio normalmente chiassoso è naturale per una scuola durante i mesi estivi, ma l’emergenza di questo strano anno ha amplificato tutto. La sala insegnanti, come a luglio, è ancora vuota. I cassetti con le loro targhette gialle, testimonianza di una corrispondenza biunivoca con noi esiliati, custodiscono le cianfrusaglie dimenticate prima della chiusura, forzieri in cerca di pirati. A dire il vero alcuni nomi andranno tolti, altri andranno aggiunti; siamo, prima di tutto, temporanei. Ora in giro c’è più vetro, mi è sembrato di notare; improvvise pareti trasparenti si sono alzate un po’ ovunque trasformando uffici, banconi e scrivanie in tanti piccoli acquari, pubblico e pesci da entrambe le parti.

 

 

Lunedì sono tornato a scuola come in quei racconti del mistero in cui il protagonista esplora, suo malgrado o per scelta, la casa disabitata di giorno e affollata la notte, aspettando, paventando e sperando volti consueti di fantasmi; ho cercato di interpretare il discorso di uno spazio vuoto, di sovrapporre a mesi di silenzio il confortante brulicare che questo luogo normalmente evoca. Per non farmi mancare alcun inutile dolore sono andato in 4N stando attento a non toccare nulla per non invalidare il paziente lavoro del personale (a cui dobbiamo tutti una sincera gratitudine). Ho accennato un appello sottovoce, nomi e volti assenti si sono per un attimo affacciati in questo gioco, nessuno ha detto presente ma nessuno si è sottratto al ricordo. Avrei voluto scrivere qualcosa sulla lavagna, un’equazione, un teorema, un semplice gesto di ricongiungimento; la cosa che forse mi è mancata maggiormente in tutti questi mesi è stata sgretolare un po’ di matematica su questa strana finestra senza vetro. Mi sono limitato a pensare a tutti gli anni che questi fogli di ardesia hanno visto, a tutto il gesso stratificato in spiegazioni, parole, formule; interi universi nati e perduti nell’arco di un’ora di lezione. Ho immaginato, mi capita spesso, chi mi ha preceduto ed è ormai polvere, come polvere è la cifra del mio mestiere, un quotidiano libro di sabbia come quello raccontato da Borges. Le lavagne sono clessidre che misurano con la polvere bianca di gesso le generazioni.

 

Lunedì sono tornato a scuola e mi sono accorto che ci sono rimasto per tutto questo tempo. Ho fatto finta di restare chiuso in casa, ho fatto finta di collegarmi ogni giorno, di fare appelli virtuali, di rispondere a un monitor, ho fatto finta di registrare le mie lezioni digitali la notte quando il mondo dorme e AW mi chiama dalla sua cameretta perché ha bisogno di un abbraccio, ho fatto finta di mantenere la distanza, una parola orribile che ormai popola acronimi pesanti come continenti. Ho fatto finta, per tutto questo tempo sono rimasto in classe tra un dizionario dimenticato e una promessa irrisolta. “Settimana prossima rivediamo meglio tutto”, sono le ultime parole che ho pronunciato un venerdì di febbraio convinto nella permanenza di gesti e abitudini. Quella scuola non esiste più, quell’insegnante fermo sulla soglia a salutare non esiste più. Il silenzio di strade e palazzi, la voce quotidiana dei morti, la parola assente dei vivi, il faticoso dialogo di ogni giorno ridotto a una questione tecnica, non c’è campo (o forse, anzi sicuramente, era scampo). Mentre chiedevo asilo alla 4N vuota ho ripensato alle tante voci che non hanno colto il problema, che non hanno visto la differenza tra distanza e assenza, a chi ha detto che in fondo era uguale. Anzi, meglio. E se qualcuno si perde è normale, si sarebbe perso anche in classe. Ho insegnato matematica per settimane a uno schermo cercando di far stare nel singolare un universo che ha natura plurale. Il problema della didattica a distanza non è nella mancata condivisione di un luogo, di un argomento, di un contenuto, ma nell’asettica rassegnazione a fare a meno degli occhi. Guardo sotto i banchi, non c’è più nulla, tutto è stato rimosso, tutto pulito, sanificato, non c’è posto per nascondersi. Dove siete? Anche questo, in fondo, è una specie di appello.

