Giorgio Manganelli due volte postumo

30 Dicembre 2024

Giorgio Manganelli è uno scrittore che ha pubblicato, si sa, più da morto che da vivo, prerogativa del resto perfettamente coerente con la sua idea funebre di letteratura (“la letteratura è dalla parte della morte”). Adesso l'editore Sellerio dà alle stampe un lepido volumetto, dal titolo Il vescovo e il ciarlatano, sottotitolo: inconscio e letteratura: l'incontro con Ernst Bernhard, e questo va ad accrescere ulteriormente la già nutrita bibliografia postuma del Nostro. Ma in modo, per così dire, doppio, dato che nel 2001 questo testo era già apparso per le purtroppo ormai defunte edizioni Quiritta di Roma del compianto Roberto Parpaglioni. Il curatore del libro è sempre lo stesso: Emanuele Trevi, che dedica la sua pregevole postfazione allo “spazio psichico” di Manganelli. Ad aprire il libro sta invece una conversazione, di Manganelli naturalmente, con Caterina Cardona.

Va aggiunto che il sottotitolo dell'edizione Quiritta era però diverso, lo trascrivo per completezza dell'informazione: inconscio, casi clinici, psicologia del profondo. Scritti 1969-1987. Non so che significato attribuire a questo mutamento (molto probabilmente spostare l'attenzione sul ruolo decisivo avuto da Bernhard nella nascita della scrittura manganelliana), né se esso sia magari a sua volta in qualche modo psicanalizzabile. Emanuele Trevi cita comunque questo testo (nella precedente edizione) sia nel romanzo su suo padre, il noto analista Mario (Trevi), La casa del mago (2023) alle pp. 198-200, sia nell'appena uscito Invasioni controllate, che è poi una lunga intervista fatta per l'appunto al padre, uscita una prima volta nel 2007, p. 69.

Ernst Bernhard è una figura chiave nella vita di Manganelli. Il fatale incontro tra i due stato rievocato con partecipazione da Pietro Citati in uno scritto del 1992, che Trevi cita per esteso nel suo saggio finale. E anche dalla figlia di Manganelli, Lietta, nella sua biografia del padre uscita due anni fa (Aspettando che l'inferno cominci a funzionare), in cui lo definisce senza mezzi termini come un'autentica “salvezza”. Riassumendo brutalmente e rozzamente, è a questo analista di scuola junghiana, tedesco, ma romano d'adozione (dal 1936) che si deve la trasformazione del Nostro: da professore a scrittore, per così dire. Bernhard in un certo senso “sbloccò”, “liberò”, o anche “scatenò” l'inconscio del Manga (come lo chiama la figlia) e ne nacque Hilarotragedia, uscita nel 1964, “capziosa autobiografia in forma di trattatello blasfemo” come la definì Alfredo Giuliani. E poi ne nacque anche tutto il resto, tutta la fluviale produzione di testi geniali che in un modo o nell'altro continuano ad uscire ancora adesso, a più di trent'anni dalla morte.

Nel testo presente Manganelli sostiene che Bernhard gli insegnò a mentire, ad avere non una ma più biografie, possibilmente in contrasto l'una con l'altra, dato che chi dice la verità (posto che esista) ha una vita sola, chi mente ne ha molte. Ma menzogna e verità possono essere così inestricabilmente intrecciate che l'unica asserzione possibile risulta quella celebre e paradossale del Cretese: Crizia cretese afferma che tutti i Cretesi sono mentitori.

Bernhard non voleva guarire il paziente, voleva assegnare semplicemente ad ognuno la malattia che gli spetta, e non un'altra, perché la malattia è nient'altro che un'iniziazione, un'iniziazione a se stessi, una forma particolare di quello che Jung chiamò il “processo d'individuazione” di ognuno di noi, e che Bernhard, sulla scia di Driesch, e di Aristotele, chiamava invece “entelechia”.

Per Bernhard l'entelechia è più o meno l'equivalente del destino individuale, disegnato tutto intero nelle linee della mano (egli era anche un notevole chirologo), così come è reperibile anche nel quadro astrale natale (era particolarmente versato pure nell'astrologia) e consultabile al bisogno mediante le monete dell'I Ching (o I King come scrive Trevi). Trevi, sempre, sottolinea che in questo analista tedesco ma romano, ebreo ma non sionista (lo fu solo in gioventù), sostanzialmente apolide, Manganelli poteva ritrovare una volontà di libertà, e di spaesamento, che consentiva al singolo di non farsi mai riassorbire all'interno di quei nefasti concetti noti sotto il nome di patria, collettività, comunità eccetera. La libertà è anche quella di perdersi, o di naufragare. O soprattutto quella di perdersi e naufragare.

