Rosa: da Pontormo alla Pantera
Il rosa non è un colore dello spettro, non rientra nel novero dei colori considerati primari, deriva dalla mescolanza di pigmenti rossi e bianchi, tuttavia Michel Pastoureau nel suo nuovo libro Rosa. Storia di un colore (trad. it. di Claudine Turla, Ponte alle Grazie, Milano 2024) lo considera a tutti gli effetti un colore, degno di una sua specifica storia, anche se travagliata e tortuosa e ripropone anche per questo «semi-colore» un percorso storico che si aggiunge ai suoi lavori cromatici.
Il rosa fa parte della gamma dei rossi, ma – avverte Pastoreau – non da sempre: per un lungo periodo non aveva nemmeno un nome ed era compreso nella serie dei gialli, definito come un giallo pallido tendente all’arancione. In effetti il rosa, anche per noi, si colloca con difficoltà in una rappresentazione lineare dei diversi colori. Pensiamo a dove collocare nella scatola delle matite la matita rosa: tra il giallo e l’arancione? tra l’arancione e il rosso? eppure vediamo che il rosa non tende in alcun modo al giallo, ma nemmeno lo contiene. Mettiamo la matita rosa dopo quella rossa, anche se è più chiara?
La ricostruzione di Pastoureau spiega che il rosa prende il suo nome a partire dal XVIII secolo; lo prende da un fiore, dalla rosa in italiano, francese e tedesco, dal garofano in inglese (pink). Questo non significa che prima del Settecento gli uomini non vedessero il rosa in natura e nemmeno che non lo si usasse in pittura. C’è un quadro che sembra alludere a questo enigma, quando il nome ‘rosa’ ancora non era in uso.
La scorsa settimana ero a Firenze in occasione di un convegno e ho voluto rivedere La Deposizione di Jacopo da Pontormo: è uno stupendo dipinto su tavola, datato circa tra il 1526 e il 1528, collocato nella Cappella Capponi di Filippo Brunelleschi, appena a destra dell’ingresso della chiesa di Santa Felicita, vicino a Ponte Vecchio. La composizione rende l’atmosfera sospesa, l’atteggiamento quasi attonito di fronte a un evento così tragico da non poter essere davvero accaduto. Gesù, sorretto da due giovani e da una donna che gli tiene pietosamente sollevata la testa, è dipinto con un bruno chiarissimo, più scuro però del corpo, decisamente rosa, del giovane accovacciato che lo sostiene. Le analisi chimiche, fatte in occasione del restauro, hanno rivelato che gli incarnati sono stati ottenuti con stesure di ocra, biacca e cinabro e velature di lacca di robbia, il legante è tempera a uovo. Il rosa della schiena del ragazzo è esaltato dalle velature della lacca di robbia che intensificano il contrasto con l’incarnato del Cristo morto. Qui interessa proprio che si tratti di due colori diversi per rendere la pelle e che il rosa sia davvero un rosa acceso.
I colori del Pontormo, che tra l’altro non piacevano al Vasari, presentano quindi il massimo divario dell’“incarnato”, termine che, secondo Pastoureau, era usato prima che il rosa trovasse posto nella classificazione dei colori utilizzati per riprodurre le tinte della pelle umana (ovviamente della popolazione bianca). Se il rosa è il colore dell’incarnato, l’incarnato non è però sempre rosa e il rosa è anche colore di altri oggetti e altre cose. Non solo “incarnato” è termine ambiguo, ma anche molti altri esempi che Pastoureau ci propone sembrano oscillare verso il colore arancione come, tanto per fare un solo esempio, nel caso della veste della donna ritratta da Johannes Vermeer nel quadro Due gentiluomini e una fanciulla con bicchiere di vino (p. 105).
Del resto di questa ambiguità è consapevole lo stesso autore che ci propone, come sempre, un racconto avvincente. Il taglio esclusivamente culturale, che si colloca non contro, ma a lato dell’approccio scientifico e psicologico, comprende la storia dell’arte e della tintura, l’analisi degli scritti teorici a partire dal mondo antico fino al Settecento veneziano e francese, la storia dei pigmenti, dell’abbigliamento, della cosmesi e della lingua.
Il colore rosa prende quindi il nome dal fiore verso la fine del Seicento sia per le nuove coltivazioni delle rose che ne ampliano i colori e le sfumature, sia per la massiccia importazione dei legni tintori dal Brasile, paese il cui nome sembra proprio derivare dal colore del legno rosso. In seguito il rosa trionfa alla corte di Luigi XV per iniziativa di Madame de Pompadour, la favorita del re, che, a sua volta, dà il nome al rosa-lilla di alcune porcellane. Con il Romanticismo il rosa viene associato alla bellezza, alla dolcezza, all’allegria e al fascino femminile, portando con sé anche la declinazione opposta dell’ingenuità, del sentimentale e dello sdolcinato dei romanzetti “rosa confetto” (diremmo in italiano) del periodo successivo. Così anche nel vestiario il rosa passa dalle vesti maschili a quelle femminili fino a diventare un colore equivoco come in alcuni quadri di Toulouse-Lautrec nei quali colora i luoghi della prostituzione. Nel Novecento i momenti più negativi del rosa sono legati all’erotismo pornografico che si associa al nuovo colore del mantello del maiale, il porco, fino al famigerato triangolo rosa imposto agli omosessuali maschili nei lager nazisti.
Il libro si conclude però con leggerezza; dopo l’analisi del ruolo della bambola Barbie e del colore Shoking Pink, lanciato dalla stilista Elsa Schiapparelli con il relativo profumo, venduto in un flacone che riproduceva la forma di un busto femminile, Pastoureau ci parla del successo della Pantera rosa, il personaggio elegante e silenzioso del fumetto di Richard Williams, che si muove con passo cadenzato al suono delle note di Henry Mancini, ingannando, con repentini e surreali cambiamenti del disegno e della prospettiva, l’ingenuo ispettore Clouseau.
La convinzione di Pastoureau che il colore non esiste di per sé, che non è una cosa astratta, separabile dal suo supporto e dalla sua concretezza materiale» (p. 148), ha dato vita a un’indagine storica originale che verrà riproposta, come promesso dall’autore, anche per gli altri colori cosiddetti “misti”: il viola, il grigio, il marrone (il bruno?) e l’arancione.