Carnet geoanarchico | 9 / Neogeografia

22 Gennaio 2019

C’è una frase attribuita a Slavoj Žižek (o a Mark Fisher, o a Fredric Jameson) che gira insistentemente in rete con la stessa inefficacia di una perla di Paulo Coelho: «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». Sempre la rete, da settembre 2018, ci rimbalza la notizia del ritrovamento del più antico disegno dell’uomo (-73.000 anni) nella caverna di Blombos in Sud Africa. L’Apocalisse di Žižek e la Genesi di Blombos, la fine dei tempi e l’alba del pensiero simbolico. Werner Herzog, nel documentario Cave of Forgotten Dreams (2010) dedicato all’arte rupestre della grotta Chauvet (-32.000 anni), tenta un’associazione simile. Dopo aver filmato le pitture figurative più antiche dell’umanità, con una vertiginosa panoramica “a schiaffo” salta all’oggi, al domani, e filma dei coccodrilli albini in una serra vicino a Chauvet, riscaldata dalle acque di raffreddamento di una centrale nucleare. Bisonti, felini, cavalli, orsi e mammut da un lato, rettili mutanti dall’altro, eredi forse di un mondo post-umano, la promessa di una terra senza di noi. In The Pervert’s Guide to Cinema (2007), Žižek aveva detto che il suo problema con Herzog «è l’ossessione distruttiva, la forza che mette nella creazione dei suoi film – è troppo forte, semplicemente stravolge il film». E il punto (il ponte) tra Genesi e Apocalisse è proprio questo: la forza stravolgente dell’immaginario, il suo dissolvimento.

 

 

Andiamo a Blombos. È dai primi anni Novanta del Novecento che si scava a Blombos e che a puntate si scoprono reperti in grado di retrodatare l’insorgere del pensiero simbolico in Homo sapiens. Questa volta si tratta di una scheggia di silcrete con tratti non casuali in ocra rossa, «il più antico disegno dell’uomo», che mostra che “far segni” a quell’altezza cronologica era già un tratto stabile nel pacchetto cognitivo della specie. La notizia è stata data su Nature il 12 settembre 2018, dopo che il 23 febbraio 2018 Science aveva annunciato che la più antica arte rupestre del mondo risaliva a -64.000 anni, e che era opera dei Neanderthal. L’articolo riguardava un altro disegno in ocra rossa, ritrovato su una parete della Cueva de los Aviones in Spagna. Per chi studia la concettualità preistorica siamo in presenza di due notizie-bomba a una distanza così ravvicinata da insospettire. Per decine di anni la versione ortodossa propugnata da alcuni noti ricercatori (soprattutto del Max Planck Institute) è stata chiara e perentoria: l’arte nasce unicamente con Homo sapiens sapiens, se troviamo tracce di comportamento simbolico in Neanderthal è solo per acculturazione, per imitazione da contatto con noi “umani”. La Cueva de los Aviones è stata un temporaneo terremoto nel dogma, per fortuna è arrivata Blombos a ristabilire il primato della specie… Comunque sia, questa corsa affannata alla retrodatazione ci dice almeno una cosa: la storia della cognizione umana gode di ottima salute. Invece la geografia?

 

 

