Diario clinico / Personalità "come se"
Nella grammatica dei sentimenti si introduce la mestizia, e la possibilità dell’Allegro sfuma in velocità più moderate, mentre temiamo di sbiadire in una nota sola. Si può anche sognare di gridare tutti insieme: io sono un autarchico, ma non è facile capire – siamo migliorati, siamo peggiorati, ci siamo trasformati o cristallizzati, chissà, nella routine da eterno presente, di vite iperconnesse fisicamente separate, in un mondo diviso in zone dove il paesaggio della psiche diventa l’infinito in cui si rischia di sprofondare.
L’esterno appare differente da come solitamente lo si è esperito, mentre dentro casa la rappresentazione visuale si espande. Lo schermo ci conduce in terre finora inesplorate. Come se stessimo contemporaneamente osservando e partecipando a una partita a tennis che non ha né racchette né palline. Così capita in uno dei finali più famosi del cinema d’autore, quello di Blow-up (1966), perché non è detto che il protagonista riesca a comprendere che cosa accade in quel mondo dove la realtà è stata sostituita dalla sua rappresentazione.
L’incontro virtuale è pane quotidiano, l’adolescente digitale ora siamo tutti noi: abbiamo moltissimi contatti, ma vediamo pochi amici, continuiamo a riversare nell’etere stati d’animo per rassicurarci che l’isolamento non accresce la solitudine. L’aggressività verbale si libera via email, facebook, e zoom (pensiamo al fenomeno dello zoombombing). Ma è significativo che nelle partite di calcio senza pubblico sia diminuito il numero dei falli: il gioco duro ha bisogno dello sprone degli spettatori. E penso alle ricerche su adolescenti, consumatori passivi e compulsivi di video, alle ricerche sui bambini e adulti, durante i dieci anni delle guerre balcaniche di fine Novecento, esposti alle radiazioni di una televisione che grondava orrore. Le conclusioni sorprendevano. Il rapporto prolungato con lo schermo non produce maggiore violenza, né reazioni attive di aggressività, ma fenomeni di desensibilizzazione, sensazioni diffuse di derealizzazione e depersonalizzazione. Insonnia, apatia, ritiro, labilità di contatto con il mondo di fuori. Un’assenza di autenticità che si esprime in vite “come se”.
Helene Deutsch è stata la prima a occuparsi di questi stati mentali transitori, abbastanza diffusi, in bilico tra normalità e patologia, che ha chiamato “come se”. Le personalità “come se” trasmettono a chi le osserva la sensazione di “completa normalità”, accompagnata però dall’impressione che manchi sempre qualcosa. Uno slancio affettivo, un abbraccio caloroso, un sentimento spontaneo.
Mi chiedo se non stiamo diventando un po’ tutti personalità come se, mentre camminando intercetto i discorsi del gruppetto nella verandina sorta davanti al bar. Sono tutti uomini, il bar all’aperto è come quelli di una volta, la sua maggioranza è maschile. E se il vaccino, e se Conte, e se l’insegnante… Insomma, mi confermano la forza attuale della congiunzione se.
Nella stanza d’analisi continua lo slalom tra le parole, le sedute spaccano il minuto, non ci sono ritardi nelle conversazioni via Skype, WhatsApp o Facetime. Ho sempre addosso il mio profumo e cambio sempre l’acqua ai fiori, cerco di ricordarmi il richiamo olfattivo del singolo, però mi devo arrendere all’eccesso di verbalizzazione. Difficile lanciare una battuta ironica, difficile mantenere il silenzio. A settimane alterne, la pesantezza coglie un po’ tutti. Trasmettere vitalità senza irritare, accennare alla possibilità di un buon umore senza che sembri segno di cattiva educazione. Inventarsi, fantasticare, immaginare fughe e uscite di sicurezza, qualcosa di nuovo, qualcosa di sconosciuto. Come l’incontro con uno sconosciuto.
Il terapeuta diventa un po’ attore, ogni volta deve bucare lo schermo: per tenere il legame, per strappare l’altro all’inerzia che lo porterebbe a raggomitolarsi nel suo claustrum, per convincere entrambi dell’importanza radicale della relazione. Per evitare che le file di parole, come luminarie appese, improvvisamente possano rovinare a terra. Per dribblare la carica magnetica dei meccanismi proiettivi che l’impossibilità di essere rassicurati da un gesto produce – “ma lo sa che è un anno che nessuno mi tocca” –, della sospettosità leggermente paranoica che le parole senza messaggi corporei e un ridotto contatto visivo possono provocare.
E io faccio quello che facevo fin da piccola, quando prendevo tre o quattro volumi alla settimana in biblioteca, e c’era l’angustia, quello spazio continuamente inarrivabile tra la vita e la forma sulla pagina.
E faticavo alla ricerca della corrispondenza, tra la lingua madre, il croato, e la lingua matrigna, l’italiano, tra il testo e il pretesto. Sempre in bilico, tenevo insieme i due genitori, le due città – Zagabria e Milano. In questo modo ero sempre in compagnia di qualcuno, non rischiavo di sparire dentro, sola, mangiata dall’altra me. Ho attraversato la mia vita in uno stato di perenne passione relazionale per ritrovare il piccolo me. Con un amico immaginario che mi accompagna ancora oggi. Sempre stupito di quelle presenze strane, quegli altri, i noi adulti.
Trovare le parole per dirlo è rimasto l’esercizio del giorno. E come in questo periodo sta accadendo a molti, anch’io getto uno sguardo nel passato, nella mia dimensione vintage. Il mio ricordo mi vede, poco più che ventenne, folgorata dal libro, appunto Le parole per dirlo, di Marie Cardinal (uscito in italiano nel 1976). L’idea che si potesse dire del sangue, del ciclo, delle mestruazioni (termine desueto!), confessare lo scandalo di quel dolore del femminile. Un tutt’uno con la scelta del primo viaggio analitico.
E sono ancora qui.
Forse, perché, come scrive in Il bel rischio, Michel Foucault, In fin dei conti l’unica patria reale, l’unico suolo sul quale possiamo camminare, l’unica casa in cui possiamo fermarci e trovare riparo è appunto il linguaggio, quello che abbiamo imparato fin dall’infanzia.