 

 

Lunedì sono tornato a scuola, ma adesso è passato, la settimana ha risposto con indifferenza da calendario alle mie perplessità e altri giorni sono arrivati. Ho riordinato appunti e pensieri, ho preparato le penne, i gessi, gli strumenti del reale; se è vero come qualcuno dice che agosto è una smisurata domenica, settembre sarà il lunedì che aspettiamo da sette mesi, un lunedì di sveglie e caffè, riunioni e decisioni. Non ancora, non adesso. A metà settimana abbiamo portato AW per la prima volta a Venezia; è stato bello vederla, ad ogni virata del battello, appendere gli occhi al mare mentre restituiva il prestito di case, torri e persone. Sembrava così piccola di fronte alla pietra e all’acqua, ho ripensato ai giorni in casa tutti uguali, alle sue domande, ai nostri sforzi per confezionare una normalità inventata; i giochi, i disegni, le notti ad aspettare un altro giorno. Adesso ha riconquistato l’aria e lo spazio e in parte anche il tempo, adesso il mondo le sembra di nuovo immenso, non più limitato al pavimento del salotto pieno di pennarelli e fogli e disegni tutti uguali. L’ho guardata a lungo sorridere a Carla, ai gabbiani, alla stupidità di vetrine inutili in cui Venezia muore e risorge ogni giorno. Ho pensato a quello che verrà, alle mille difficoltà di un’età che esige l’abbraccio e il respiro e che troverà regole e divieti e metri che sembreranno anni luce. Tornando a casa si è addormentata in macchina, chissà se ha sognato il marmo che esce dall’acqua, una maschera che le ha fatto un po’ paura, i gatti che l’hanno accompagnata quando chiedeva dov’era il mondo. Dov’era il mondo?

 

Lunedì sono tornato a scuola, poi ho fatto altre cose e non ci ho più pensato. Ho preso i libri di scuola per F facendo la fila in mezzo ad altri genitori mascherati, ascoltando lamentele, previsioni, accuse e speranze, rimanendo mimetizzato nel mio silenzio con la paura di essere scoperto. Due sacchi pesanti, adesso che non è con me li ho riposti io sulla sua scrivania in attesa che torni, che finisca il mio turno di guardia in questa stanza troppe volte vuota. Guardo con speranza questi volumi, epoche ed epiche stampate con impersonale ripetizione, gradini di una scala che a volte fatico io stesso a immaginare. Penso a F esiliato in un monitor, il suo lungo inverno diviso tra due case ad ascoltare cuffie invece di voci, a guardare video invece di volti (come non pensare ai versi di Tranströmer “uomini con il futuro al posto del viso”), a inventare per settimane una vita sociale nella singolarità di una camera vuota. Ce lo eravamo immaginati diverso il suo primo anno alle superiori, così felici che avesse scelto la sua strada, sollevati dalla sua decisione di una scuola diversa dalla mia. Mi chiedo se sia pronto dopo questi mesi a tornare alle corse in corridoio, al suono di una campanella, a scoprire simpatie e antipatie, a mediare, scegliere, sbagliare, osservare, a caricarsi di quella responsabilità dell’errore di cui sente parlare ma che nessuno ancora gli concede veramente. Quando mi manca cerco di immaginarlo ormai adulto, io che ancora adesso lo ritraggo con il volto di un bambino.

 

 

Lunedì sono tornato a scuola, o forse son stato fermo ed è la scuola che è tornata in me. Vuota, asettica, silenziosa, in attesa; un deserto o un labirinto o (di nuovo Borges che mi parla) entrambi. Adesso che è domenica sera e il mondo sembra così lontano, adesso che Carla dorme con lento movimento di lenzuolo oltre questa parete, adesso che AW sogna il suo piccolo universo ricorsivo in cui una bambina sogna il nostro, adesso che F è tornato in una casa tanto vicina quanto irraggiungibile, adesso mi sembra di vedere tutto quanto cadere di moto accelerato, io osservatore immobile. Forse la mia è una speranza, rallentare questo tempo, le notizie, le accuse, le colpe, le incertezze, le mille opinioni di chi non ha mai messo piede in una classe da adulto e adesso si nutre del nostro silenzio, lo mastica, lo sputa. Quando qualcosa cade verso un buco nero e si avvicina al suo raggio di Schwarzschild il tempo rallenta, per chi rimane da questa parte non esiste passaggio al di là se non in un futuro infinito, rimane tutto perennemente congelato su quella superficie ideale che è l’orizzonte degli eventi. Rimango aggrappato ancora un po’ da questo lato, mi tengo stretto mentre il mondo cade verso quella membrana che ha la magia di una fotografia sovraesposta dove persone, parole, verità, speranze e idee si accumulano, si sovrappongono, si confondono, spariscono senza fretta. Tra qualche tempo dovrò lasciare questa mia piccola porzione di spaziotempo, mollare la presa e cadere anche io nel flusso del reale, assecondare le forze di marea e varcare, come tutti, la soglia. Spero di ritrovare il plurale di cui la scuola ha bisogno, per ora mi accontento di osservare l’orizzonte avvolgere gli eventi e trattenerli, settimana prossima ci penserò.

 

Riccardo Giannitrapani insegna matematica e fisica in un liceo scientifico di Udine. Ha pubblicato Un labirinto incerto. Appunti per una poetica della matematica, Mondadori 2019.

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