Michele Mari: quell'ossessivo primo romanzo

15 Giugno 2024

“Instabilità metamorfica” (p.47) e poi, anche, “infida transitabilità delle forme” (p.101). Questi paiono essere gli elementi caratterizzanti nella vicenda, raccontata in prima persona da un anonimo io narrante, del nuovo romanzo di Michele Mari, Locus desperatus, Einaudi 2024. È un io nevrotico, di una nevrosi assoluta, che è costantemente prigioniero degli svariati rituali protettivi di cui la sua nevrosi si alimenta per limitarsi. Ma essi non sono sufficienti, anche perché una triste mattina egli scopre sulla sua porta di casa, tracciato da mano altrettanto anonima, il segno della croce. Spaesamento e destabilizzazione s'impossessano di lui. Chi ha segnato la sua porta? Che significato ha quel segno, o, meglio, IL segno? Comporta elezione salvifica o distruzione?

Ben presto scopre come stanno le cose, o almeno così crede.

Un certo gruppo di personaggi misteriosi lo vogliono semplicemente far sloggiare da casa sua, una casa museo, stipata di cose e libri, per sostituirsi a lui e subentrargli.

Ma anche gli aderenti a questa enigmatica setta patiscono della stessa mutevolezza continua che definisce tutto quello che accade nel corso della vicenda. Il primo di questi ha un nome singolare, Asfragisto. Come a dire che non è sigillato, se è vero che, in greco, sphragìs indica il sigillo. E infatti costui, che rivela per primo al narratore le mire occupatorie del gruppo, quando ricompare in un secondo momento sulla scena, nega di essere sé stesso, dandosi letteralmente del “coglione” (ossia dicendo “Asfragisto è un coglione”), ma poi un particolare rivelatore gli accredita irreparabilmente la propria identità negata: egli è ghiotto di sambuca, esattamente come Asfragisto (dato che è lui Asfragisto). Anche un altro appartenente alla setta, Procopio, falso latinista, si mostra prima nelle veci di un mendicante piegato in due dalla malattia e dal dolore, per poi riaffacciarsi sul proscenio, in un secondo momento, come uomo elegante e dal portamento disinvoltamente eretto.

In genere gli incontri con questi sinistri figuri avvengono in bar malfamati, gestiti da baristi e bariste altrettanto mutevoli o mutanti.

Anche i compagni di classe, anche la madre (defunta) e vecchi amici del narratore subiscono lo stesso destino, al punto che egli non esita a crederli ultracorpi come quelli del noto film di Don Siegel. La dimensione dell'ultracorpo, come si vede dal caso della madre, non riguarda più solo il presente, ma si è estesa anche al passato. Che è metamorfico come e più dell'oggi. Persino i libri della biblioteca del narratore perdono la compattezza delle loro pagine, i caratteri si mescolano, le storie si confondono, come se gli ultracorpi succhiassero la memoria di chi racconta. Trasferire i libri in una seconda casa lacustre o in un appartamento confinante non serve a molto.

Egli stesso, naturalmente, finisce per sdoppiarsi a sua volta e si vede e sente esistere una sua mesta esistenza separata, come Laura Mars vedeva se stessa nell'altrettanto noto film.

Non tutti i personaggi sono avversi al narratore. Un aiutante prezioso e dotato anche lui di poteri extra-sensoriali si dimostra essere Sileno, l'uomo-morchia che si nutre di acetone e trielina e simili. Ma, come si capisce, non è certo un campione di stabilità, questo informe ammasso che ovunque passi lascia una scia come di catrame.

