Colori, tonalità, emozioni

18 Luglio 2023

«Una storia del mondo secondo il colore», The World According to Colour, come nel titolo inglese: così James Fox ci spiega il taglio del suo nuovo libro, Il mondo dei colori. Una storia culturale in sette tonalità (traduzione di Francesca Pe’ per Bollati Boringhieri, 2023). Il testo non è in effetti solo una storia culturale o una storia dell’arte, perché dà al colore una funzione fondamentale nella costruzione dell’identità dell’uomo, muovendosi tra varie discipline con uno sguardo antropologico. Il nero allora richiama le tenebre dell’oscurità primigenia, meglio descritta dal termine ebraico khoshekh, una parola gutturale, quasi uno sputo, colore di Satana e della malinconia, ma anche nero cinese e giapponese, descritto dal termine yūgen, profondo, misterioso, capace di accogliere in sé la luce, come nelle lacche nere e nelle infinite sfumature della pittura a inchiostro dei maestri zen. Il rosso è invece il colore delle emozioni e del sangue, «affiora dentro di noi, parlando del corpo e al corpo» (p. 81), come viene presentato in modo sorprendente nelle Siluetas di Ana Mendieta nel Messico degli anni Settanta. Il giallo diventa subito oro, associato alla luce e al sole e alle spezie dorate, ma l’autore ne segue anche il lato invecchiato, sbiadito, spregevole, fino a descriverlo come il colore del tradimento e dell’esclusione. Il capitolo sul blu ci porta a Venezia, alle prime botteghe dei vendecolori fino al blu di Tiziano e si conclude con la terra blu, vista dallo spazio (compare anche in un breve e delicato filmato che troverete sul sito dell’autore).

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Copertina James Fox, Il mondo dei colori.

Il bianco, in genere associato alla purezza, ci induce a scegliere igienici oggetti bianchi per le nostre case e perfino a sbiancare i cibi: la farina, lo zucchero e il riso; forse, scrive l’autore, perché associamo il bianco all’assenza, alla mancanza di colore, dato che gli oggetti bianchi respingono i raggi della luce che li colpiscono. Ma qui si presenta un paradosso del linguaggio: la luce che chiamiamo “bianca” contiene tutti i colori, ma essa è incolore, mentre nell’oggetto bianco non sembra esserci nessun colore: se mescoliamo pigmenti dei diversi colori non otteniamo il bianco, ma il grigio. Se ne era accorto lo stesso Newton che aveva paragonato il grigio che deriva dalla mescolanza dei colori della materia al colore dei topi e lo aveva ribadito anche Goethe. 

Il paradosso dell’uso della parola “bianco” ritorna, in modo diverso, nella definizione della razza bianca. Fox descrive l’origine di questo mito individuandone due radici: la convinzione filosofica della superiorità estetica del bianco, derivata dalla tradizione di Winckelmann ed epigoni (fino a Hegel) e l’esigenza di affermare la superiorità degli europei rispetto alle altre popolazioni colonizzate. Negli Statuti del Nuovo Mondo i legislatori inglesi disponevano di un termine, largamente accettato, per indicare gli schiavi africani: “neri”, mentre non esisteva un aggettivo per indicare gli europei. Così, nella prima metà del Seicento, racconta Fox, ci avevano provato con “cristiani”, ma era troppo ampio, e “inglesi”, troppo ristretto, per approdare alla fine alla parola “bianchi” (tutto al maschile), inserendo il termine nel sistema giuridico delle tredici colonie tra il 1644 e il 1691 (cfr. p 171s.). La definizione avrebbe poi trovato una sua legittimità pseudoscientifica nella classificazione di Linneo e sarebbe stato confermato dalle teorie settecentesche che consideravano originarie le popolazioni dette caucasiche, dalla pelle chiara, emigrate in seguito nel resto del globo. Un esempio straordinario di questa «cecità collettiva» (p. 176) che vede bianca la pelle degli europei è una pubblicità di fine Ottocento del sapone Pears che mostra un bambino dalla pelle nera che viene “pulito” dalla testa in giù, «lavando l’etiope» come si diceva fin dall’antichità per indicare invero un compito impossibile.