La geografia è morta. È morta con l’era delle grandi esplorazioni. Cook, Franklin, Speke, Burton, Nansen, Scott, Shackleton. Sono loro che hanno fatto (e che hanno chiuso) la vera stagione eroica delle scoperte geografiche. Poi sono arrivati i satelliti, e adesso c’è Google Earth. Apollo 11, Voyager e Insight sono la traccia definitiva di una resa terrestre: per continuare le grandi esplorazioni occorre andarsene via, bisogna rilanciare verso la Luna, verso Marte, come promette da tempo Elon Musk. La geografia è finita. Lo si era capito da molte cose, ad esempio dalla svolta epistemologica del Novecento: relatività, psicanalisi, esistenzialismo, filosofia del linguaggio, strutturalismo, postmodernismo, per non parlare degli innumerevoli “turn” che hanno interiorizzato, arretrato o dissolto l’altrove. Così i nuovi geografi, un po’ smarriti, un po’ raminghi e sconsolati, si sono dovuti riciclare, si sono fatti culturalisti, tirando la coperta ai sociologi, agli antropologi, ai letterati, perfino agli architetti. Ma la realtà è diversa: checché se ne dica, la geografia si occupa essenzialmente di immaginario, e ciò che davvero conta in una mappa è proprio ciò che manca. Chi non capisce questo dato elementare ha frainteso la vocazione della geografia, della cartografia, delle esplorazioni: spostare l’immaginario, spostarci con esso.

 

Immaginiamo allora di proporre a un mecenate illuminato una spedizione geografica nel XXI secolo. Personalmente sceglierei il Passaggio a Nord-Ovest. Un mito geografico, filosofico, letterario. Un’impresa esplorativa ardua che fino a una decina d’anni fa era una rotta impraticabile. Oggi il Passaggio a Nord-Ovest non è più quello di John Franklin, è un immenso arcipelago in drammatica trasformazione, aperto a viaggi sempre più addomesticati da offerte turistiche a 4 zeri, reso agibile per la prima volta in 100.000 anni dal surriscaldamento globale. Che senso ha, quindi, ripercorrere oggi la storia eroica e la geografia in dissoluzione di un luogo fisico e mentale, quello che per secoli è stato il Sacro Graal delle esplorazioni geografiche? Che cosa andare a cercare oltre a ghiacci coreografici, geologie antichissime, residui di popoli nativi ormai distrutti dal consumismo e dall’alcol? Ci vorrebbe un’idea forte, perché non basta dire che il Passaggio a Nord-Ovest è un laboratorio climatico e culturale a cielo aperto, un osservatorio sull’imminente futuro del pianeta, sulle colpe e le virtù di Homo sapiens sapiens in una delle terre più profondamente segnate dall’Antropocene. È vero, tra pochi anni sarà tutto diverso e prima che sia impossibile sarebbe bene andare a vedere, fotografare, raccontare. Ma no, per quanto sia tutto giusto, non basta.

 

 

Torniamo a Blombos. Che cosa ci insegnano quei pochi segni d’ocra rossa? Abbiamo accennato alla storia. Guardiamo la geografia. Siamo in Sud Africa, più a sud di Città del Capo e poco più a nord di Capo Agulhas, l’estremità più meridionale del continente africano. La caverna di Blombos si trova in un autentico finis terrae e standoci dentro, guardando verso l’uscita, verso sud, si vede il mare, un mare in cui le acque dell’Oceano Atlantico e dell’Oceano Indiano si mescolano, un’area di correnti calde e fredde, pescosissime, dove la prima terra che si incontra andando a sud è l’Antartide. In quel punto la migrazione di Homo sapiens si è arrestata, da lì in poi non c’era più niente, il mondo conosciuto si fermava come sull’orlo di una mappa. In quel punto i nostri antenati hanno trovato un non-oltre, ma anche un inizio: il corpo si è fermato, ma non il viaggio. Nell’altrove in cui non potevano andare c’era qualcosa che solo un “acchiappasogni” era in grado catturare. Pochi segni d’ocra, una nassa simbolica gettata nell’invisibile, una mappa per l’oltre. Ecco allora che cosa andrei a cercare oggi nel Passaggio a Nord-Ovest. Non dei luoghi, ma il loro farsi luogo nella mia testa: le fluttuazioni attuali dell’altrove, l’esposizione della mente a un mutamento di paradigma, la genesi di un immaginario, tradurre il paesaggio in ragionamento, l’equazione tra mindscape e landscape. Perché proprio lassù? Perché lassù la geografia è completamente finita. E perché lassù, dove non c’è più niente, potrebbe anche ricominciare.

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