Le fotografie di un maestro del colore / Josef Albers, le linee del santuario

17 Aprile 2021

È vero, come dicono molti critici, che quando si pensa a Josef Albers, tendiamo ad associarlo al quadrato o, meglio, alla serie dell’Omaggio al quadrato con i diversi accostamenti di colore. Eppure la stessa ripetizione quasi ossessiva di una forma, la variazione delle proporzioni di quei quadrati che ci appaiono sovrapposti, la scelta delle diverse sfumature, la vicinanza di varie tinte, la presenza di abbozzi accanto a studiatissime realizzazioni, ci sembra contenere un enigma. C’è però un’opera dell’artista, questa volta in bianco e nero, che riesce ancor più enigmatica: si tratta di una litografia del 1942 dal titolo Sanctuary, della serie Grafic Tectonic, costituita da una serie di linee rette che si espandono attorno ad alcuni rettangoli neri, catturando il nostro sguardo in un continuo slittamento di prospettive, in una visione immaginata dall’alto di un monumento precolombiano. Per cercare di comprendere che cosa Albers vedesse nelle piramidi zapoteche, azteche e maya e che cosa cercasse in queste antichissime costruzioni, dobbiamo però fare un passo indietro e ricostruire i fili che tengono insieme la sua ricerca.

 

Josef Albers, Sanctuary, 1942, litografia, The Josef and Anni Foundation.


Josef Albers (Bottrop 1888 – New Haven 1976) ha iniziato la sua attività artistica con la lavorazione del vetro, ereditando dal padre artigiano l’interesse per lo studio e la manipolazione dei materiali, ha poi frequentato la scuola del Bauhaus a Weimar, dove divenne insegnante nel corso preliminare nel 1923, dopo le dimissioni di Johannes Itten. Ricerca e didattica si intrecciano in un metodo rigorosamente basato sull’esperienza: il maestro chiede ai suoi studenti di costruire oggetti con il cartone ondulato, con la rete metallica, con la plastica, con la carta, di sperimentare con il vetro, il legno, i metalli e la fotografia, l’incisione e l’arte tipografica. A Weimar Josef Albers conosce Annelise Else Frieda Fleischmann che diventerà sua moglie e sarà conosciuta con il nome di Anni Albers, una raffinatissima artista della tessitura (non aveva potuto, in quanto donna, seguire il corso sul vetro), la cui ricerca pratica e teorica sulla luce e sul colore si intreccerà per tutta la vita con quella del marito. La coppia si trasferisce in America nel 1933 dove Josef e Anni insegnano per sedici anni al Black Montain College, nel North Carolina, nei pressi di Asheville, un istituto appena fondato, laboratorio sperimentale, democratico, erede del Bauhaus, ispirato alla filosofia dell’esperienza estetica di John Dewey.

 

In questo contesto si colloca l’interesse di Josef e di Anni per il Messico. Il primo viaggio, con Theodore e Barbara Dreier, dirigenti del College, data dal 26 dicembre del 1935 al 21 gennaio 1936; ne seguono altri tredici. «Il Messico è davvero la terra promessa per l’arte astratta» scrive Albers in una lettera che i due rivolgono ai coniugi Kandinskij il 22 agosto 1936. L’interesse degli Albers è rivolto a diversi aspetti della terra messicana: in primo luogo si tratta di un movente professionale, legato a una mostra di sculture in legno di Josef, ma questo permette loro la conoscenza di alcuni pittori impegnati, tra cui Diego Rivera, il pittore dei murales sulla rivoluzione messicana, e José Clemente Orozco, anche lui autore di grandi dipinti, ma segnati dal tema della sofferenza. Accanto a questi Anni cita anche il pittore guatemalteco Carlos Merida, che diventerà loro amico e si recherà al College, e Jorge Juan Crespo de la Serna, che sono più vicini alla ricerca pittorica astratta e forse anche più vicini al carattere contemplativo e non ideologico di Josef.

 

Gli Albers sono però anche incuriositi dall’arte popolare: Anni è interessata ai tessuti e ai tappeti dai colori brillanti e dagli accostamenti azzardati, che riproduce poi nelle sue tessiture pittoriche. Josef osserva le forme e i colori delle abitazioni tradizionali a cui dedicherà, tra il 1946 e il 1966, la serie delle Variazioni su tema, in particolare quelle degli Variant / Adobe, ispirati alle case messicane tradizionali costruite con mattoni crudi essiccati al sole (adobe) e preludio agli Homages to the Square. La tecnica, come ha spiegato Marco Pierini, prevede l’uso del colore a olio ricavato direttamente dal tubetto, la scelta della masonite e non della tela, il divieto di sovrapporre i colori, lo spazio coperto dal colore secondo proporzioni precise e misurate (Josef Albers, a cura di Marco Pierini, SilvanaEditoriale, Cinisello Balsamo 2011). Lo scopo è quello stesso dichiarato nell’importante libro Interazione del colore del 1963: far interagire, far giocare i colori tra loro, colori astratti, pezzettini di carta colorata affidati agli studenti per studiare gli accostamenti, colori del tubetto, a cui è tolta via, è strappata ogni contaminazione con la trama materiale del supporto o, per lo meno, purificata il più possibile.

 

Studio per un Variant / Adobe, ca. 1947.