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Pubblicità del sapone Pears, fine Ottocento.

Dopo il capitolo sul viola chimico che il suo scopritore, l’inglese Perkin, chiamò con il nome dell’antica porpora di Tiro, e i viola che «abitano» le ombre dei pittori impressionisti, Fox conclude il libro con un innovativo capitolo sul verde che traccia anche la storia dei partiti verdi; nelle ultime pagine ci concede anche una nota di speranza, non a caso associata a questo colore: la possibilità di combattere, con gli ambientalisti moderni, il cambiamento climatico con l’arma del verde della clorofilla.

Fox ha scelto sette colori, semplicemente, dice, i sette primari di Aristotele e a ognuno ha dedicato un capitolo centrando per ogni colore un tema attorno al quale far ruotare gli altri con vari incroci tra considerazioni sociali, storia della scienza, teorie estetiche e pratiche artistiche. Molto più difficile risulta il taglio che Kelly Grovier ha dato al suo testo L’arte del colore (tradotto da Paola Vitale per 24ore cultura, 2023) impostando una storia dell’arte in trentanove pigmenti. 

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Copertina Grovier, L’arte del colore.

Certo appare affascinante l’idea di rendere soggetti della storia dell’arte i pigmenti che escono dal tubetto o si sistemano l’uno accanto all’altro, come d’incanto, sulla tavolozza, come spesso hanno notato gli artisti e come avviene a più riprese nella scrittura di Grovier che addirittura personifica alcuni pigmenti come, ad esempio, il blu oltremare facendolo interagire addirittura con la Madonna stessa in preghiera, raffigurata nel quadro di Giovan Battista Salvi, detto il Sassoferrato.

È proprio questo percorso che individua in molti casi l’uso di un pigmento piuttosto di un altro che si presentano le prime difficoltà: se per alcuni dipinti gli storici dell’arte o gli artisti stessi hanno chiarito con precisione l’uso dei pigmenti, in molti altri è quasi impossibile per il lettore valutare l’esattezza del richiamo in assenza di fonti esplicite o di analisi chimiche effettuate. 

Un secondo problema è dato dai nomi dei pigmenti che spesso contengono ambiguità terminologiche, come nel caso dell’ocra rossa, di cui esistono tante varianti con effetti visivi molto diversi. Anche il numero di trentanove, forse necessario per contenere la trattazione nei termini di un testo divulgativo, appare arbitrario, escludendo la possibilità di aggiungerne altri (il bianco di zinco o il bianco di titanio, ad esempio). Non aiuterebbe in questo caso nemmeno una classificazione dei colori come quella che troviamo nelle tabelle di colori a olio o acquerello in commercio, perché esse indicano alcuni pigmenti con il nome del passato (es. il giallo e l’arancione cromo), ma che derivano da composti chimici. La classificazione è davvero complessa: Philip Ball nel suo importante libro del 2001 sui pigmenti (Colore. Una biografia, tradotto nello stesso anno da Lorenza Lanza e Patrizia Vicentini per Rizzoli) aveva affrontato l’argomento con più cautela e con maggiore precisione scientifica riununciando anche a scandire i capitoli secondo i vari colori. Grovier raggruppa invece i pigmenti nei diversi capitoli che hanno per titolo un termine più astratto (rosso, giallo, ecc.) ma, se questo è possibile per una storia culturale, risulta fin troppo schematico per la complicatissima storia dei pigmenti che l’autore si prefigge di svolgere. Anche le schede sulla teoria del colore, su Newton, Goethe e altri, si limitano ad accennare con taglio giornalistico alle implicazioni scientifiche e filosofiche sostituendo alla disamina l’accostamento con un’opera pittorica che ne evoca le suggestioni.

In copertina, Il blu oltremare del manto di Maria nel quadro del Sassoferrato, Madonna in preghiera, olio su tela, 1640-1650, National Gallery, London. 

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