Il mio mercatino di Natale
C'era una volta una piccola città, morbidamente adagiata sul fondovalle, ai piedi di un'ardua giogaia di monti. C'era e c'è ancora, pare. Questa piccola città, in dicembre, approssimandosi il Natale, rimaneva sempre piccola, ma sembrava parecchio più grande, dato che vi si affollava un numero di visitatori disumanamente alto.
La piccola città, come tutte le città, era altresì dotata di un regolamentare nome proprio, che però, nella fattispecie, era anche comune, comunque geografico, ossia Meridiano.
Orbene, sotto le feste, come si dice volgarmente, torme di turisti si avventavano sull'inerme borgo alpigiano. Più che turisti però li si potrebbe definire a rigore pellegrini. C'era forse un Santuario miracoloso, a Meridiano? O una Chiesa particolare, presso la quale impetrare particolari grazie? C'era per caso una Sacra Immagine o Statua o altro simulacro taumaturgico? No. Niente di tutto questo. A Meridiano c'era il Mercatino. Ovvero, per essere precisi, il Mercatino di Natale di Meridiano.
Il Corso principale di Meridiano, che i meridianesi, in un empito di megalomania meridiano-centrica avevano chiamato Corso Meridiano (un po' come se a Venezia Piazza San Marco si chiamasse Piazza Venezia, o a Roma via del Corso si chiamasse Via Roma o, a Milano, Piazza Duomo si chiamasse Piazza Milano), si trasformava per l'evenienza in un set di film western o nella fedele ricostruzione di un villaggio neolitico o, suggerivano i più perfidi, in una parodia di agglomerato di abitazioni provvisorie per profughi o terremotati o colpiti da altre similari calamità naturali. Nel senso che baracche, baracchette e baraccone lignee si disponevano ai due lati del Corso suddetto in una teoria pressoché infinita.
Ognuna di queste baracche e baracchette e baraccone vendeva determinati prodotti, natalizi e affini. Per esempio candele al profumo di speck, stecche d'incenso automatico (si accendevano da sé non appena faceva buio), alberelli di Natale in vetroresina con lucine psichedeliche intermittenti incorporate, palle di Natale fluorescenti levigatissime, angeli di marzapane e angeli di panpepato, nonché angeli di biscotto e cannella. Poi, prodotto particolarmente fortunato, simpatici colbacchi in pelo di pony avelignese, guanti foderati di pelo di pony avelignese, pantofole di feltro, rivestite di pelo di pony avelignese, nonché sciarpe e scialli in pelo di pony (avelignese).
Erano tutti prodotti tipici meridianesi, che, come tutti i prodotti tipici di tutti i posti del mondo (tranne Hong Kong e Taiwan) venivano direttamente da Hong Kong e Taiwan. (A Hong Kong e Taiwan non perdono tempo con i loro propri prodotti tipici, occupati come sono a produrre quelli degli altri). Uno qualunque di questi sapidi articoletti (ad esempio le candele al profumo di speck o le pantofole di feltro e pelo di pony) si sarebbero potuti acquistare in uno qualunque dei molti negozi e negozietti meridianesi in qualunque periodo dell'anno, con una particolarità però: il prezzo normale, ossia alto, ma non esageratamente alto o disumanamente alto. Invece baracche e baracchette (e baraccone) possedevano il potere magico di far levitare o anche lievitare i prezzi. E si capisce: le baracche le dovevi costruire, poi montare, poi le dovevi riscaldare e illuminare e poi pagare la più che salata tassa detta plateatico o affine. Insomma i già salati prezzi meridianesi diventavano, per i prodotti del Mercatino, ancor più salati, salatissimi, salamoia pura di prezzi. È per questo che nessun indigeno meridianese si sarebbe mai azzardato a comprare alcunché al Mercatino di Natale, nemmeno una stecca d'incenso automatico. Se lo avesse fatto, lo avrebbero tutti additato al pubblico disprezzo: “quello lì, vedi, sì, proprio quello, proprio lui, ha comprato qualcosa al Mercatino di Natale. Cosa? Al Mercatino? Lui? Un meridianese nativo, con la testa sulle spalle?! Non ci posso credere! Eppure...”.
Ma tali prezzi spaventosi non avevano alcun valore deterrente rispetto ai Pellegrini del Mercatino, che, si sa, accorrevano in massa verso le innumerevoli baracche e baracchette e baraccone.
Da dove venivano costoro? Da dove provenivano i torpedoni da cui scendevano queste fiumane di gente, riversandosi festosi e vocianti tra le baracche del Corso?
I pareri divergevano: c'è chi diceva che fossero lombardo-veneti travestiti da asburgici (con loden verdi o blu o grigi, con giacche e giacconi tirolesi dal colletto rigido, con cappelli di feltro completi di piume di fagiano o pennelli di tasso) e c'è chi diceva che fossero invece asburgici travestiti da lombardo-veneti (come fossero vestiti questi non potrei scriverlo perché non verrei creduto). La seconda ipotesi è però assai più debole da sostenere, dato che un asburgico poteva (e può) godere di ottimi Mercatini Natalizi dalle sue parti, senza bisogno di venire a visitare quello di Meridiano, il quale, inoltre, non ha una tradizione millenaria o secolare, come quelli asburgici, ma solo assai limitata nel tempo. (C'è chi diceva che quella del Mercatino di Meridiano fosse la tipica Tradizione Inventata buona per turisti allocchi – ma io mi rifiutavo e rifiuto tuttora di credere alle malelingue che l'avevano diffusa, una simile diceria infondata).
Fossero asburgici o lombardo-veneti o di altra provenienza, venissero da vicino o da lontano, erano tutti comunque all'oscuro di quel fenomeno particolarre detto “cambiamento climatico”, perché i loro abiti, di qualunque foggia fossero, erano pur sempre piuttosto pesanti, spessi, corazzati quasi (un po', per intenderci, alla “Paperino nel Klondike”), sicché sudavano le classiche sette camicie, trascinandosi da una baracchetta all'altra, carichi di merci appena acquistate (a carissimo prezzo) sotto il tiepido sole meridianese decembrino.
A modesto sollievo della pena potevano deliziarsi con il coro di voci bianche di Meridiano, che non mancava mai di intonare la celestiale melodia dell'Inno Natalizio Meridianese, composta dal Maestro Groll: “È Natale/tutti ci vogliamo più male/ci stringiamo, ferendoci, le mani acuminate/è Natale, sotto con le gomitate.