Tutti e due collezionano piccoli oggetti antichi che emergono dagli scavi e che i locali vendono ai turisti. È però davanti ai monumenti dell’arte antica che gli Albers si accostano con vera curiosità e meraviglia. Destinazione frequente è la capitale, Città del Messico, dove visitano più volte il sito archeologico con la doppia piramide azteca di Tenayuca con il suo muro di serpenti, probabilmente dedicata al culto solare. Nei dintorni gli Albers visitano anche Cuernavaca con i resti zapotechi della Pirámide de Teopanzolco e il grande sito di Teotihuacán, la città azteca con il suo centro cerimoniale attraversato dal viale dei Morti su cui si affaccia la piramide del sole e che si conclude con quella della luna. Anche la zona di Monte Albán e di Mitla, vicino a Oaxaca, nel Messico centrale, è oggetto di ripetute visite alla ricerca di monumenti, mosaici e affreschi nelle tombe della civiltà zapoteca. 

Negli anni Quaranta e Cinquanta gli Albers visitano nella penisola dello Yucatán le rovine maya di Chichén Itzá, attratti dagli elementi formali delle costruzioni, in particolare dalla piramide di Kukulcán associata, nel numero dei gradini e nelle ombre dei serpenti che si formano all’equinozio, agli eventi cosmologici. Nell’altro importante sito maya dello Yucatán a Uxmal ammirano la Grande Piramide e il complesso centro del cosiddetto Quadrilatero delle monache con i mascheroni e i rilievi.

 

Josef scatta migliaia di fotografie, raccoglie cartoline e costruisce dei photocollage alla maniera di Warburg. Il suo sguardo è diretto, non è quello dello storico dell’arte, ma dell’artista che si accosta all’opera d’arte antica per coglierne il segreto, per ricavarne la struttura essenziale che in questo caso sono le linee labirintiche delle piante degli edifici e i disegni geometrici dei rilievi e dei fregi che li adornano. Queste linee tornano nelle sue opere grafiche e pittoriche, nel dipinto del 1940 To Mitla, nella serie già citata Graphic Tectonics, in cui compare anche uno studio del 1942 su Monte Albán, nel dipinto Tenayuca del 1943 e in molti altri. Anche Anni riproduce nelle sue eleganti tessiture le trame astratte delle costruzioni precolombiane. Come nel caso delle ricerche sul colore, le linee, il disegno, i fili intrecciati dei tappeti sono il risultato di un’operazione perseguita da entrambi con tenacia e con metodo, di quell’«impulso all’astrazione» che Wilhelm Worringer indicava, accanto all’empatia, come una delle fonti principali della creazione artistica.

 

Teopanzolco, Cuernavaca, 1937.


Molte foto scattate da Albers si trovano nel libro Messico 1935/1956. Testi di Anni e Josef Albers, Brenda Danilowitz e Luca Galofaro, pubblicato ora dalla casa editrice Humboldt Books. Il testo in apertura è la già citata lettera degli Albers ai Kandinskij, che faceva parte della raccolta delle lettere curata da Maria Passaro e pubblicata da Mimesis nel 2013. Il testo di Brenda Danilowitz, curatrice della Fondazione Anni e Josef Albers, è centrato sull’idea del Messico degli Albers come una sorta di nuova casa e si interroga sulle ragioni che trattennero la coppia dallo scegliere quel paese come luogo in cui risiedere.  Luca Galofaro si concentra invece sulle fotografie di viaggio come fonte di ispirazione per la produzione artistica di Josef Albers, sottolineando con forza che non si tratta di immagini in cui l’autore punta a un valore estetico, ma di una specie di quaderno di appunti per opere future. È senz’altro vero che queste fotografie non sono state mai pubblicate dall’autore e che hanno costituito una sorta di serbatoio per il lavoro di pittura e di grafica, ma va sottolineato che Josef Albers aveva già lavorato con la fotografia al Bauhaus a partire dal 1928, quando comperò la sua prima macchina fotografica.

 

 

 

Si tratta di fotografie documentate in alcune mostre americane (Josef The photographs of Josef Albers: a selection from the collection of the Josef Albers Foundation, The American Federation of Arts. 1987; Josef Albers, A Rectrospective, Salomon Guggenheim Museum, New York 1988) e nel volume citato a cura di Pierini, in cui compaiono degli scatti che ritraggono amici, colleghi, studenti, manichini in vetrina, opere d’arte e paesaggi. Nella natura la ricerca coglie, con piglio a volte curioso e ironico, la regolarità, le linee parallele, la ripetizione, così come nelle fotografie di edifici. Spesso le foto vengono montate su un cartoncino in forma di sequenze con le diverse espressioni quasi fotogrammi di un filmato, mentre i cartoncini che Albers comporrà negli anni Cinquanta saranno collage di foto, cartoline e ritagli di particolari architettonici, bassorilievi, vetrate, sculture e esterni soprattutto di chiese e arte sacra in Messico, ma anche in Germania, che accostano elementi strutturali simili in una rinnovata ricerca affidata al suo archivio personale (vedi Albers. Spiritualità e rigore, Spirituality and Rigor, a cura di Nicholas Fox Weber e Fabio De Chirico, SilvanaEditoriale 2013).

 

Anche nelle foto del Messico ricompare la stessa ricerca estetica negli scorci che mettono in rilievo le prospettive particolarissime delle scalinate delle piramidi, che si ferma a osservare i fregi che adornano i palazzi, i ghirigori delle linee e i giochi delle ombre e delle luci, accentuati dalla fotografia in bianco e nero. Anche i ritratti di Anni e degli amici, di persone incontrate per caso e colte in espressioni sorprese o pensose ci rivelano uno sguardo interessato e partecipe, talvolta in composizioni che ripropongono il modo di accostare le immagini e di montarle che caratterizzava la ricerca di tutta una vita. Una vera e propria creazione artistica.

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