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Bernhard da vivo non pubblicò che un testo, nel 1961, sulla rivista di Chiaromonte, Tempo presente. Uno scritto molto denso sul “Complesso della Grande Madre”, dove asseriva, con dovizia d'esempi, che in Italia, a differenza che in altri paesi europei, domina l'archetipo della Grande Madre Mediterranea, quello che può essere associato, fra l'altro, alle figure mitologiche di Astarte, Cibele, Ishtar, Iside o Demetra. Un testo che sarebbe da meditare profondamente anche oggi, periodo in cui si parla molto di patriarcato italico, ma in una maniera che Gadda avrebbe definito, credo, piuttosto “cinobalanica”. Quest'unica pubblicazione si può trovare nella raccolta di testi di Bernhard uscita postuma nel 1969 da Adelphi e intitolata dalla curatrice (Hélène Erba-Tissot) Mitobiografia, dato che per l'analista tedesco-romano-apolide si trattava di “far affiorare alla luce il mitologema che sta alla base del destino del singolo”. La radice mitica che alberga in ognuno di noi. Manganelli recensì all'epoca il volume (è lo scritto che apre la presente raccolta) e così lo definì: “questo singolare oggetto, che, propriamente libro non è, né di Bernhard, sebbene scritto interamente da lui”. Ebbene, di quanti libri postumi di Manganelli, curati e assemblati da altri, non si potrebbe dire esattamente lo stesso (compreso quello di cui stiamo parlando)? Singolare coincidenza di destini!

Siccome poi l'opera di Manganelli gode della proprietà fondamentale degli oggetti frattali, ossia l'auto-similarità, nel senso che qualunque sua porzione, per quanto circoscritta, riflette sempre l'intero, non stupisce ritrovare, e proprio in questa recensione al libro di Bernhard, le due parole chiave del Nostro, ossia STEMMA e OMBRA. “Minacciosi stemmi” e “luoghi privilegiati e angosciosi dell'ombra”, questo ritrova, fra l'altro, in queste pagine Manganelli (pp.40-41). Ossia i due poli, che, secondo il Discorso dell'ombra e dello stemma (1982) stanno alla base di tutto ciò che si scrive, la Fine del mondo e l'Avvento del regno, che sono la stessa cosa, ma declinata l'una secondo la grammatica dell'Ombra, l'altra dello Stemma. Tradotto alla bell'e meglio e molto approssimativamente potrebbe anche suonare così: l'Ombra, ossia i mostri inferi che abitano il nostro inconscio, deve essere trattata con le più accurate procedure della Retorica (qui, p. 116, è menzionata quella, anonima, Ad Herennium) e così assurgere a dignità araldica di Stemma. Più o meno.

Né può meravigliare che il teorico della natura “discenditiva” dell'essere umano, “ade-diretto”, colleghi qui, in una stupefacente relazione a un congresso di analisti junghiani (che ne saranno rimasti assai stupefatti), la letteratura a Lucifero, angelo caduto, precipitato e comunque all'Inferno in genere, autentico centro della letteratura, per quanto decentrato. (Non si può far altro, in questo caso, che ricordare Dall'Inferno, 1985, dove era detto a chiare lettere che “l'Inferno non ha confini, perché è dappertutto”).

Così come quando recensisce due opere di Ania Teillard, una dedicata al sogno, l'altra alla grafologia, e scrive “grafia e sogno: l'una e l'altro indizi della sterminata mitologia che brulica sotto l'avarizia della nostra esistenza”, non possiamo che rifarci alla memorabile formulazione del Discorso sulla difficoltà di comunicare coi morti: “e tutto ho scritto intingendo la spennata penna del mio ingegno nel mio negrissimo inchiostro interiore; così come gli uomini compilano i propri sogni, intingendosi, pennini di se medesimi, nel calamaio della notte”.

Anche in questa raccolta di scritti d'occasione, recensioni, conferenze, ricordi, emerge prepotente l'immagine (o l'imago?) di Giorgio Manganelli: scrittore dal tratto ieratico e buffonesco, impastato di tenebra e di luce, un po' vescovo e un po' ciarlatano, esattamente come uno psicoanalista, attuale nella sua, usiamo un aggettivo prettamente manganelliano, fastosa inattualità.

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