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Ma la difesa più forte, di fronte a questo attacco di nemici tanto subdoli e invadenti o invasivi, pare essere quella della cultura. Il narratore si fa forte di una difesa libresca, fatta di citazioni continue, che vanno dai foscolismi e dantismi scontati (“non son chi fui, perì di noi gran parte”, “orazion picciola”) al Machiavelli della lettera al Vettori (“condecentemente vestito con panni curiali”), dai latinismi desueti come “scelo” o “rore” all'italiano arcaico di termini come “niego”. Non solo: il continuo riferimento a testi, film, situazioni topiche della cultura alta o di quella pop sembra obbedire alla necessità di mostrare una memoria sempre attiva, un cervello che non smette di funzionare nonostante i ripetuti tentativi di colonizzazione estranea. Al punto che anche la storia della croce sulla porta (croce che viene continuamente rifatta nonostante le cancellature) viene in certo senso filologizzata. Quella croce viene ricondotta alla “crux desperationis” o obelo, segno che i filologi alessandrini apponevano accanto a passi non emendabili, il cui senso e la cui lettera rimanevano insoluti e insolubili. La casa del narratore gli si rivela dunque infine per autentico “locus desperatus”. Del resto già prima di questa folgorante intuizione egli, per parlare dei suoi compagni di classe irriconoscibili, aveva evocato il “caos adiaforo della reversibilità”, dove è da sapersi che “adiafore” vengono chiamate, sempre in sede di edizione critica, le varianti indecidibili, ciascuna teoricamente ammissibile ma non in via esclusiva. E poi, ancora, poco dopo, e sempre per questi suoi compagni di classe che parevano afferire a due classi parallele solo parzialmente sovrapponibili, è chiamato in causa un altro termine tecnico dell'ecdotica, ossia la “contaminatio”. Di fronte al caos dell'esistenza, di fronte all'assurdo, il narratore si affida ostinatamente alla razionalità della filologia. Egli filologizza il mostruoso e il grottesco. Egli resiste.

La sua è sempre stata del resto “una vita in difesa” (p.99), una vita interstiziale, vissuta “negli interstizi delle cose” (p.95), una vita “delegata alle cose e ai libri” e questa situazione di emergenza non fa che accentuare ed esaltare alla massima potenza tale tendenza abituale.

E così saranno le cose, i suoi oggetti disparati, le sue collezioni, oltre che i suoi libri, tutti elementi con cui non solo trascorre il tempo ma con cui parla e si confida e delibera, saranno questi oggetti imbevuti di psiche, ormai divenuti soggetti, a ergersi a baluardo della casa e del loro signore-capitano-sottoposto, ma il modo preciso non lo svelerò. Veda il lettore.

La conclusione comunque pare improntata a positività.

Tutto il libro può anche essere descritto come un'enorme Ringkomposition, come dicono i filologi classici, una composizione anulare: nella prima pagina e nell'ultima il narratore compie il gesto rituale per eccellenza chiude la porta di casa con un complesso di ben undici differenti operazioni: con la decisiva e assai significativa differenza che all'inizio la porta viene effettivamente chiusa, alla fine il gesto della chiusura è invece solo mimato.

Per il resto, anche in queste pagine come in molte altre dello stesso autore si notano influenze di Manganelli (là dove il protagonista è presentato come un re o un monarca assoluto del suo ambiente domestico), di Landolfi (l'incontro con l'espansa compagna di classe che secerne colostro, oltre che i vari “al certo”, “al tutto”, “alle brutte”, landolfismi minori) e di Gadda, per esempio nelle frequenza della fusione dei sostantivi, come nell'abnorme “neo-porro-bubbone-ragno di Asfragisto”, oppure nella produttività del suffisso -izzare, ad esempio in “procopizzare” e altri.

Va da sé che in questo libro folto, denso, fitto di oggetti, il procedimento retorico che la fa da padrone è l'enumerazione, e nello specifico, quel caso particolare di enumerazione che Leo Spitzer chiamò “caotica” che si può esemplificare con questa di p.89: “un bicchierino da liquore in cristallo molato; un'acquasantiera in peltro; un album di Asterix (Asterix e il falcetto d'oro); una pompa di bicicletta; una roncola; una lente d'ingrandimento con il manico d'avorio; un'agenda vuota del 1969; un flipper da tavolo, a molla, una brocca in ferro smaltato”.

Nel complesso l'intero libro pare configurarsi come un oggetto apotropaico-talismanico, o come un incantesimo, molto riuscito peraltro.

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